il manifesto 10.4.18
Il voto italiano è il punto di rottura della crisi europea
di Massimo D'Alema
Non
è ancora facile capire i tratti della nuova fase politica che si è
aperta. Difficile dire se siamo all’inizio di una confusa transizione o
se è davvero un nuovo bipolarismo quello che si delinea dopo il 4 marzo.
Ma certamente un lungo periodo storico si è concluso con un risultato
elettorale che segna una svolta da cui il Paese difficilmente tornerà
indietro.
La sconfitta e il drastico ridimensionamento di tutte e
due le forze (Pd e Forza Italia) che hanno rappresentato i pilastri del
bipolarismo italiano e che sono l’espressione delle due grandi famiglie
politiche europee apre scenari inediti. Nelle elezioni del 2013 questa
tendenza si era già manifestata. Ma in questi anni nulla è stato fatto
per invertire la rotta, al contrario le scelte compiute hanno
trasformato il lento bradisismo in una frana rovinosa che ha travolto
l’equilibrio politico che per oltre vent’anni ha caratterizzato il
paese.
Credo sia giusto osservare che la tendenza all’affermazione
di forze che chiamiamo populiste (con tutte le ambiguità di questa
espressione) o comunque antiestablishment a danno dei partiti politici
tradizionali è un fenomeno europeo. In Italia questa spinta si è
manifestata in forme estreme riproponendo il nostro paese come una sorta
di anello debole della catena delle democrazie europee o, se si
preferisce, di laboratorio politico.
IL VOTO DEL 4 MARZO è dunque
al tempo stesso un segnale ulteriore e più forte di allarme per l’Europa
e insieme l’espressione di una crisi profonda della società e del
sistema politico italiano. Sulla caduta del consenso verso il progetto
europeo si è scritto molto, ma è importante rimarcare che con il voto
italiano si è a un punto di possibile rottura. Si può sostenere con
tutte le ragioni del mondo che il ripiegamento nazionalistico non è una
risposta adeguata alle sfide del mondo globale. Ma è evidente che o
l’Unione Europea sarà concretamente in grado di orientarsi verso la
crescita, l’inclusione sociale e la tutela dei cittadini del nostro
continente, oppure l’ondata «sovranista» e antieuropea metterà a rischio
i fondamenti stessi dell’integrazione.
Non è difficile capire
perché la caduta della speranza europeista abbia avuto effetti
particolarmente laceranti nella società italiana. Il nostro paese ha
sempre sofferto di una debole identità nazionale e in una scarsa fiducia
nelle proprie istituzioni e il progetto dell’unità europea ha finito
per assumere, in particolare nel momento della crisi della democrazia
dei partiti (anni ’90) il valore di un punto di riferimento in grado di
unire e motivare le forze fondamentali della società, della cultura e
della politica. La spinta modernizzatrice e propulsiva determinata
dall’avvento dell’euro si è consumata progressivamente nella morsa delle
politiche di austerità, anche per effetto del deficit democratico e
della logica tecnocratica che ha caratterizzato le istituzioni europee.
La lunga crisi apertasi nel 2008 ha fiaccato il paese, aggravando
diseguaglianze e povertà e approfondendo le fratture storiche a partire
da quella fra Nord e Sud.
L’ITALIA FOTOGRAFATA dal voto del 4
marzo è un paese sfiduciato e diviso. Il voto esprime rancore verso le
classi dirigenti, una sorta di rabbia che non sembra però generare né
una speranza né un progetto per il futuro dell’Italia.
Non ci si
può nascondere che questo esito è anche il punto di arrivo di una lunga e
logorante battaglia culturale contro i partiti e contro la politica nel
nome di una visione apologetica della società civile. Il moralismo
populista contro «la casta» nella vicenda italiana di questi anni si è
riproposto come un vero e proprio «sovversivismo delle classi dirigenti»
con la sua carica, non nuova nella storia del nostro paese, di umori
antiparlamentari e antidemocratici. Ma è ugualmente vero che la sentenza
di condanna della classe dirigente è il frutto della incapacità di
spezzare la spirale della crisi sociale e della crisi democratica che ha
progressivamente indebolito e delegittimato le istituzioni del paese.
