La Stampa 1.4.18
Nella Striscia la marcia va avanti
“Resteremo nelle tende alla frontiera”
Rabbia e unità tra i palestinesi: “Non crediamo nella pace”
di Francesca Paci
A
Gaza è il giorno del pianto. Dopo la rabbia di venerdì gli abitanti
della Striscia si stringono intorno alle famiglie delle 16 vittime,
quasi tutte di Khan Yunis e Rafah, le zone più vicine al confine con
Israele e dove dunque gli scontri sono stati più violenti. Ma i funerali
e le veglie di preghiera sono sparsi a macchia di leopardo, a
el-Bureij, a Jabalya, nei campi a Est di Gaza City.
«Ritorneremo
lì domani (oggi, ndr) e nei prossimi giorni, mi siederò davanti alla
tenda come ho fatto venerdì e guarderò il muro che mi separa dai resti
del mio villaggio, si vede ancora se si sale sui palazzi più alti di
Gaza». A parlarci è Umm Kadija, 65 anni, originaria di Simsim, una
decina di km a Nord di Gaza in territorio israeliano, vicino a Sderot.
Come ricostruisce un libro dello storico Benny Morris, gli arabi furono
spinti a lasciare il villaggio nel ’48: la famiglia di Kadija restò lì,
dove lei è nata, fino al ’57, quando fu fondato il kibbutz HaNer e gli
ultimi palestinesi migrarono a Gaza.
Tutti, al telefono, giurano che torneranno al confine e chi non lo farà è convinto che saranno in migliaia nei prossimi giorni.
«Gli
israeliani non hanno sparato per disperdere la folla, solo un quarto
dei ricoverati, tra cui donne e bambini, è ferito alle gambe, tutti gli
altri sono stati colpiti al petto» racconta un infermiere di al Shifa,
l’ospedale che a ogni operazione bellica israeliana viene indicato dai
gaziani come quello nei cui sotterranei si nascondono i loro leader,
sempre al sicuro diversamente dal resto della popolazione. Oggi però
l’umore è diverso. Nessuno ha voglia di criticare Hamas, il partito
islamico al potere a Gaza dallo scisma con Fatah nel 2007 e al cui
indirizzo, sottovoce, gli improperi si moltiplicano da anni.
«La
marcia del ritorno è stata organizzata da tutte le fazioni palestinesi,
Hamas, Fatah, Jihad islamica, tutte unite per la prima volta da anni» ci
spiega Walid, 26 anni, disoccupato come il 58% dei coetanei. È uno di
quelli che non ha marciato venerdì e non sa se marcerà, ma, dice, «la
speranza qui è morta, nessuno crede più in nulla, nella pace, nella
riconciliazione, neppure nella nostra utopica vittoria. Non ci resta che
fare massa, i giovani e le pietre sul modello della prima intifada per
mostrare al mondo come agisce l’unica democrazia regionale».
Rabbia,
depressione, umor nero. «Questo tunnel senza uscita sta riportando la
gente alla religione - ragiona Jehad, 42 anni, insegnante, uno che
perfino a Gaza riesce a svagarsi in barba a cosa è halal e cosa è haram
-. Nel mio quartiere ci sono 5 moschee e sono sempre state assai
frequentate ma da un paio d’anni a questa parte sono piene zeppe e da
quando la nuova amministrazione Usa ha deciso per una politica
unilaterale lo spazio non basta più e le persone seguono i sermoni del
venerdì dalla strada».
La paura è che si ricominci, come ogni 2
anni, operazione Piombo fuso, Colonna di Nuvole, Margine di Protezione.
«I droni che ci ronzano sulla testa sono routine, se smettessero non
riuscirei più a dormire, ma la guerra è guerra, le mie figlie di 14 e 12
anni mi chiedono se ce ne toccherà un’altra» nota Yasmine da Jabalya.
Suo fratello Khaled, 22 anni, andrà al confine: le ha detto che non darà
soddisfazione ai cecchini.