domenica 8 aprile 2018

La Domenica del Corriere della Sera 8.6.18
«Il capitalismo non è eterno E Marx è ancora necessario»
Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della terra
Immanuel Wallerstein, senior research scholar alla Yale University (New Haven, Usa) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Karl Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti per riflettere sul perché quel pensiero sia ritornato, ancora una volta, di attualità
Il socialismo in un solo Paese di marca staliniana è estraneo a Marx: leggete direttamente lui non i suoi pretesi interpreti
conversazione Marcello Musto e Immanuel Wallerstein


MARCELLO MUSTO — Professor Wallerstein, quasi trent’anni dopo la fine del cosiddetto «socialismo reale», in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno come tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IMMANUEL WALLERSTEIN — Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni volta che si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi — non certo solo io — trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo alla sua rinnovata popolarità.
MARCELLO MUSTO — La caduta del Muro di Berlino ha liberato Marx dalle catene degli apparati statali dei regimi dell’Est Europa e da un’ideologia sideralmente lontana dalla sua concezione di società. Qual è il motivo centrale che suscita ancora tanta attenzione verso l’interpretazione del mondo di Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN — Io credo che, se chiedessimo a quanti conoscono Marx di riassumere in una sola idea la sua concezione del mondo, la maggior parte di essi risponderebbe «la lotta di classe». Io leggo Marx alla luce del presente e per me «lotta di classe» significa il perenne conflitto tra quella che io chiamo la «sinistra globale» — che ritengo possa ambire a rappresentare l’80% più povero della popolazione mondiale — e la «destra globale» — che rappresenta l’1% più ricco. Per vincere questo scontro bisogna conquistare il restante 19%; bisogna cercare di portarlo nel proprio campo e sottrarlo a quello dell’avversario. Viviamo in un’era di crisi strutturale del sistema mondo. Credo che il capitalismo non sopravvivrà, anche se nessuno sa con certezza da che cosa potrà essere sostituito. Io sono convinto che vi siano due possibilità. Una prima è rappresentata da quello che chiamo lo «spirito di Davos». L’obiettivo del Forum economico mondiale di Davos è quello di imporre un sistema sociale nel quale permangano le peggiori caratteristiche del capitalismo: le gerarchie sociali, lo sfruttamento e, soprattutto, il dominio incontrastato del mercato con la conseguente polarizzazione della ricchezza. L’alternativa è, invece, un sistema più democratico e più egualitario di quello esistente. Per tornare a Marx, dunque, la lotta di classe costituisce lo strumento fondamentale per influire sulla costruzione di ciò che, in futuro, sostituirà il capitalismo.
MARCELLO MUSTO — Le sue riflessioni circa la contesa per ricevere il sostegno politico della classe media ricordano Antonio Gramsci e il suo concetto di egemonia. Tuttavia, credo che per le forze di sinistra la questione prioritaria sia come ritornare a parlare alle masse popolari, ovvero quell’80% a cui lei fa riferimento, e come rimotivarle alla lotta politica. Questo è particolarmente urgente nel «Sud globale», dove è concentrata la maggioranza della popolazione mondiale e dove, negli ultimi tre decenni, a dispetto del drammatico aumento delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo, partiti e movimenti progressisti si sono indeboliti. Lì l’opposizione alla globalizzazione neoliberista è spesso guidata dai fondamentalismi religiosi e da partiti xenofobi, un fenomeno in crescita anche in Europa. La domanda è se Marx può aiutarci in questo scenario. Libri di recente pubblicazione offrono nuove interpretazioni della sua opera. Essi rivelano un autore che fu capace di esaminare le contraddizioni della società capitalista ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro. Marx dedicò molte energie allo studio delle società extra-europee e al ruolo distruttivo del colonialismo nelle periferie del sistema. Allo stesso modo, smentendo le interpretazioni che assimilano la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, l’interesse per la questione ecologica presente nell’opera di Marx fu ampio e rilevante. Infine, egli si occupò in modo approfondito di numerose tematiche che molti studiosi spesso sottovalutano o ignorano quando parlano di lui. Tra queste figurano le potenzialità emancipatrici della tecnologia, la critica dei nazionalismi, la ricerca di forme di proprietà collettive non controllate dallo Stato, o la centralità politica della libertà individuale nella sfera economica e politica: tutte questioni fondamentali dei nostri giorni. Accanto a questi «nuovi profili» di Marx — che suggeriscono come il rinnovato interesse per il suo pensiero sia un fenomeno destinato a proseguire nei prossimi anni — potrebbe indicare tre delle idee più conosciute di Marx a causa delle quali questo autore non può essere accantonato?
IMMANUEL WALLERSTEIN — Innanzitutto, Marx ci ha insegnato meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società. Già in Miseria della filosofia , pubblicato quando aveva solo 29 anni, schernì gli economisti che sostenevano che le relazioni capitalistiche si fondavano su «leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo». Marx scrisse che gli economisti avevano riconosciuto il ruolo svolto dagli esseri umani nella storia quando avevano analizzato le «istituzioni feudali, nelle quali si trovavano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese». Tuttavia, essi mancarono di storicizzare il modo di produzione da loro difeso e presentarono il capitalismo come «naturale ed eterno». Nel mio libro Il capitalismo storico ho tentato di chiarire che il capitalismo è un sistema sociale storicamente determinato, contrariamente a quanto impropriamente sostenuto da alcuni economisti. Ho più volte affermato che non esiste un capitalismo che non sia capitalismo storico e, a tal proposito, dobbiamo molto a Marx. In secondo luogo, vorrei sottolineare l’importanza del concetto di «accumulazione originaria», ossia l’espropriazione della terra dei contadini che fu alla base del capitalismo. Marx capì benissimo che si trattava di un processo fondamentale per la costituzione del dominio della borghesia. È un fenomeno che persiste ancora oggi. Infine, inviterei a riflettere di nuovo sul tema «proprietà privata e comunismo». In Unione Sovietica, in particolare durante il periodo staliniano, lo Stato deteneva la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò non impedì, però, che le persone fossero sfruttate e oppresse. Tutt’altro. Ipotizzare la costruzione del «socialismo in un solo Paese», come fece Stalin, costituì una novità mai considerata in precedenza, men che mai da Marx. La proprietà pubblica dei beni di produzione rappresenta una delle alternative possibili, ma non è l’unica. Esiste anche l’opzione della proprietà cooperativa. Tuttavia, se vogliamo costruire una società migliore, è necessario sapere chi produce e chi riceve il «plusvalore» — altro pilastro fondamentale della teoria di Marx. È questo il tema centrale. Va completamente mutato quanto si viene a determinare nei rapporti capitalistici di produzione.
MARCELLO MUSTO — Il 2018 coincide con il bicentenario della nascita di Marx e nuovi libri e film vengono dedicati alla sua vita. Quali sono gli episodi della biografia di Marx che lei considera più significativi?
IMMANUEL WALLERSTEIN — Marx trascorse una vita molto difficile, in perenne lotta contro una povertà terribile. Fu molto fortunato ad avere incontrato un compagno come Friedrich Engels, che lo aiutò a sopravvivere. Marx non ebbe nemmeno una vita affettiva semplice e la sua tenacia nel portare a compimento la missione che aveva assegnato alla propria esistenza — ovvero la comprensione del meccanismo di funzionamento del capitalismo — è davvero ammirevole. Marx non pretese né di spiegare l’antichità, né di definire come avrebbe dovuto essere la futura società socialista. Volle comprendere il suo presente, il sistema capitalistico nel quale viveva.
MARCELLO MUSTO — Nel corso della sua vita, Marx non fu soltanto lo studioso isolato dal mondo tra i libri del British Museum; fu un rivoluzionario sempre impegnato nelle lotte della sua epoca. Da giovane, a causa della sua militanza politica, egli venne espulso dalla Francia, dal Belgio e dalla Germania e, quando le rivoluzioni del 1848 vennero sconfitte, fu costretto all’esilio in Inghilterra. Fondò quotidiani e riviste e appoggiò, in tutti i modi, le lotte del movimento operaio. Inoltre, dal 1864 al 1872 fu il principale animatore dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la prima organizzazione transnazionale della classe operaia, e nel 1871 difese strenuamente la Comune di Parigi, il primo esperimento socialista della storia.
IMMANUEL WALLERSTEIN — Sì, è vero, è essenziale ricordare la militanza politica di Marx. Egli ebbe un’influenza straordinaria nell’Internazionale, un’organizzazione composta da lavoratori fisicamente distanti tra loro, in un’epoca in cui non esistevano mezzi che potessero agevolare la comunicazione. Marx fece politica anche attraverso il giornalismo, impiego che svolse per tanta parte della sua vita. Certo, lavorò come corrispondente del «New-York Daily Tribune» prima di tutto per avere un reddito, ma considerò i propri articoli — che raggiunsero un pubblico molto vasto — come parte della sua attività politica. Essere neutrale non aveva alcun senso ai suoi occhi — il che non vuol dire che mancò di rigore nelle sue analisi. Fu sempre un giornalista impegnato e critico.
MARCELLO MUSTO — Lo scorso anno, in occasione del centesimo anniversario della rivoluzione russa, alcuni studiosi sono ritornati a discutere sulle distanze tra Marx e alcuni suoi autoproclamatisi epigoni che sono stati al potere nel XX secolo. Qual è la maggiore differenza tra loro e Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN — Gli scritti di Marx sono illuminanti e molto più sottili e raffinati di molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. È sempre bene ricordare che fu lo stesso Marx, con una famosa boutade , ad affermare dinanzi ad alcune interpretazioni del suo pensiero: «Quel che è certo è che io non sono marxista». Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni. Si concentrò sui problemi che esistevano nella società del suo tempo e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico. Questa è una delle ragioni per le quali Marx è una guida ancora così valida e utile.
MARCELLO MUSTO — Per concludere, che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN — La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx , ma leggete Marx . Solo pochi — fra tutti quelli che parlano di lui — hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!

