martedì 10 aprile 2018

La Stampa 10.4.18
Il divorzio e la tutela delle donne
di Linda Laura Sabbadini


A maggio del 2017 la I sezione civile della Corte di Cassazione deliberò che il riferimento di partenza per stabilire il diritto all’assegno di divorzio non dovesse essere il tenore di vita goduto dai coniugi, ma la disponibilità o meno di un reddito che permette l’autosufficienza. Quella sentenza ha già provocato danni. Una successiva del tribunale di Milano affermava che l’assegno può essere chiesto dall’ex coniuge che versa in condizione di povertà.
O sei povera o nulla, sentenziano a Milano, anche se hai contribuito e molto al tenore di vita della famiglia con il lavoro retribuito e non, magari per 30 anni. Pur essendo la sentenza di maggio piena di parole moderne rappresenta un arretramento storico, perché penalizza il coniuge più vulnerabile economicamente. Meno male che non tutto è perduto e che oggi le Sezioni Unite, espressione della massima collegialità della Cassazione, affronteranno la questione. Spero che, avendo una visione più ampia, confermino, rafforzandolo il criterio del tenore di vita. Ciò non vuol dire che va garantito alla donna il tenore di vita che aveva prima, impoverendo l’uomo. Significa che si parte dalla quantificazione di quel livello, e si prendono a riferimento tutti gli elementi possibili per capire se è necessario l’assegno: quanto guadagna lui, quanto lei, la ricchezza di ognuno dei due, la durata del matrimonio, il contributo al lavoro di cura di ciascuno ecc. Se la durata del matrimonio è brevissima, difficile che ci sarà assegno. Ma se la durata è 30 anni e il reddito della donna è molto più basso, un part time a fronte di un marito avvocato, lui dovrà contribuire, soprattutto se hanno avuto figli. Il progetto era comune, le rinunce della donna hanno contribuito anche alla crescita del tenore di vita del marito e della famiglia. Tutto viene fatto saggiamente, c’è il giudice. Con la nuova sentenza di maggio viene fatta tutta questa analisi per definire se c’è diritto all’ assegno. Conta solo se la donna ha il minimo per vivere. Se ce l’ha, anche se ha contribuito tanto e la differenza economica con il marito è elevata, non ha diritto a niente. In questo senso è profondamente iniqua. E decreta il deciso peggioramento della situazione delle donne, il rischio di caduta in povertà. Non a caso anche la Commissione Giustizia del Senato su proposta della sua Presidente Ferranti, ha cercato di porvi rimedio. Quella sentenza corre dietro alle dicerie e allo stereotipo attualmente assai diffuso che le donne divorziate vogliono farsi mantenere e mandano sul lastrico gli uomini. Ma non è così. Primo. Le donne che divorziano nella stragrande maggioranza dei casi non si fanno mantenere. Solo nel 13,7% dei divorzi si attiva un assegno per il coniuge quasi sempre donna. Secondo. Non si tratta di assegni miliardari. L’assegno medio è di 500 euro. Il 60% delle donne riceve al massimo 400 euro. Le donne non ci si fanno ricche. Terzo. Le coppie sono asimmetriche, sia considerando il reddito che il lavoro quotidiano. Le donne guadagnano meno degli uomini nella maggioranza delle coppie, fanno più part time, rinunciano di più a incarichi, in un quarto dei casi interrompono il lavoro dopo la nascita dei figli. Ma se consideriamo la somma delle ore di lavoro retribuito e non, lavorano un’ora in più del marito al giorno. Contribuiscono e tanto al tenore di vita ma in modo invisibile e non valorizzato da un punto di vista monetario. Lo dice su giudicedonna.it anche la mitica Gabriella Luccioli, la prima donna entrata in Magistratura e la prima a diventare giudice della I Sezione della Corte di Cassazione. La sentenza di maggio «disconosce le rinunce ed i sacrifici compiuti dal coniuge più debole in favore dell’altro e dell’intero nucleo familiare». Lo dicono le donne che hanno firmato l’appello pubblicato interamente su questo giornale. Giustizia, equità, uguaglianza non formale ci aspettiamo con fiducia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.