il manifesto 4.4.18
Chiediamoci perché l’egemonia è passata alla destra
di Giuseppe Buondonno
Non
credo si debba scomodare l’aggettivo storico per definire il risultato
del 4 marzo; anche perché – è la mia impressione – più si nomina la
storia e più si fa fatica ad alzare la testa dalla cronaca. In realtà,
queste elezioni (viste tanto da sinistra, quanto dallo sguardo
poliedrico del paese) stanno dentro un ciclo assai più lungo, esso sì
storico.
Ciò non vuol dire che non vi siano stati errori recenti o
contingenti; l’elenco sarebbe lungo e, in parte, viene ripetuto da più
voci. Ciò che, invece, credo, ci debba impegnare più seriamente è una
riflessione sulle ragioni profonde di questi errori; da un certo punto
di vista, essi non sono nemmeno rubricabili come tali, semmai mi
sembrano più il portato di una coazione a ripetere, il prodotto di una
mancata autocritica profonda, sulle ragioni per cui, ad esempio, il Pd
non da oggi ha cambiato pelle e sostanza o le grandi forze del
socialismo europeo sono divenute impotenti o mere esecutrici delle
ristrutturazioni neo liberiste. O, per altro verso, sul perché tutto ciò
che sta e stava alla sua sinistra non supera, non da oggi, il milione e
mezzo di voti e, soprattutto, non detta, se non in forma sporadicamente
difensiva, nulla dell’agenda politica, sociale e culturale del Paese e
del continente. Attardarsi sui singoli errori, senza comprendere di
quale cultura del cedimento siano figli, serve a poco; così come sono
fuorvianti i continui tentativi di palingenesi della sinistra, senza uno
sforzo sincero e profondo di comprensione del suo snaturamento e della
sua marginalità. Credo – lo dico con rispetto, ma con chiarezza – che,
ad esempio, chi ha condiviso o subìto, fino a meno di un anno fa,
decisioni e politiche nel Pd, debba riflettere un po’ più a fondo sulle
ragioni di quella trasformazione e della stessa propria fuoriuscita.
L’autocritica non è un atto formale o espiativo; è uno strumento di
analisi e un antidoto – neanche miracoloso – per evitare di riprodurre
dinamiche ed errori. Ed è un esercizio che serve a tutta la sinistra
europea. E se qualcuno pensa di attardarsi (ancora?!) a vedere cosa
accadrà nel Pd, senza pensare, invece, a delineare un profilo autonomo e
capace di riaggregare una forza critica, significa che non ne è mai
uscito veramente e, davvero, non è un interlocutore utile.
Se LeU,
ad esempio, vuole provare a diventare una forza politica, plurale ma
unita, capace di avere una identità, un profilo, un progetto di Paese e
di continente, se vuole sperare di ricostruire un filo con il popolo
italiano e con le classi subalterne, deve ripartire da una discussione
seria su dove e perché quel filo si è spezzato; e non è certo solo
quando è comparso Renzi. Un congresso? Una fase costituente? Purché sia
una discussione vera, non una conta interna per qualche, sempre più
improbabile, riposizionamento. Serve ascoltare chi ha votato a sinistra
(in qualche caso obtorto collo), ma soprattutto chi ha votato per altri,
le sue ragioni, persino le sue liquidità. Perché l’egemonia si
ricostruisce non ascoltando sé stessi (i pochi), ma i molti; soprattutto
quando non ti riconoscono la loro rappresentanza e, men che meno, lo
sforzo del loro impegno. Le riflessioni gramsciane sull’egemonia
nacquero dalla domanda su una sconfitta epocale; e quale lo è di più di
una situazione in cui, da trent’anni almeno, le uniche operazioni
egemoniche vengono da destra?
Per riuscirci serve un partito che,
per radicamento, permeabilità sociale e capillarità organizzativa,
ricordi i partiti del Novecento; per flessibilità comunicativa, per
semplicità nei linguaggi impari dai 5 Stelle (o, per evitare le allergie
di qualcuno, da Podemos); non una forza “di governo” (riflesso
condizionato di una stagione finita), perché chi governa lo decidono gli
elettori; bensì una forza popolare, perché solo quelle radici, tagliate
e da ricostruire, danno autonomia, legittimazione e senso ad un governo
democratico.
Non è una costruzione facile, né è scontato l’esito;
ma è il problema che avevamo prima delle elezioni e che oggi si
ripropone con gli interessi e senza più l’alibi della fretta.