Repubblica Robinson 8.4.18
Paolo Aite
Neuropsichiatra e psicoterapeuta junghiano fondatore del Laboratorio Analitico delle Immagini
È stato presidente della Associazione Italiana per lo studio della Psicologia Analitica (Aipa)
La passione per Jung. L’incontro con Bernhard, l’analista di Fellini. E il Gioco della sabbia: “Si può disfare un castello, non distruggerne la materia”. Vale anche per l’uomo?
di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli


La prima cosa che chiedo a Paolo Aite è se ha mai visto La donna di sabbia, un film giapponese degli anni Sessanta dove un entomologo, nel bel mezzo di un deserto, vive una strana e a tratti violenta storia con una donna. Aite non ricorda il film e neppure il romanzo da cui è stato ricavato. Penso alla sabbia perché tutto il mondo analitico di Aite ruota attorno a questa materia. Nello studio dove riceve mi fa vedere diversi tipi di sabbia (nera, rosa, gialla, grigia o bianca). È alto e signorile quest’uomo, ormai anziano, che compie un gesto elegante con la mano sulla superficie di un manto sabbioso racchiuso in un contenitore. Lo guardo affascinato, come se da quell’atto dipenda l’esito della nostra conversazione: «Non conosco il film ma posso intuire perché, a distanza di anni, quel deserto di sabbia susciti in lei ancora un’attrazione», dice con calma.
Intuire cosa esattamente?
«Il Gioco della sabbia è un’esperienza che può lasciare interdetti. Ma se si accantonano i pregiudizi, le resistenze, quella durezza che di solito la razionalità produce, si possono fare scoperte interessanti. Insomma, mai dare per morta la capacità dell’emozione psichica di svelare aspetti di noi che neppure sospettiamo di avere».
L’emozione può anche coprirli o deviarli, non trova?
« Più facile che accada nella psiche di un adulto che in quella di un bambino. Ma il gioco è appunto rivelare la connessione tra un pensiero e un’emozione, che di solito prende la forma di un’immagine ».
È il gioco del bambino in riva al mare trasportato nel mondo intimo dell’adulto?
«C’è una continuità di senso, anche se il gioco del bambino è più diretto e immediato».
Cosa si scopre attraverso il gioco?
« Una forza vitale inibita o disorientata prende nuovamente corpo e senso. Come se, grazie alla sabbia, si ridisegnasse un paesaggio psichico che stentavamo a individuare. Qualcosa, insomma, che affiora attraverso il gesto più che con la parola».
Un gioco implica una sorta di piacere.
« Direi che in questa dimensione occorre tener conto dell’acuta sofferenza che il gioco è in grado di comunicare».
C’è qualcosa di fortemente creativo in questo approccio. Verrebbe da pensare più a Jung che a Freud.
«Effettivamente le mie origini sono junghiane. L’incontro più importante lo ebbi con Ernst Bernhard».
Un personaggio entrato nel mito. Quando lo conobbe?
«Nel 1961, provenivo da studi di medicina. Un po’ alle prime armi lavoravo nella clinica delle malattie nervose e mentali dell’università di Roma. Un collega che stimavo mi parlò di lui. Riuscii a prendere un appuntamento al suo studio romano in via Gregoriana. All’inizio non fu un incontro semplice».
Che cosa non funzionò?
«La prima cosa che mi chiese fu la mia data di nascita e poi cominciò a spiegare il mio quadro astrale. Lo sconcerto aumentò quando volle leggermi la mano. Pensai: è la stessa persona che ha letto e applicato Jung in modo originalissimo? A quel punto, prima che mi congedassi, mi fece raccontare il mio ultimo sogno. Mi colpì l’attenzione con cui si soffermava su alcune immagini del sogno. Improvvisamente sentii che la scena onirica si stava arricchendo di dettagli emotivi che fino a quel momento avevo ignorato. Decisi di intraprendere l’analisi con lui».
Per quanto tempo?
«All’incirca tre anni. Poi da paziente divenni allievo. Appresi che con lui erano stati in analisi personaggi come Bobi Bazlen e Cristina Campo, Giorgio Manganelli e Giacomo Debenedetti, Adriano Olivetti e Federico Fellini. Fu stupefacente sapere che figure fondamentali per la cultura non solo italiana trovassero in Bernhard un punto di riferimento».
Cos’era secondo lei che poteva attrarle?
« Come analista è stato un sabotatore di luoghi comuni. Chiunque fosse conscio del valore della creatività e dell’autenticità vedeva in Bernhard l’uomo capace di scoprirlo».
Autenticità in che senso?
«Nel senso di chi assume sé stesso per quello che è».
Senza sovrastrutture né impedimenti o finzioni?
«È molto difficile, me ne rendo conto. Ma l’autentico cui penso è la profondità dell’esistenza psichica contro ciò che è solo superficie; ciò che è cresciuto e si è sviluppato con la persona contro ciò che la persona accetta per conformismo e abitudine».
Bernhard fu il primo a introdurla al “Gioco della sabbia”?
«No, non lui che ne ignorava l’esistenza. Anche se la sua lezione ne richiamava il principio. Da lui ho imparato che dietro ogni immagine mentale che appare c’è un grande mistero. Che rapporto c’è tra quel mistero e il visibile? Anche la sabbia, dopo tutto, rende visibile qualcosa di sconosciuto e dunque di misterioso».
Quando dice “mistero” allude a qualcosa di religioso?
«Sappiamo quanto per Jung fosse importante la risorsa religiosa. Ma se si adottasse totalmente questa prospettiva si finirebbe nell’annosa questione se c’è o non c’è un Dio. Il mistero cui penso è il legame straordinario, e per certi versi inspiegabile, tra la mano e lo sguardo. Prima della parola l’uomo si è espresso attraverso il gesto. Sono convinto che il gioco tra la mano e lo sguardo ci riporti a un nostro tempo remoto che abbiamo cancellato o rimosso».
Come è arrivato al “Gioco della sabbia”?
«Indirettamente attraverso Bernhard. Morì nel 1965. Nel 1968 ci fu un convegno internazionale su di lui a Zurigo. La moglie di Bernhard mi suggerì di andare a trovare una signora piuttosto affascinante che abitava nei pressi di Zurigo nella casa dove aveva vissuto Goethe: Dora Kalff, una junghiana con discrete aperture verso l’Oriente e in particolare il buddismo. Fu lei a mostrarmi il Gioco della sabbia. Lo utilizzava per pazienti molto giovani e successivamente, anche su mio suggerimento, lo estese a soggetti adulti. Restai affascinato da quell’esperienza cogliendone la straordinaria potenzialità ».
Esattamente a cosa assistette?
