La Stampa 4.4.18
Nella democrazia radicale tutti possono cambiare il mondo
Murray Bookchin (1921 – 2006) è stato un sociologo americano che ha teorizzato la democrazia diretta
Una
raccolta di saggi del sociologo americano sul Municipalismo libertario:
Marx rivisto e corretto con un pizzico di anarchismo. No allo Stato e
alle gerarchie, il modello politico adottato dai curdi in Siria
di Claudio Gallo
Può
sembrare superfluo parlare del futuro della sinistra, in un momento in
cui la sinistra appare pressoché estinta. Tuttavia, se non altro per
sfuggire alle litanie dei molti realisti che celebrano questo mondo come
il migliore possibile (e dunque immodificabile) leggere Murray Bookchin
è una boccata di aria fresca anche per chi non voglia iscriversi al suo
partito. Del padre americano del municipalismo libertario è stato
appena tradotto La prossima rivoluzione (Bfs Edizioni, pp 200, € 18),
saggi sulla costituzione di una società radicalmente democratica.
Cambiare
il mondo: ma come e soprattutto chi è in grado di farlo? Marx pensava
«scientificamente» al proletariato, ma il proteiforme capitalismo ha
sparigliato la carte: l’antagonista di classe di ieri è ridotto a una
minoranza fra le minoranze. E i «nuovi soggetti sociali» degli Anni 80 e
90 sono invecchiati come un qualsiasi oggetto di consumo. Dire noi è
diventato quasi impossibile oltre che deprecato dal pensiero dominante,
la percezione immediata di chi oggi pensa di cambiare le cose è io
contro il sistema: partita persa fin dall’inizio: non si fa la
rivoluzione sommando le idiosincrasie.
Bookchin parte
dall’osservazione che il capitalismo ha vinto ma non è riuscito a
superare la sue contraddizioni, le ha solo trasformate. Tra queste oggi
la più ingombrante è «lo scontro tra un’economia basata sulla crescita
infinita e la distruzione dell’ambiente naturale». Ma non l’hanno già
detto i verdi che stanno nei parlamenti? No, l’idea è molto più radicale
e conserva del marxismo la visione, al di là dell’ecologismo, che il
capitalismo come sistema di esclusione crei inevitabilmente i suoi
antagonisti, anche se non più nella forma unica del conflitto di classe.
Per
arrivare alla massa informe degli scontenti e degli oppressi, Bookchin
fa appello al patrimonio politico dell’anarchismo o del socialismo
rivoluzionario russo del XX secolo. A differenza di bolscevichi (e
fascisti) il nemico è dunque lo Stato e insieme qualsiasi organizzazione
gerarchica. Il municipalismo di Bookchin parte del basso, dalle
assemblee popolari, dalle città e propone come unico coordinamento
nazionale un sistema confederativo: c’è la comune parigina del 1871 nel
Dna della sua proposta politica. Lo slancio utopistico è però temperato
da un forte realismo. Scrive Bookchin: «Il municipalismo libertario deve
essere concepito come un processo, una pratica paziente che
inizialmente avrà un successo limitato e anche allora solo in aree
selezionate che forniranno esempi della possibiltà che si potrebbero
ottenere se adottate su larga scala».
Lo stesso realismo che si
trova nelle considerazioni sulla partecipazione alle assemblee popolari
che sarà sempre lungi dall’essere totale. La prima fase della
costruzione del progetto, la costituzione della base sociale, è
certamente la più difficile, una difficoltà che ha portato Frederic
Jameson a ipotizzare nel suo An American Utopia (2016) la costituzione
di un «esercito popolare» (disarmato, salvo indicazioni contrarie) come
struttura parallela che un tempo si sarebbe detta di classe.
Il
progetto di Bookchin è diventato realtà nell’area curda del Nord della
Siria dove il sociologo americano ha preso il posto di Marx nella
dottrina politica del Partito di unione democratica che controlla i
territori resisi autonomi da Damasco nel corso della guerra civile. La
cronaca recente, con l’invasione turca dei territori siriani abitati dai
curdi, getta però un’ombra cupa sui futuri sviluppi politici.
L’aspetto
più controverso del pensiero di Bookchin, al di là dell’antistatalismo
radicale, è forse la sua fede, consapevolmente illuministica, nella
ragione e nella capacità trasformativa della tecnologia: il
municipalismo può avere successo perché è la forma più razionale di una
società che valorizza i diritti umani e ottimizza le conquiste
tecnologiche. Tuttavia, dopo le osservazioni sulla tecnica di Heidegger,
i dubbi della scuola di Francoforte (senza dimenticare l’epistemologia
di Feyerabend) e dai noi la condanna di Severino, la fede nella
tecnologia usata umanamente rischia di sembrare ingenua. Senza futili
luddismi, la tecnica più che uno strumento appare a molti critici
contemporanei come una logica totale e impositiva, che concepisce i
valori umani solo al proprio interno. In modo cioè ben più limitato e
strumentale di quell’assolutezza che vorrebbero concedere loro gli
utopisti umanitari.