La Stampa 15.4.18
Nello Stato di Israele il popolo ebraico è tornato alla storia
A
settant’anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza parla lo scrittore:
“Con mia madre e mia sorella ero nel rifugio sotto casa, Gerusalemme era
assediata”
di Elena Loewenthal
«Avevo dodici
anni: con mia madre e mia sorella eravamo nel rifugio sotto casa,
insieme con tanti altri profughi di Gerusalemme. La città era assediata
dai giordani e dai palestinesi, non avevamo acqua, corrente elettrica,
viveri. C’era tanta paura. Per sei settimane restammo isolati».
Così
Abraham B. Yehoshua ricorda quel giorno di settant’anni fa in cui
nacque lo Stato d’Israele: era il 14 maggio 1948 ma secondo il
calendario ebraico l’anniversario cade quest’anno il 18 aprile, la
bandiera del morente Impero britannico era appena calata dopo trent’anni
di Mandato provvisorio sulla Palestina e Ben Gurion stava leggendo la
Dichiarazione d’Indipendenza in una modesta sala di quello che era
allora il Museo d’Arte di Tel Aviv, proprio davanti al punto di viale
Rothschild in cui un tempo c’erano dune di sabbia e una mattina d’aprile
del 1909 era stata fondata la città. Insieme all’indipendenza arrivò
anche la guerra, Gerusalemme era assediata dagli eserciti arabi che non
ne volevano sapere di quella risoluzione Onu che il 29 novembre 1947
aveva sancito la nascita di due Stati palestinesi: uno ebraico e uno
arabo.
Nella numerologia biblica settanta è il tempo nella sua
inafferrabilità: indica una durata indefinita. Così dice tra il resto la
Dichiarazione d’Indipendenza: «In Eretz Israel è nato il popolo
ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e
politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori
culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l’eterno
Libro dei Libri. Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua
terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non
cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel
ripristino in essa della libertà politica».
Yehoshua, che cosa
hanno significato il sionismo e la nascita d’Israele, per gli ebrei
della Diaspora e per chi, come la famiglia di suo padre, viveva in terra
d’Israele da molte generazioni?
«Il sionismo è il nome della
medicina per una malattia ebraica atavica e satura di rischi, una
malattia che si chiama Galut, cioè esilio e dispersione al tempo stesso.
Che non solo ha decimato il popolo ebraico - erano tre milioni nel
primo secolo d.C. e un milione all’inizio del XVIII secolo - ma ha anche
provocato tragiche persecuzioni il cui culmine sta nell’abisso più
terribile mai attraversato da un popolo nella storia umana, la Shoah. In
cinque anni un terzo degli ebrei d’Europa è stato sterminato non per
motivi territoriali o religiosi, non in nome di un’ideologia o per il
suo patrimonio. Pur non essendo mai stato una razza, il popolo ebraico è
stato sterminato per via di una aberrante teoria razziale.
«Perciò
il sionismo è fondamentalmente una ricerca volta a normalizzare
l’esistenza ebraica e trasformare gli ebrei in un popolo come gli altri,
padrone di sé e del proprio destino in un territorio con dei confini
chiari. È naturale che l’unica terapia per la malattia della Galut sia
la patria atavica del popolo ebraico, là dove esso era stato sovrano di
sé per più di 15 secoli. Theodor Herzl, giornalista viennese di 36 anni,
aveva compreso l’urgente bisogno di normalizzazione del popolo ebraico,
o quanto meno di una sua parte, e con scarsi mezzi e ben poco tempo (è
morto a soli 44 anni) è riuscito a innescare la scintilla della
rivoluzione sionista, perciò è ora considerato il padre della nuova
nazione israeliana».
Theodor Herzl stesso ha detto che, al di là
dei suoi obiettivi concreti, il sionismo deve essere un «ideale
infinito»: che cosa significa? Si può dire che malgrado abbia raggiunto
il proprio obiettivo, quello cioè di ridare una patria agli ebrei
dispersi per il mondo, il sionismo sia ancora valido, vivo - e
necessario?
«Il sionismo non è una ideologia bensì una piattaforma
comune per ideologie diverse e persino contraddittorie. Socialismo,
religione, liberalismo borghese, nazionalismo estremista e tanto altro
ancora. Le divergenze politiche non sono dissimili da quelle cui si
assiste in ogni paese: riguardano questioni economiche, i confini
fisici, la sicurezza nazionale, i rapporti con la minoranza palestinese e
tanto altro. L’unico comune denominatore che dà a tutto ciò la natura
di “sionismo” è la Legge del Ritorno, vale a dire che ogni ebreo del
mondo ha diritto alla cittadinanza dello Stato d’Israele perché questo
era anche l’intento della risoluzione Onu del 1947, che prevedeva la
spartizione di Terra d’Israele e Palestina tra i due popoli. Lo Stato
ebraico deve rappresentare la soluzione per l’ebreo perseguitato ovunque
si trovi nel mondo, e permettergli di trovare rifugio qui».
Lei
ha attraversato tutta la storia di questo Paese da quel giorno del 1948 a
oggi. Ha vissuto quotidianamente nel farsi di questa storia. E non è
certo stata una storia noiosa, monotona. Che cosa cambierebbe di questi
settant’anni, se avesse la possibilità di cambiare il corso del passato?
«La
cosa più grave e superflua che lo Stato d’Israele ha fatto dopo la
guerra dei Sei Giorni, nel 1967, è stata la creazione degli insediamenti
nel territorio palestinese della West Bank, unitamente all’annessione
di Gerusalemme Est. Se così non fosse stato, si sarebbe potuto creare
uno Stato palestinese accanto allo Stato d’Israele e stabilire tra essi
rapporti pacifici, come è avvenuto con Egitto e Giordania. È stato un
errore fatale che finirà col portare a uno Stato binazionale in terra
d’Israele, con tutti i gravi problemi che questa entità politica
comporterà».
Israele è un Paese «bipolare»: nasce su radici
millenarie, bibliche, in nome di una spinta profondamente moderna.
Contiene in sé Gerusalemme, che nella tradizione ebraica è non solo il
centro del mondo ma anche il punto fisico da cui è cominciata la
creazione, e Tel Aviv che è la città senza passato, tutto protesa al
futuro. In questi settant’anni Israele ha riportato l’ebreo alla sua
terra, anche e forse soprattutto fisicamente, nel lavoro dei campi, nel
sogno di far fiorire il deserto, ed è diventato la Start Up Nation, dove
s’inventa il futuro. Come si vive in questa sorta di vertigine
temporale?
«Il popolo ebraico ha costruito la consapevolezza del
proprio passato sui miti, non su una base storica vera e propria. Dato
che era disperso tra molte e diverse nazioni, ed era in contatto con
culture diverse e lingue diverse, la memoria nazionale si è fondata
soprattutto su una memoria religiosa, che per sua natura è mitologica,
non storica. Per questa ragione, tornando alla sua terra storica, il
popolo ebraico è tornato alla storia, come ha detto il grande studioso
di pensiero ebraico, il professor Gershom Scholem. Il mito non è
possibile cambiarlo, solo commentarlo, dispiegarlo. Mentre la storia la
si può apprendere, se ne possono correggere gli errori e la si può
rendere migliore, per rendere migliore la vita. Questo è il fondamento
di un certo ottimismo che si respira oggi in Israele, malgrado tutti i
problemi. Forse è proprio questo ottimismo a costituire il ponte tra il
nostro passato - mitico e tragico - e il futuro che si costruisce qui
giorno per giorno».