«Alla creazione di una scena riconducibile a un teatro psichico in miniatura, dove l’elemento verbale è sostituito dal gesto della mano che dà vita a un’immagine o si serve di oggetti per “arredare” lo spazio sabbioso».
Quando dice oggetti si riferisce a quelli che vedo dietro di lei negli scaffali, così simili a dei “giocattoli”?
«Si tratta di sassi, legni, licheni, conchiglie ma anche case, alberi, animali o persone, in miniatura. Personaggi e situazioni immaginari. È un mondo che viene costruito, la cui scena una volta allestita per me ha l’evidenza di un sogno».
La sabbia è come l’inconscio in azione?
«È un modo di sognare attraverso le mani».
Perché proprio la sabbia?
«Perché il suo segreto è nell’indistruttibilità. Si può disfare un castello, non si può distruggere la materia che lo compone. Inoltre simbolizza il rapporto tra mare e terra. Infine, stabilisce una linea o meglio un percorso dal bambino all’adulto. In una sua poesia straordinaria Tagore parla del fanciullo che gioca in riva al mare, sulla spiaggia di mondi sconfinati. Lì è prefigurata l’importante presenza della materia, ossia della sabbia. Anche Jung nel Libro rosso parla dell’importanza che la materia ha nell’immaginazione attiva».
A proposito di immaginazione attiva so che lei dipinge e che ha in preparazione una mostra dei suoi lavori. C’è una relazione con il Gioco della sabbia?
« Entrambi stimolano lo spirito dionisiaco e quindi la creatività. Entrambi aprono la porta oltre la quale ci sono i nostri vissuti più profondi».
È un’accezione molto particolare almeno per quanto concerne l’arte.
«Dipingere per me non è riprodurre il visibile ma portare alla luce quanto mi accade».
La pittura come specchio di uno stato d’animo?
«Come uno stato di sospensione del normale fluire della vita».
Cioè?
«Se guardo oggi i dipinti che ho realizzato nel tempo mi accorgo che ogni immagine mi è nota solo in apparenza. Come se la circostanza che le ha prodotte richieda un confronto con un senso rimasto a lungo nascosto».
Si può chiamare enigma questo senso nascosto?
« Penso di sì perché è il silenzio dell’immagine a costituire l’enigma. In fondo, l’atto del dipingere dà vita a un’esperienza non molto dissimile dal sogno. Entrambi esprimono un modo di venire alla luce che allude ad “altro”».
Un altro noi o un altro da noi?
«Noi tutti siamo potenzialmente tante forme di esistenza. Solo alcune, nel corso della vita, si sviluppano mostrandosi adeguate alle esigenze che il momento richiede».
All’età in cui lei è giunto sente più la pienezza delle forme realizzate o la loro mancanza?
«Avvicinandomi al commiato, ho 87 anni, credo sia più forte il bisogno di esplorare ciò che si è stati piuttosto che quello che avremmo voluto essere. Ed è un commiato non solo carico di nostalgia ma anche di curiosità per quanto si è vissuto. È ciò che intendo per pienezza ».
Tra la professione di analista e l’arte ha scelto la prima. E solo ora sente di dare un riconoscimento alla seconda. Crede di aver sacrificato qualcosa?
«No, perché l’una è stata il riflesso dell’altra. Ho iniziato a dipingere da ragazzo in un momento di grande difficoltà psicologica legato allo scarso rendimento scolastico. A Cortina d’Ampezzo, dove sono nato, non c’era il liceo. Studiai da privatista ma qualcosa rese insopportabile lo studio. Fu allora che vidi nella pittura una via per esprimere e contenere il disagio».
C’è riuscito?
« Penso vi abbia contribuito mio padre che quando riemergeva dalle ricorrenti depressioni sembrava rinascere grazie al contatto con l’arte. Amava il bello. Mi ha trasmesso questa passione che è poi un porre l’immagine alla stessa altezza della parola».
Suo padre cosa faceva?
«Era medico. Molto amato e stimato dalla gente».
Davvero immagine e parola sono alla medesima altezza?
« Sono due modalità del nostro sentire. Quando parlo di immagine non penso, o non penso solamente, alla cosa vista. Ma alla disponibilità a vedere. E lo stesso accade con la parola che non è un semplice dire, ma una disponibilità all’ascolto. Dopotutto, è ciò che deve fare un buon analista: saper vedere e saper ascoltare».
A 87 anni cosa si aspetta ancora?
« C’è una preparazione alla fine. Il modo migliore per farlo è inquadrare la morte come un momento indispensabile della vita. La sua presenza può dar valore alle cose che si sono vissute e che si stanno vivendo. Altrimenti è il panico, il risentimento o, in una nobiltà filosofica più sofisticata, l’angoscia».
È sottile la linea che separa angoscia e serenità?
« Non solo sottile, ma incerta. La vecchiaia è un training all’abbandono. Non sei più l’uomo di prima, non sarai quello di adesso. Nel mezzo di queste due tensioni bisogna provare a tener viva l’idea di sé. La creatività è molto importante nel momento finale della vita. Altrimenti si resta in contatto solo con ciò che si è perduto. La memoria innanzitutto».
Abbandono è una parola importante.
« Può essere un trauma o un lasciarsi andare più o meno dolcemente. In fondo, anche il Gioco della sabbia è un modo di abbandonarsi alle immagini che non sappiamo di avere. Bernhard nel periodo in cui collaborò con la casa editrice Astrolabio esordì pubblicando L’interpretazione dei sogni e subito dopo Abbandono alla provvidenza divina del religioso Jean- Pierre de Caussade. Fu grande lo sconcerto di coloro che in maniera banale videro nel libro un manuale religioso per suore novizie. In realtà, quello scritto sottolineava con forza proprio il significato dell’abbandonarsi, come un percorso autentico di cui la stessa psicoanalisi avrebbe potuto giovarsi. Anche in quella scelta, apparentemente inspiegabile o criticabile, Bernhard si rivelò un maestro».
In che misura lo è stato per lei?
« Assoluta, anche nello sconcerto che a volte sapeva provocare. Non era un pedagogo. Non si poneva il problema di insegnare. Quello che ho capito è che si è maestri non per semplice coerenza nella propria vita, ma per coerenza nella ricerca della propria vita e quindi della propria autenticità. Anche negli ultimi giorni Bernhard seppe dar prova di questa coerenza. Una sera mi descrisse come aveva vissuto l’infarto appena superato. Mi colpì il modo attento, quasi religioso, di raccontare quanto accaduto. Era serenamente sé stesso, su quel confine ormai prossimo tra la vita e la morte. Una duna sabbiosa che rimodella ogni volta la sua forma. Questo stava diventando » .