IL
CENTROSINISTRA ha pagato il prezzo più alto a questa caduta di
legittimazione. L’analisi più acuta di questa sconfitta sta in un
articolo di Alfredo Reichlin pubblicato il 14 marzo dell’anno scorso,
l’ultimo che egli ha scritto prima di lasciarci. È una riflessione
illuminante sulla sconfitta annunciata. «Non sarà una logica oligarchica
a salvare l’Italia. È il popolo che dirà la parola decisiva… La
sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo.
Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema
democratico e della possibilità che questo resti aperto e agibile dalle
nuove generazioni. Quando parlai del Pd come di un “Partito della
nazione” intendevo proprio questo, ma le mie parole sono state piegate
nel loro contrario: il “Partito della nazione” è diventato uno strumento
per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni
genere. Derubato del significato di ciò che dicevo, ho preferito
tacere».
Ma il popolo, il 4 marzo, ha detto la sua proprio come
Alfredo aveva profetizzato. Certo all’origine della crisi della sinistra
ci sono scelte che vengono da lontano e che hanno progressivamente
segnato la subalternità del socialismo europeo al neoliberismo. Questo
cedimento non è di questi anni e ha riguardato – lo ripeto – l’insieme
della sinistra in Europa e negli Stati Uniti. La sinistra è rimasta
schiacciata dal peso del dominio dell’economia sulla politica, nella
morsa di quella contraddizione – annotata già da Gramsci nei Quaderni –
tra il carattere cosmopolitico dell’economia e il carattere
ristrettamente nazionale di una politica messa sulla difensiva dalla
influenza pervasiva della finanza globale.
Tony Blair e Gerhard Schroeder
DELLA
GLOBALIZZAZIONE la sinistra degli anni ’90 aveva enfatizzato, in modo
sovente acritico, le potenzialità positive, fidando nel processo di
integrazione europea come possibile contrappeso «politico» al ruolo
crescente dei mercati. Ma se allora fu indubbiamente un errore avere
sottovalutato le contraddizioni e il costo sociale del capitalismo
finanziario globale, l’illusione di potere rilanciare il centrosinistra
dopo la grande crisi del 2007/2008 riproponendo, in forma persino
estremizzata, la cultura della «terza via» è stato, più che un errore,
un suicidio.
Il Pd non ritroverà il suo ruolo se non fa i conti
anche con l’esperienza di questi ultimi anni; con il fallimento
dell’illusione neocentrista, dell’idea, cioè, che assumendo la cultura e
le movenze del berlusconismo si potesse acquisire uno spazio di
consenso e un ruolo centrale di potere per una lunga fase. Non sono
riusciti – in un’altra epoca e con ben altri mezzi – Blair e Schroeder a
trasformare le socialdemocrazie europee nel «nuovo centro», figuriamoci
se questa impresa poteva riuscire a Renzi e al suo gruppo dirigente.
Pedro Sanchez, Matteo Renzi e Manuel Valls nel 2014: il patto del tortellino
L’ATTACCO
ROZZO ai sindacati, il disprezzo verso i diritti dei lavoratori e degli
insegnanti, la deriva personalistica che ha logorato e in parte
demolito l’organismo collettivo del partito, l’avventurismo
plebiscitario in materia di riforme costituzionali ed elettorali hanno
generato non solo un crescente dissenso, ma persino rancore e rabbia di
cui il Pd ha raccolto i frutti prima nel referendum costituzionale, poi
nelle elezioni del 4 marzo.
