il manifesto 1.4.18
Palestina, una tragedia «prevedibile»
di Tommaso Di Francesco
Decine
di tiratori scelti israeliani prendono la mira sul dosso di una trincea
scavata ai bordi della Striscia di Gaza. I cecchini inviati dai comandi
militari e dal governo di Tel Aviv non devono ricaricare, le loro armi
di precisione permettono più bersagli. E non sbagliano. Nell’arco di
pochi minuti una immensa manifestazione di popolo si trasforma in un
cimitero palestinese. L’ennesimo. Ma naturalmente era «prevedibile». Era
annunciato dalle parole del ministro-falco Lieberman (ma il governo
israeliano a guida del corrotto Netanyahu è di estrema destra ed è tutto
di falchi): chi avesse osato attraversare il limite tra Gaza e Israele –
artificiale, perché Israele non ha confini definiti – sarebbe stato «un
uomo morto».
Così il tiro al piccione – altro che «battaglia»
come hanno titolato tanti giornali italiani – contro adolescenti, donne,
bambini, contadini (mentre scriviamo i morti, tutti palestinesi, sono
17 e i feriti più di 1.500) non viene nemmeno condannato dal Consiglio
di sicurezza dell’Onu. La strage di Gaza è terrorismo di Stato, ma era
«prevedibile».
Insomma, di che lamentarsi se si conferma la
condizione disperata dei palestinesi? Il loro primo dramma è di essere
divisi, ma sul tema del ritorno invece sono uniti. Ieri come non mai
erano in tanti, arrivati da tutti i Territori occupati, dove si è
protestato anche a Hebron e Ramallah, per ricordare al mondo che si è
scordato di loro che la protesta della Giornata della terra – nella
stessa data del 1976 in cui ci fu un’altra strage per la confisca di
terre ad arabo-israeliani – rivendica il diritto a tornare lì dove sono
stati cacciati nel 1948 nella forma della pulizia etnica: per quella che
chiamano Nakba (Tragedia), e che invece è l’evento fondativo dello
Stato d’Israele. Il quale considera invece il «diritto al ritorno» come
costitutivo della propria natura esclusiva di Stato ebraico. Ai
palestinesi al contrario non è permesso nemmeno immaginarlo il ritorno,
come è «prevedibile» dati i rapporti di forza, la violenza militare
dell’occupazione e della repressione che ha riempito di prigionieri
politici le galere israeliane dove langue il leader legittimo della
Palestina, Marwan Barghouti. Ai palestinesi, «prevedibilmente» è
permesso solo vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente
stravolto dalle guerre occidentali; come migranti nei propri territori
occupati (Cisgiordania e Gerusalemme est), con due Risoluzione dell’Onu
(il diritto internazionale, non le pretese palestinesi) che impongono
allo Stato occupante di liberarli; e sempre più nell’indigenza, chiusi
dentro la prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.
Questa
è la condizione palestinese, con il Muro di Sharon che ruba terre,
posti di blocco, sradicamento di colture, uccisioni quotidiane, una
miriade di insediamenti colonici che hanno ormai cancellato la
continuità territoriale di quello che poteva essere lo Stato di
Palestina. Per una soluzione di pace ormai «prevedibilmente»
impossibile.
Del resto gli accordi di pace, dopo l’uccisione nel
1995 del premier israeliano Ytzhak Rabin ad opera di un estremista
integralista ebreo, era «prevedibile» che diventassero carta straccia.
Ora poi che Trump ha deciso a maggio – dura sei settimane, fino a quella
data, la grande protesta del popolo palestinese – di spostare a
Gerusalemme l’ambasciata Usa, di fatto riconoscendo la legittimità
dell’occupazione militare d’Israele. Ma era «prevedibile». Dopo tante
chiacchiere di Obama che nel 2009 all’Università del Cairo, dichiarava
di «sentire il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato»; e dopo
gli slogan e i voltafaccia dell’Unione europea che si trincera nel
silenzio, mentre ogni governo occidentale fa affari con armi e
tecnologia, con patti militari – come fa l’Italia – con un paese,
Israele, da 70 anni in guerra e che occupa illegalmente terre di un
altro popolo.
Il governo Netanyahu dichiara a difesa del suo
operato criminale che «si tratta di azioni terroristiche». Ma la verità è
che un popolo oppresso che manifesta pacificamente come è accaduto nel
venerdì di Pasqua, ricorda solo le lotte di liberazione dei popoli, e i
suoi sacrosanti diritti sanciti da ben tre Risoluzioni dell’Onu (una del
1949 proprio sul «ritorno»).
Eppure non dobbiamo distogliere
dalla nostra considerazione la questione del terrorismo, quello
jihadista, quello che viene agitato spesso a sproposito in Italia, e che
nelle capitali europee e occidentali ormai vede la scia di sangue di
ritorno per le guerre in Libia e in Siria che abbiamo scientemente
contribuito a far deflagare. Perché è giusto ricordare che
nell’immaginario fondativo di al-Qaeda e della sua diaspora anche di
nuova generazione, c’è la questione dell’occupazione dei luoghi sacri
dell’Islam (da quelli dell’Arabia saudita fino a Gerusalemme).
E
la questione palestinese, con le sue nuove stragi impunite, abbandonata
dall’opinione pubblica occidentale, dalla “sinistra che non c’è più” e
dal mondo intero, consegnata dalla diplomazia mondiale all’elemosina
dell’Onu e nelle mani dei “sultani” Al Sisi e Erdogan, può finire ancora
peggio. Può essere ulteriormente straziata da rivendicazioni terroriste
di matrice jihadista. È un pericolo reale.
Allora, o si esce dal
silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca
dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti, come se Israele e
Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, mentre da una
parte c’è solo lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti,
potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, e dall’altra
invece lo Stato palestinese e la sua «Autorità» semplicemente non
esistono. Oppure sarà troppo tardi e tutto diventerà «prevedibile».