il manifesto 8.4.18
Arrestato dalla gendarmeria pontificia monsignor Capella
Vaticano. Emesso il mandato di cattura con l'accusa di pedopornografia per l’ex addetto alla nunziatura apostolica a Washington
di Luca Kocci


È stato arrestato ieri in Vaticano dalla gendarmeria pontificia monsignor Carlo Alberto Capella, fino a pochi mesi fa secondo segretario della nunziatura apostolica a Washington. L’accusa è grave: pedopornografia. Il reato sarebbe stato commesso in Canada, in occasione di un viaggio in Ontario nel periodo in cui il prelato lavorava appunto all’ambasciata vaticana nella capitale Usa.
Ne ha dato notizia un comunicato della sala stampa della Santa sede in cui si informa che, «su proposta del promotore di giustizia» (una sorta di pubblico ministero), «il giudice istruttore del tribunale dello Stato della Città del Vaticano ha emesso un mandato di cattura a carico di mons. Capella. L’imputato è detenuto in una cella della caserma del Corpo della gendarmeria, a disposizione dell’autorità giudiziaria». L’ordine di arresto è stato emanato sulla base dell’articolo 10 del codice penale pontificio, che punisce «chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, trasmette, importa, esporta, offre, vende o detiene per tali fini materiale pedopornografico, o distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori».
L’arresto di Capella non giunge come il proverbiale fulmine a ciel sereno. Il diplomatico vaticano era sotto indagine della magistratura pontificia – ma anche di quella statunitense e canadese – da diversi mesi. La prima segnalazione era arrivata dal Centro nazionale di coordinamento contro lo sfruttamento dei bambini della polizia canadese. Capella era indiziato di possesso e distribuzione di materiale pedopornografico, diffuso in rete durante un soggiorno che il prelato aveva effettuato in Canada tra il 24 e il 27 dicembre 2016, utilizzando il computer di una parrocchia di Windsor (Ontario), a cui si era risaliti mediante l’indirizzo Ip. Poi il 21 agosto 2017, per via diplomatica, il Dipartimento di Stato Usa aveva notificato al Vaticano la possibile violazione delle norme in materia di immagini pedopornografiche da parte del diplomatico. E la Santa sede, poco prima che in Canada fosse emesso un ordine di arresto, aveva richiamato il prete in Vaticano, «secondo la prassi adottata dagli Stati sovrani», come precisato in una nota della sala stampa il 15 settembre 2017, aprendo contestualmente un’indagine, in collaborazione con le autorità canadesi e statunitensi.
L’inchiesta si è chiusa e per Capella è scattato l’arresto. Se sarà rinviato a giudizio, come appare molto probabile, verrà processato in Vaticano. Rischia una pena da uno a 5 anni di reclusione e una multa da 2.500 a 50mila euro, che potrà essere aumentata perché il materiale pedopornografico detenuto e diffuso sembra di «ingente quantità». Resterà da vedere come si comporterà la Santa sede se da Usa e soprattutto Canada arriverà la richiesta di processare Capella: lo spedirà oltreoceano a rispondere ai magistrati oppure, essendo stato giudicato in Vaticano, considererà chiusa la questione? In tal caso, allora, invece di «tolleranza zero», sarebbe più corretto parlare di processo entro le mura vaticane per sottrarre un proprio diplomatico alla giustizia canadese. Ma ora è presto per dirlo.
A breve per la Santa sede potrebbe aprirsi anche un altro fronte, stavolta nel Pacifico. Nei prossimi giorni, infatti, il tribunale australiano di Melbourne dovrà decidere se incriminare per pedofilia il cardinale George Pell. Formalmente Pell è ancora prefetto della Segreteria per l’economia (il superministero vaticano per l’economia), ma papa Francesco ha congelato il suo incarico e lo ha inviato in Australia per rispondere ai magistrati.
Il cardinale nelle scorse settimane è stato interrogato in aula. Dopo il 17 aprile accusa e difesa presenteranno le loro conclusioni e subito dopo i giudici decideranno se ritenere Pell estraneo alle accuse oppure andare avanti con il processo. In quest’ultimo caso per la Santa sede sarebbe un terremoto.

La Stampa 8.4.18
Pedopornografia, il Vaticano arresta il monsignore-diplomatico
Accusato nel 2017, Capella era stato fatto rientrare da Washington Gli investigatori: ingente materiale su pc e smartphone del prelato
di Andrea Tornielli


Monsignor Carlo Alberto Capella, il 50enne diplomatico della Santa Sede in servizio nella nunziatura apostolica di Washington, accusato nel settembre 2017 di possesso di materiale pedopornografico, è stato arrestato ieri mattina in Vaticano, dove si trovava da mesi. Il mandato di cattura è stato eseguito dalla Gendarmeria vaticana.
«L’imputato - si legge nel comunicato diffuso dalla Sala Stampa vaticana - è detenuto in una cella della caserma del Corpo della Gendarmeria, a disposizione dell’autorità giudiziaria. L’arresto giunge al termine di un’indagine del Promotore di Giustizia. Il Giudice Istruttore ha ordinato il provvedimento sulla base dell’articolo 10, commi 3 e 5, della legge VIII del 2013».
Lo scorso 15 settembre era stata la Santa Sede a rivelare l’apertura di un fascicolo da parte della magistratura vaticana nei confronti del prelato, dopo che il Dipartimento degli Stati Uniti aveva notificato un possibile reato legato alla pedopornografia. Contro monsignor Capella era stato anche spiccato un ordine di arresto dalle autorità canadesi per detenzione e diffusione di materiale pedopornografico. La polizia della città di Windsor, in Ontario - al confine con gli Usa - aveva accusato il prelato di aver scaricato materiale contenente pornografia infantile durante un soggiorno canadese nel corso delle festività natalizie del 2016. Capella, secondo gli inquirenti, avrebbe usato l’«indirizzo di un computer in una chiesa locale» mentre soggiornava presso una parrocchia.
Il monsignore in servizio a Washington, nella rappresentanza diplomatica della Santa Sede presso gli Usa, era stato fatto rientrare subito a Roma e da fine settembre risiedeva in Vaticano, nel Collegio dei Penitenzieri, ma non in stato di arresto. In questi mesi i magistrati vaticani - il promotore di giustizia Gian Piero Milano e l’aggiunto Roberto Zanotti, e il giudice istruttore Paolo Papanti Pellettier - hanno condotto approfondite indagini con il supporto Gendarmeria guidati dal comandante Domenico Giani. Un’inchiesta non semplice, che ha analizzato tutti i computer e smartphone in uso al prelato, oltre che le risultanze presentate dagli inquirenti statunitensi e canadesi.
Capella, nato a Carpi nel luglio 1967 da una famiglia originaria di Rho, ordinato prete per la diocesi di Milano nel 1993, dopo essere stato responsabile della Sezione italiana della Segreteria di Stato per i rapporti con gli Stati era diventato nel 2016 consigliere di nunziatura a Washington.
L’arresto di ieri, in attesa del processo che si presume possa iniziare in tempi brevi, sta a significare che i magistrati vaticani hanno trovato i riscontri all’accusa di detenzione e scambio di materiale pedopornografico e che questo materiale era di «ingente quantità». La legge VIII che punisce la pedopornografia - sulla scia dell’adeguamento iniziato da Benedetto XVI - era stata promulgata da Papa Francesco nel luglio di cinque anni fa. E la decisione di procedere con l’arresto di un monsignore del servizio diplomatico che già risiedeva in Vaticano indica la volontà di non concedere sconti o impunità a quanti commettono questi reati.
Non è la prima volta in tempi recenti che un esponente del corpo diplomatico della Santa Sede finisce sotto processo. Era accaduto anche con l’arcivescovo polacco Jozef Wesolowski, nunzio nella Repubblica dominicana, accusato di abusi su minori, ridotto allo stato laicale, che doveva essere processato dalla magistratura vaticana e risiedeva nel Collegio del Penitenzieri dove è morto stroncato da un infarto nell’agosto di tre anni fa, prima dell’inizio del processo.agistrati vaticani hanno trovato i riscontri all’accusa di detenzione e scambio di materiale pedopornografico e che questo materiale era di «ingente quantità». La legge VIII che punisce la pedopornografia - sulla scia dell’adeguamento iniziato da Benedetto XVI - era stata promulgata da Papa Francesco nel luglio di cinque anni fa. E la decisione di procedere con l’arresto di un monsignore del servizio diplomatico che già risiedeva in Vaticano indica la volontà di non concedere sconti o impunità a quanti commettono questi reati.
Non è la prima volta in tempi recenti che un esponente del corpo diplomatico della Santa Sede finisce sotto processo. Era accaduto anche con l’arcivescovo polacco Jozef Wesolowski, nunzio nella Repubblica dominicana, accusato di abusi su minori, ridotto allo stato laicale, che doveva essere processato dalla magistratura vaticana e risiedeva nel Collegio del Penitenzieri dove è morto stroncato da un infarto nell’agosto di tre anni fa, prima dell’inizio del processo.

La Stampa 8.4.18
Scandalo molestie sessuali al Nobel
Si “dimettono” tre accademici


L’Accademia Reale Svedese (nella foto la sede a Stoccolma) che assegna il Premio Nobel per la Letteratura è finita nella bufera con l’accusa di «reticenza» e di essere venuta meno ai propri principi di «integrità morale». Klas Ostergren, Kjell Espmark e Peter Englund, con lettere inviate ai giornali di Stoccolma, hanno dichiarato di non voler essere più accademici, per protesta contro un non nomitato membro dell’istituzione accusato di molestie sessuali. Sarebbe coinvolta anche una personalità del mondo della cultura sposata con un membro dell’Accademia (identificata dalla stampa nella poetessa Katarina Forstensson) la cui candidatura sarebbe stata sostenuta «scorrettamente» all’interno dell’istituzione. I tre giurati non possono dimettersi perché la carica è a vita ma hanno la possibilità di non partecipare ai lavori. I membri dell’Accademia sono 18 e due di loro da tempo non sono più attivi. Con i nuovi dimissionari, salgono a 5 i giurati che si astengono dall’attività, I’annuncio è arrivato alla vigilia delle riunioni per scegliere la rosa dei candidati al Nobel 2018 di ottobre.