Non avevamo torto nel ritenere che
l’unica possibilità di tenere aperta una prospettiva a sinistra era
quella di separarsi dal Pd e mettere in campo una proposta nuova. La
sinistra non ha perso perché era divisa come è stato ripetuto con una
campagna petulante e vacua. Ben altre erano le ragioni. E nessun
elettore ci ha rimproverato la scissione, semmai di esserci mossi tardi
rimanendo così corresponsabili di molte delle scelte che erano state
compiute. Ma la sconfitta di Liberi e Uguali non è nata solo da queste
ragioni. Bisogna dire, con spirito di verità, che la nostra proposta non
è apparsa innovativa e non lo era con la forza necessaria né per le
idee né per le persone che ha messo in campo. Ad un paese che voleva
voltare pagina nessuno ha saputo offrire, a sinistra, una proposta
realmente nuova.
Nello stesso tempo gli elettori si sono orientati
davvero verso un «voto utile» e cioè verso le forze in grado di offrire
non solo una prospettiva di testimonianza, ma di governo. E certamente
Liberi e Uguali non era in queste condizioni.
COSÌ QUELLA DOMANDA
di cambiamento e di governo si è rivolta altrove. 5Stelle ne ha
beneficiato interpretando a modo suo un bisogno forte – drammatico nel
Mezzogiorno – di lotta contro la povertà e contro i privilegi. Possiamo
considerare discutibile – e certamente lo è – il modo in cui 5Stelle
risponde a queste fondamentali esigenze. Ma non ce la possiamo cavare
evocando la categoria ambigua del populismo. Da quella parte è andato un
pezzo grande del nostro popolo, che non può essere guardato con
sufficienza e disprezzo. Anche per questo credo che sia sbagliato
mettere sullo stesso piano 5Stelle e la destra della Lega e spingere
verso un «patto tra i populisti», giocando così al tanto peggio tanto
meglio. Non è la nostra cultura, né la nostra idea del governo del
paese, né il nostro senso dello Stato.
MA FORSE È pretendere
troppo che il centrosinistra esca così presto dallo choc e riprenda a
fare politica. Prima senza dubbio bisogna delineare il cammino della
ricostruzione. Per il Pd c’è il dovere di una radicale discontinuità
rispetto a questi ultimi anni. Questa è la condizione perché possa
svilupparsi una riflessione fruttuosa sulla esperienza più lunga che
abbiamo alle spalle.
Liberi e Uguali ha il dovere di non
sciogliere i ranghi. Un milione e centomila voti, in gran parte di
elettorato militante e non di opinione, non sono una forza irrilevante
se si considera che il maggior partito del centrosinistra ha avuto sei
milioni di voti.
Per questo Liberi e Uguali deve organizzarsi, non
per chiudersi in una autosufficienza minoritaria che non avrebbe alcun
senso, ma per proporsi come elemento propulsore della costruzione di un
nuovo centrosinistra. Non credo ad una democrazia oltre la dicotomia
destra-sinistra. In fondo tutti i tentativi di andare in questa
direzione sono sfociati nel totalitarismo. La democrazia comporta una
dialettica e un conflitto regolato tra forze portatrici di idee, valori e
interessi diversi tra di loro. D’altro canto una dialettica
destra-sinistra serpeggia anche all’interno delle forze che – come
5Stelle – teorizzano il superamento di quella dicotomia. Credo inoltre
che si debba dire che la destra continua ad esserci ed è ben visibile
nello scenario politico italiano come la principale forza che si candida
a governare il paese. Ciò che compete a noi è ricostruire il
centrosinistra, facendo tesoro delle elezioni di questi anni e cercando
di imparare dalla sconfitta del 4 di marzo. È innanzitutto il compito di
una nuova generazione che muova dalla convinzione che «la storia non è
finita» come ci ha lasciato scritto Alfredo Reichlin.
Si tratta di
un lavoro grande che deve essere compiuto e che ha bisogno anche di un
forte impegno di analisi e di elaborazione e del contributo di chi,
dovendo senza esitazione abbandonare la prima fila, non può tuttavia
sottrarsi al dovere di aiutare i più giovani ad evitare gli errori
compiuti dalla nostra generazione.
Anticipiamo l’editoriale del prossimo numero della rivista Italianieuropei