Corriere 8.4.18
A Roma diventa un caso lo striscione anti aborto Il blitz di Forza Nuova


Roma La Casa Internazionale della Donne finisce al centro di un attacco di Forza Nuova, che ha esposto ieri davanti alla sede della associazione in via della Lungara uno striscione contro la «strage di Stato» della legge 194 sulla interruzione di gravidanza. È la seconda azione antiabortista in pochi giorni dopo la gigantografia di un feto di 11 mesi esposto al quartiere Aurelio dai militanti di ProVita.
Alla denuncia della Casa delle donne (« Un grave attacco alla libertà e all’autodeterminazione») tanti messaggi di solidarietà sono arrivati alla storica sigla femminista. Tra i più decisi quello del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: «Il blitz di Forza Nuova è un attacco vigliacco e squadrista in primo luogo contro le donne e contro tutti. Giù le mani dalle conquiste che hanno reso l’Italia migliore e più civile».
La onlus ProVita annuncia intanto che proseguirà la sua campagna chiedendo di esporre la foto del feto sui social dei sostenitori, iniziativa alla quale aderisce anche la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. E Michela Brambilla, Forza Italia, dice: «Ha una strana idea della libertà di espressione del pensiero chi ha chiesto e ordinato la rimozione del manifesto. Lo dico da donna che ha condiviso molte battaglie per i diritti civili. Si può non essere d’accordo con i suoi principi ispiratori, ma rimuoverlo è un atto tirannico».

La Stampa 8.4.18
Le «avance» M5S spaccano il partito


L’invito ai dem a «deporre l’ascia di guerra» arriva da Luigi Di Maio con un’intervista a Repubblica. Restano però i due forni: «Il contratto di governo - ribadisce a margine di Sum02 - può essere sottoscritto dal M5S o con la Lega o con il Pd. Noi siamo pronti ma vediamo se ci sono anche delle evoluzioni negli altri schieramenti». Il Pd si divide sulla risposta al leader M5S. Per il reggente Maurizio Martina «l’autocritica nei toni è apprezzabile, resta evidente l’ambiguità politica». Matteo Orfini ribadisce: «Noi alternativi, è un appello strumentale che non cancella tutto». Dario Franceschini invece invita il Pd «a riflettere» sulle parole di Di Maio e a «dare una risposta di fronte alla novità politica».

La Stampa 8.4.18
“Accordo possibile ma senza Renzi”
La linea Maginot dei militanti grillini
A Ivrea trionfa il pragmatismo: con i dem più facile arrivare al reddito di cittadinanza
di Andrea Rossi


Pronti, lo sono. Con chi ci sta: chiunque sia, o quasi. Stefano Baudino, aspirante giornalista di 23 anni: «Adesso il Movimento ha la responsabilità di dare una risposta a milioni di persone che si sono affidate a lui. Sarebbe assurdo, da primo partito italiano, isolarsi e stare all’opposizione. No, stavolta non ci si può davvero chiamare fuori».
Più Di Maio, meno Di Battista: infatti il «Dibba» non c’è e di suoi supporter, a intuito, se ne vedono pochi. Meno popolo, più classe dirigente, produttiva e pensatrice. Meno nerd, più abiti eleganti. Quanto sono lontani i tempi del «Vaffa». Del «noi» o «loro». Il popolo del Movimento 5 Stelle - ma qui, è bene dirlo subito, c’è quasi soltanto l’élite - si è fatto istituzionale come il suo attuale leader. Misura le parole, le pesa. I partiti non sono più il demonio. Concetti come «dialogo» e persino «accordo» sono pienamente sdoganati. «Alleanza» no: non se ne parla. Non ancora, almeno.
Di aziendale, la convention organizzata a Ivrea da Davide Casaleggio per ricordare il papà Gianroberto, ha anche il linguaggio del popolo degli attivisti, sostenitori, simpatizzanti. «Contratto» è la parola magica, l’apriscatole: «Sì, come si fa tra aziende: una lista di impegni da rispettare, tempi e modalità. Stop», dice William Benetti, 21 anni, studente.
Dentro le ex officine dell’Olivetti si certifica l’ultima metamorfosi dell’universo Cinquestelle: non si discute se il Movimento andrà al governo. Si discute a quali condizioni. E con chi. Non è una svolta da poco, anche se dello spirito originario qualcosa è rimasto. Il no alle alleanze, ad esempio. E il rifiuto di certi compagni di viaggio. Uno su tutti: «Con Berlusconi mai, sia chiaro. Se c’è lui non ci siamo noi». Jonas Di Gregorio, attivista di Velletri, dà fiato alla linea Maginot del Movimento. «Rappresenta tutto quel che non ci appartiene. E poi, come faremmo le leggi anti corruzione, sul conflitto d’interessi e sulla riforma della giustizia? Il Movimento perderebbe milioni di voti, compreso il mio».
Fedeli alla linea del capo politico: un conto è l’intesa per spartirsi la presidenza delle Camere, altro è un accordo - in base a pochi e selezionatissimi punti - su cui costruire un governo. «Abbiamo già dato con la Casellati», ride Ottavia Pilastri. «Ora con Forza Italia nemmeno un caffè». Capitolo chiuso, par di capire. D’accordo, e con il Pd? Qui appare subito chiaro che il muro non è più così solido. Ha ceduto un poco. «Basta sentire che cosa dice Di Maio negli ultimi giorni», ragiona Fabrizio Bertellino, ingegnere astigiano, militante di vecchissima data. «A me sembra ci sia una preferenza verso il Pd, però alla fine tocca a loro scegliere». Agli altri partiti. «Nessuno ha mandato il Pd all’opposizione. Certo, Renzi che si allea con noi è qualcosa che va contro le leggi della fisica». Già, ma se Renzi scomparisse come d’incanto allora tutto diventa possibile nell’universo Cinquestelle. «Se il Pd è rappresentato da Michele Emiliano o da qualcuno che la vede come lui, perché no?»: Stefano Baudino dà una prima picconata al muro. Jonas Di Gregorio ne rifila un’altra: «Se non c’è Renzi, si può discutere».
Non esprimono un’intenzione, un orientamento. Solo un ragionamento freddo e un po' cinico, che trae linfa da una convinzione: si sentono baricentro, pensano che niente oggi possa nascere senza di loro. E dunque si piazzano nel mezzo della scena, con il piglio di chi distribuisce le carte: «Noi non proponiamo un’alleanza», dice Bertellino. «Il punto è quali aspetti del nostro programma possiamo portare avanti e con chi. È chiaro che con il Pd o la Lega non faremmo le stesse cose». Il fatto è che l’uno o l’altro sembra politicamente indifferente e irrilevante; l’importante è esserci. L’intesa si farà con chi aderisce alla piattaforma: pochi punti condivisi e un contratto a certificarli. «Il fatto è che Renzi è ancora lì e il Pd sembra aver deciso di stare all’opposizione, sperando di recuperare qualche voto», riflette Monica Valsisi. E allora resta la Lega, ma è in atto un rovesciamento di prospettiva rispetto alle logiche consolidate: «Abbiamo proposte che ci avvicinano ad alcuni partiti: partiamo da quelle e sigliamo un accordo con chi ci sta», insiste William Benetti. «È chiaro che con la Lega si privilegerebbero le imprese; con il Pd sarebbe più facile introdurre il reddito di cittadinanza. Però dipende da loro».
Noi ci siamo e siamo disponibili, se non funziona sarà colpa degli altri che si sono chiamati fuori: sembra un ritornello mandato a memoria, invece è un orientamento diffuso, condiviso, quasi unanime. Un possibile (e ulteriore) argomento per un’eventuale nuova campagna elettorale: «Non so dove ci porterà questo percorso», dice Fabrizio Bertellino, «ma adesso la grande responsabilità è nelle mani di chi è stato chiamato a un dialogo e si sottrae o si accosta con argomenti buoni soltanto a farlo naufragare». Lo schema è dichiarato: se nascerà un governo sarà merito nostro; altrimenti sarà colpa loro.

Repubblica 8.4.18
Gli M5S: “La Lega ci ha tradito” Di Maio vede spiragli a sinistra
Il capo politico “fiducioso” sulla trattativa con i dem. “Ma non cederà sulla premiership” Irritazione per la riunificazione del centrodestra: “ Salvini decida che vuol fare da grande”
di Annalisa Cuzzocrea


Ivrea (Torino). Alle battute su Silvio Berlusconi di Dario Vergassola, che arrivano sul finale della kermesse di Ivrea, Luigi Di Maio scoppia in una risata liberatoria. È stato un giorno teso, passato in prima fila ad ascoltare gli ospiti del think tank di Davide Casaleggio, senza perdere di vista le notizie che corrono sul telefonino. Arrivano l’apertura del pd Dario Franceschini che considera l’intervista del leader M5S a Repubblica una «novità politica», la chiusura da parte di Matteo Orfini e dell’ala più renziana e l’ironia del leghista Matteo Salvini davanti all’ipotesi un governo 5 stelle-Pd.
Ma soprattutto arrivano, sui telefonini dei pontieri, segnali che i tessitori della trattativa considerano positivi. Lo stesso Matteo Renzi, secondo quanto riportato al capo politico, sarebbe in cerca di « un abbraccio » , una sorta di rilegittimazione. Mossa per la quale i 5 stelle, però, non sono ancora pronti. «Per adesso ci troviamo bene con Martina - dice chi lavora all’intesa - poi si vedrà».
Perché una cosa è certa, e a Ivrea è palpabile nelle parole di tutti i parlamentari accorsi all’evento organizzato per il secondo anno di seguito in onore di Gianroberto Casaleggio: il Movimento si sente tradito dalla Lega. «Salvini deve decidere cosa vuole fare da grande», dice la vicepresidente del Senato Paola Taverna al suo arrivo. « A 45 anni dovrebbe arrivarci», rincara il collega salernitano Andrea Cioffi. Ed è lo stesso Di Maio - nel brevissimo punto stampa che concede all’ora di pranzo - a provocare: «Credo che il leader della Lega sappia che al Quirinale o ci vai con il 17 per cento o con il 37, non cambia molto se non hai il 51».
Sul Pd, invece, il leader 5S dice solo di considerare le parole di Martina, che ha apprezzato la distensione di toni, « un passo avanti » . «Sono molto fiducioso di arrivare a un contratto di governo. Sappiamo - continua - che sia da una parte che dall’altra ci sono delle evoluzioni e le attendiamo » . Dipenderà molto da quello che succederà in queste ore, quindi.
Fino a ieri mattina, davanti all’ipotesi di un Pd più dialogante e di una Lega ferma nel tenere dentro Forza Italia, si era affacciata la possibilità di andare ancora più in là. E di fare per la prima volta una scelta unilaterale nei confronti del centrosinistra. Aprire un solo tavolo, e aprirlo con Leu e Pd. Una mossa da compiere dopo il secondo giro di consultazioni che, tuttavia, ha delle controindicazioni, a partire da un clima interno che non è dei migliori. Sui social network le reazioni alla caduta del veto su Renzi sono state negative. I sondaggi spediti via mail a Di Maio mostrano che un’alleanza col Pd sarebbe preferibile solo per un 20 per cento degli elettori 5 stelle che nonostante tutto continuerebbero a scegliere in maggioranza la Lega. Quanto ai numeri, un’eventuale intesa a sinistra non avrebbe margini molto larghi in Parlamento, anche se i conti fatti dai fedelissimi parlano di 30 deputati in più alla Camera, con in aggiunta 5 o 6 del gruppo misto, e di una misura più stretta al Senato.
Nei capannelli di Ivrea, il neo deputato Stefano Buffagni, già entrato nell’inner circle, invita alla calma: « Ci vuole tempo. È normale che a giocare su più tavoli siano anche gli altri, non dobbiamo farci innervosire. Il punto è che vogliono la testa di Di Maio, vogliono che rinunci alla sua candidatura a premier, e questo non possiamo permetterlo perché è lui che ha vinto le elezioni. Quando andiamo in giro, perfino a Milano, gli gridano: non mollate».
Il timore maggiore non è che a chiedere il passo indietro siano ancora Salvini o Renzi. Quello che il leader M5S vorrebbe evitare a tutti i costi è che la richiesta arrivasse già al secondo giro di colloqui - dal capo dello Stato, per cercare di rimuovere alcuni dei veti incrociati e far partire un governo. « La Lega vuole tempo, sta aspettando le elezioni in Friuli Venezia Giulia», dice ancora Buffagni. Ma ai 5 stelle il presidente della Repubblica avrebbe fatto capire di preferire una soluzione che arrivi entro questo mese.
Così ieri sono ripartite le telefonate frenetiche ( anche nel dietro le quinte di Sum, il fedele consigliere Vincenzo Spadafora - che come deputato siederà nella commissione Affari Costituzionali - parlava coprendosi la bocca con le mani, in modo che le molte telecamere presenti non intercettassero neanche un labiale). Si parla con le varie anime dem, renziani compresi, perché quel tavolo Di Maio lo vuole fare davvero. E preferirebbe che accadesse prima di tornare da Mattarella. Così come si continua a sondare la Lega e la possibilità che il nastro si riavvolga e si torni a quando tutto appariva più semplice. « Luigi ha fatto bene a usare toni distensivi - diceva una rilassata Roberta Lombardi, ora capogruppo in Regione Lazio - ma voi ce li vedete Boschi, Lotti, Marcucci, che votano il governo del Movimento? Se succede io prendo un posto in tribuna e compro le noccioline, ma non credo che lo faranno. Bisognerà vedere quel che accade all’assemblea pd del 21 aprile: da lì si capiranno tante cose».
Sono ottimista sulla possibilità di arrivare ad un contratto di governo, ci sono evoluzioni da una parte e dall’altra.
Da Martina passo avanti
Ma voi ce li vedete Boschi e Lotti che votano il governo M5S? Se succede io mi siedo in tribuna con le noccioline

La Stampa 8.4.18
Carlo Freccero
«È Salvini l’interlocutore naturale»
intervista di Federico Capurso


È uno dei grandi assenti, Carlo Freccero, membro del Cda Rai in quota M5S, al convegno sul futuro organizzato dal think tank intitolato a Gianroberto Casaleggio. «Non mi hanno invitato, ma non me la sono presa», dice Freccero, «anche perché c’è qualcuno molto più assente di me».
Freccero a chi si riferisce?
«A Beppe Grillo. Più i Cinque stelle si avvicinano al governo, più lui si allontana dal Movimento. Il futuro per il M5S vuol dire governabilità, e credo che a Grillo non interessi, mi sembra che si senta imbrigliato. La sua assenza, in fin dei conti, tranquillizza le élite».
Il M5S è pronto per il governo?
«Mi sembra abbiano intrapreso un cammino per addestrarsi alla governabilità, per misurarsi con essa».
Però servirà un’alleanza. Dove guardare?
«Ho sempre sostenuto che non ci sia nulla di sinistra nei Cinque stelle. Per questo trovo più naturale un’alleanza con la Lega, perché cresciuti entrambi nel segno dell’antagonismo, anche se i poteri forti spingono per un’alleanza con il Pd. Ma c’è un rischio nell’essere accolti dall’establishment».
Di che rischio parla?
«Una volta al potere i Cinque stelle potranno mantenere una loro originalità, oppure assumere alcuni caratteri del governo di Monti - o Rigor Montis come lo chiamava Grillo - nel segno dei poteri forti».
Il bivio è a Roma o a Bruxelles?
«In Europa, senza dubbio. Lì si giocherà la loro partita più importante. Dovranno diventare protagonisti a Bruxelles, riuscire ad avere lo stesso peso di Macron e parlare di trattati, senza però essere ancelle della Merkel. Se non ci riusciranno, ci sarà un appiattimento. Ecco perché dico che con la Lega sarebbe più semplice».

Repubblica 8.4.18
Intervista a Moni Ovadia
“Sono un apolide ma qui si discute senza pregiudizi Oggi è Salvini il vero avversario”


IVREA ( TORINO) Si schermisce: «Sono qui perché ho aderito a una proposta dell’amico Nuzzi. Non c’è alcun sottinteso politico nella mia partecipazione al meeting di Ivrea». Moni Ovadia arriva e deve subito mettere le mani avanti.
Ovadia, un bel salto sul carro
del vincitore?
«Chi mi conosce sa che quel tipo di balzo è quanto di più lontano dalla mia biografia. Io sono un apolide. Se poi devo confessare la mia preferenza politica, io ho votato Potere al Popolo».
Come mai?
«Mi ha appassionato il progetto di questi ragazzi dei centri sociali che hanno deciso di proporre una nuova idea di Italia».
Diciamo che questo convegno non è un luogo neutro. C’è l’intero stato maggiore dei 5 stelle. Non è lo speach corner di Hyde park...
«Ma è un luogo in cui si discute, ci si confronta senza pregiudizi. Per questo ho aderito e sono contento di averlo fatto».
Aveva già partecipato a iniziative analoghe?
«Certo, quando Valter Veltroni aveva lanciato il Pd di “I care”. Era un progetto che mi convinceva perché proponeva un piano per riportare nel Paese la giustizia sociale. Ricordo che parlai a quella manifestazione».
Poi che cosa è successo?
«Veltroni mi deluse quasi subito.
Perché non fece una opposizione aggressiva a Berlusconi. Sembrava più duro Tabacci...».
Anche oggi il Pd dovrebbe
fare un’opposizione dura?
«Secondo me il Pd dovrebbe morire, annullarsi, per ricostruire la sinistra sulle sue macerie».
Evangelico: il seme deve marcire per dare frutto?
«Se è per ricostruire la sinistra, io ci sono sempre».
Intanto ora siamo qui. Come definirebbe i 5 stelle?
«Sono il sintomo del disagio creato dalla malattia dei partiti e dal fatto che sono marcite le strutture portanti del sistema Italia. Hanno catalizzato le sofferenze degli elettori di destra e di sinistra.
Adesso vedremo come utilizzeranno questo patrimonio.
Io li giudicherò dalle scelte sulle alleanze. L’avversario politico principe oggi è Salvini».
Nessun rimpianto del suo periodo trascorso vicino al Pd?
«No, il Pd è diventato un sistema di potere che sembra avere il mandato, soprattutto con Renzi, di distruggere la sinistra. E silenziare ogni voce autonoma.
Pensi che ci sono aree del Paese, governate da Pd e Lega, in cui io non riesco a portare i miei spettacoli. Non mi invitano nemmeno più alle feste dell’Unità».
p.g.

Corriere 8.4.18
Parietti: io, ex trotskista dico che Salvini è stato bravo
di Giovanna Cavalli


Pure lei folgorata da Matteo Salvini?
«Quando mai, qui si mistifica».
Si riascolti: Salvini è bravo, è capace di fare politica. Lo ha sostenuto lei in radio, mica io.
«Che c’entra, è come dire che uno è un bravo architetto, anche se fa case che non mi piacciono. Però è l’unico che si occupa dei problemi della gente, pur in maniera super-populista. E guardi che io e lui abbiamo avuto diatribe mostruose». Vero. L’ultima due anni fa: l’ex coscialunga della sinistra lo accusò di fare «discorsi da bar», lui rispose: «Non so se la compagna Parietti mi fa più ridere o più pena», Alba replicò: «Sono meno soubrette di te».
Come finì?
«Che su Facebook mi arrivarono 15 mila insulti in poche ore».
Vi siete poi rivisti?
«L’ho incrociato a Sanremo. Che poi è anche un tipo educato, non provo antipatia».
Non è che finisce come Claudio Amendola («Salvini è il miglior politico degli ultimi vent’anni. Anzi trenta»)?
«No, no, anzi spero che Claudio non parlasse sul serio. Sono stata trotskista, non lo voterò mai, né lui né la destra, per rispetto a mio padre partigiano, però ammetto che Salvini è un bravo comunicatore, ha saputo fare breccia nel cuore di tante persone umili e bisognose che si sono sentite ascoltate. Lui non ha fallito, come il Pd, che da Salvini avrebbe tanto da imparare e invece...».
Invece?
«Con i suoi toni arroganti ha fatto scappare il popolo e l’arroganza si può perdonare ai vincenti, come la Juve, non ai perdenti».
Gli amici come hanno reagito al suo elogio salviniano?
«Non so, ero a Ibiza, ora a Courmayeur... E già lo so che mi beccherò della comunista di emme».
Meglio Salvini o Di Maio premier?
«Ahhh... ...io vorrei Papa Francesco».
È impegnato.
«E allora vado in pellegrinaggio al Divino Amore a chiedere un miracolo per la mia sinistra».

Corriere 8.4.18
I dem sbandano sull’apertura di Di Maio Passo avanti di Franceschini: riflettiamo
Anche Orlando non chiude. Prudente Martina: restano ambiguità. Orfini: o noi o loro
di Alessandro Trocino


ROMA La nuova apertura di Luigi Di Maio al Pd in un’intervista a Repubblica , dopo mesi di bombardamento anti dem in campagna elettorale, provoca una spaccatura nel partito. Da una parte Matteo Renzi e i suoi, che ancora hanno la maggioranza e che respingono quelli che il capogruppo al Senato Andrea Marcucci chiama «appelli imbarazzanti» e «patetiche giravolte». Dall’altra Dario Franceschini e Andrea Orlando che, sia pure con toni e sfumature diverse, aprono al dialogo. In mezzo, il segretario reggente Maurizio Martina. Che in mattinata dice: «L’autocritica nei toni di Di Maio è apprezzabile, resta evidente l’ambiguità politica. Continuiamo a pensare che la differenza la fanno i contenuti. Da questo punto di vista non vedo novità».
Di Maio a Ivrea trova positivo il messaggio di Martina: «Registro come un passo avanti le sue dichiarazioni. E sono consapevole che Salvini sappia come al Quirinale se ci vai con il 17 per cento o con il 37, comunque non fa il 51».
È Franceschini, uno dei ministri improvvisamente lodati da Di Maio nei giorni scorsi, a fare un’apertura di credito ai 5 Stelle: «Di fronte alle novità politiche delle parole di Di Maio, serve riflettere e tenere comunque unito il Pd nella risposta. L’opposto di quanto sta accadendo. Fermiamoci e ricominciamo». Andrea Orlando è prudente, ma non chiude: «Mi pare che non si siano prodotti fatti che determinino una situazione completamente diversa, ma è giusto valutarlo insieme. Riflettere in una fase così convulsa è utile, magari per arrivare alle stesse conclusioni».
Ma alle conclusioni sono arrivati già da tempo i renziani. Ettore Rosato spiega che essere alternativi a Salvini e Di Maio «è l’essenza del nostro partito di governo». Matteo Orfini liquida come «strumentali» gli appelli di Di Maio. Lorenzo Guerini non apprezza i tweet di Franceschini e compagni: «La riflessione unitaria non si fa su Twitter ma nelle sedi idonee».
Al fronte «aventiniano» dei renziani prova a opporsi un altro drappello di esponenti, a cominciare da Matteo Richetti, che non ama «quando si dice godiamoci i pop corn». Nel senso dello stare fermi all’opposizione a vedere che succede. Poi però, nonostante l’accenno ai popcorn ultra citati da Renzi, invita la platea di un’iniziativa romana a un «caloroso applauso» all’ex segretario. Quanto ai 5 Stelle, dice Richetti, va bene valutare una disponibilità al dialogo, «ma non ho capito al governo per fare cosa. Salvini si sa, ma i 5 Stelle?».
Chi prova a tenere tutti insieme è Martina. Che nega che sia in atto un Aventino da parte del Pd: «Assolutamente no. Abbiamo indicato anche al Quirinale alcuni temi ai quali rimaniamo ancorati, da quelli sociali all’occupazione, dal lavoro al sostegno agli investimenti, fino al raddoppio del reddito di inclusione». Sui 5 Stelle non si sbilancia ma invita a stoppare lo scontro: «Per me oggi più che mai il tema è rilanciare uniti il Pd, basta conte e divisioni». In realtà la partita è doppia, perché è giocata sul filo dell’atteggiamento da tenere con i 5 Stelle ma anche sul fronte interno. Il 21 aprile si terrà l’assemblea nazionale. E c’è da trovare un nuovo segretario. Martina è pronto a ricandidarsi. E così Richetti, che però chiede «le primarie aperte, l’unico modo di legittimare il partito».

Corriere 8.4.18
Le tensioni
Inflessibili e dialoganti, filo-grillini e attendisti Il risiko del Nazareno
di Monica Guerzoni


ROMA Come sa bene il ministro Andrea Orlando «la vita è più complicata di due opzioni», soprattutto quando un partito ancora frastornato per la botta elettorale deve rispondere all’amletico quesito «arrocco, o dialogo?». Martedì il tema sarà affrontato nell’assemblea dei gruppi parlamentari, ma intanto l’apertura di Luigi Di Maio ridefinisce le correnti del Pd. Gli aventiniani di Matteo Renzi, i dialoganti di Dario Franceschini, i filo-grillini di Michele Emiliano, gli aperturisti cauti di Andrea Orlando.
Al reggente Maurizio Martina l’arduo compito di fare da colla alle tessere del variegato mosaico dem e condurre il partito fino all’assemblea del 21 aprile. Evitando di uscire a pezzi da un secondo turno di consultazioni che pericolosamente si intreccia con le dinamiche pre congressuali.
Contro ogni tentazione di dialogo con Di Maio, i renziani fanno muro. L’ex premier smentisce di avere in mente un cambio di strategia e quando Dario Franceschini invita i dem a fermarsi, ricominciare a riflettere, dal «giglio magico» e dintorni arriva lo stop. Ettore Rosato, che alcuni renziani vorrebbero segretario-traghettatore, rivendica l’alternatività del Pd rispetto a Lega e Movimento 5 Stelle e assicura che la rotta dei vertici non cambierà. La differenza con Salvini e Di Maio, spiega Matteo Orfini, è una questione di programmi e cultura politica «e non sarà certo un appello strumentale a cambiare tutto questo». Così la pensano Andrea Marcucci, Luca Lotti, Maria Elena Boschi, Alessia Morani, Anna Ascani, David Ermini. E perché non resti un margine di dubbio, Michele Anzaldi fa notare come tra le centinaia di militanti che hanno risposto al tweet di Franceschini ci sia «la quasi unanimità» di chi non vuole sentir parlare di un accordo con i pentastellati.
Debora Serracchiani ha preso le distanze dal renzismo. Matteo Richetti prova a ballare da solo: «Possiamo giocare sul tema della disponibilità al governo, ma per fare cosa? Gli accordi si fanno sulle proposte». Dalla parte del «senatore di Firenze e Scandicci», come Renzi ama definirsi, si confermano Graziano Delrio e Lorenzo Guerini, i quali però parlano con la fronda dialogante di Franceschini, Paolo Gentiloni, Luigi Zanda, Franco Mirabelli, Alberto Losacco.
Per tenere insieme tutti, Martina sta rischiando la riconferma a segretario. Nel tentativo di mediare il reggente cerca formule il più possibile inclusive, a costo di apparire contraddittorio. «Il Pd sull’Aventino? Assolutamente no», giurava ieri il ministro, che pur avendo apprezzato gli accenti autocritici del capo politico pentastellato ribadisce il no a Di Maio: «La linea non cambia, è quella espressa al Quirinale».
All’evento «Sinistra anno zero» organizzato da Enrico Rossi di Leu si sono affacciati diversi dem del fronte dialogante, come Gianni Cuperlo, Cesare Damiano, Ugo Sposetti, Francesco Boccia. C’era anche il ministro Orlando, che si sente rappresentato da Martina e che ritiene «giusto» parlare con il Movimento 5 Stelle «ma senza nascondere le distanze». La linea cautamente aperturista è condivisa da Gianni Cuperlo, evidentemente contrariato dal gioco dei due forni di Di Maio: «Considerare alternative l’alleanza con i dem e quella con la Lega è una mossa di difficile lettura».
Non bastano due opzioni dunque, per spiegare come il Pd sia spaccato tra il partito dell’Aventino e il partito dell’arrocco. Michele Emiliano è stato il primo a stendere tappeti rossi ai vincitori e non ha cambiato idea, tanto che Francesco Boccia, vicino al presidente della Puglia, è pronto a consentire a Di Maio «di accendere i motori della legislatura».

il manifesto 8.4.18
A Macaluso l’applauso più lungo: «Siamo al dunque»
Sinistra anno zero, l'altro Pd riunito a Roma. Il seminario diventa la giornata della ripartenza
di Daniela Preziosi


ROMA «Il Pd è l’unica forza capace di contrastare processi che minacciano la democrazia in Italia, ma sarà capace di trovare le ragioni per rimanere unito, senza scissioni?». Emanuele Macaluso, classe 24, dirigente storico del Pci, direttore dell’Unità, oggi titolare di una seguitissima pagina facebook (Em.ma in corsivo) non è mai stato tenero con gli scissionisti. Proprio per questo nella sala del centro Congressi Cavour scatta l’emozione quando avverte: «Oggi siamo arrivati al dunque». Intende il capolinea a cui si trova il Pd, a cui pure non è stato mai iscritto. È lui che prende l’applauso più lungo dell’assemblea «Sinistra anno zero», organizzata dal giovane Giuseppe Provenzano, vicedirettore dello Svimez e orlandiano doc, che ha convocato giovani (e non) delle diverse militanze e competenze della sinistra. Doveva essere un seminario sulla sconfitta, si è trasformato in una giornata di organizzazione della ripartenza a sinistra. A cui sono accorsi Andrea Orlando, Gianni Cuperlo, Maurizio Martina, Cesare Damiano, Walter Tocci e altri dem di lungo corso, tutti provenienti dall’area della sinistra.
La parola «rottamazione» non è nel vocabolario degli interventi. E nessuno pensa che Renzi sia l’unico responsabile della sconfitta storica – che qui si fa risalire all’ubriacatura anni 90, liquidando però come «salottiere» le sinistre che all’epoca avvertivano i rischi della globalizzazione – ma certo l’analisi del gruppo dirigente Pd è senza appello: «La peggiore classe dirigente. Non perché ci ha fatto perdere così tanto, ma perché ci ha lasciato così poco da cui ripartire», scandisce Provenzano in apertura. Serve una nuova generazione. Orlando si mette a disposizione: «Non si tratta di rottamare ma di costruire una nuova classe dirigente su un nuovo asse politico culturale». Ci sono anche alcuni compagni separati di Leu: «Dobbiamo tornare a ragionare insieme», dice Alfredo D’Attorre. Ma non è il caso di illudersi, avverte ancora Orlando: il voto dice che «è finito il centrosinistra. Dobbiamo capire quali sono gli strumenti che ci servono in questa fase nuova».

il manifesto 8.4.18
L’eredità scomoda dell’Azionismo nella crisi italiana
di Davide Conti


Il profilo politico-culturale dell’eredità storica del Partito d’Azione, incarnato da figure come Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Duccio Galimberti, Giorgio Agosti, ha sempre rappresentato in Italia un elemento di rara quanto manifesta incompatibilità con gli esiti conclusivi della transizione avviatasi con la fine della guerra, la sconfitta del nazifascismo e la nascita della Repubblica democratica.
Per lungo tempo la riflessione pubblica sul lascito dell’esperienza del Partito d’Azione, ovvero della seconda forza politico-militare della Resistenza, è stata circoscritta al perimetro dell’immediato dopoguerra, coincidente invero con la parabola del PdA, e sintetizzata con l’immagine della «occasione mancata» di rinnovare nel profondo la struttura dello Stato e la società nonché per avviare un processo pedagogico di nazionalizzazione antifascista delle masse.
Tuttavia proprio il nesso conflittuale tra rottura e continuità, che segna la composizione di ogni «crisi organica», è rimasto al centro della vita pubblica del Paese anche nei decenni successivi riemergendo in modo visibile durante il cosiddetto «boom economico» degli anni ’50-’60 e poi nel corso della crisi 1989-1994 che ha ridefinito assetti nazionali ed internazionali.
Alla ricostruzione d’insieme di questi decisivi passaggi della storia d’Italia ed all’interpretazione-comparazione dei suoi termini fondamentali con l’eredità dell’azionismo è dedicata la 14° edizione «Cantieri dell’Azionismo», che prenderà avvio sotto la direzione di Giovanni De Luna il 10 aprile presso la Sala Atti parlamentari della Biblioteca del Senato, promossa dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Torino, dalla Fondazione Dalmazzo e dall’Archivio Storico del Senato.
Rileggere i nodi essenziali delle più importanti trasformazioni manifestatesi nel corso della vicenda dell’Italia repubblicana richiama la necessità di ragionare attorno alle «cesure», intese come linee di faglia dietro le quali è impossibile ritornare; alle «presenze», in termini di stratificazione delle eredità del passato come base del contemporaneo, ed ai «ritorni» intesi come riemersione di fenomeni figli della fase storica attuale.
Posto all’interno di una lettura di lunga durata, in dichiarata controtendenza rispetto alle odierne logiche «istantanee», il recupero dell’eredità scomoda del PdA può senz’altro divenire un utile strumento d’interpretazione degli anni 1958-1968 che cambiarono l’Italia e soprattutto del quinquennio successivo alla caduta del muro di Berlino che nel nostro Paese determinò l’avvio di una nuova fase storico-politica che proprio ai giorni nostri volge al termine avviando una nuova transizione dai contorni quanto mai indefiniti e che tuttavia richiama in modo brusco e diretto alla necessità di ridefinire i termini della relazione politica tra memoria pubblica, democrazia e impianto valoriale della Repubblica di matrice resistenziale.
Il punto nodale alla base della riflessione proposta dai «Cantieri dell’Azionismo» risiede nel tentativo di non esaurire l’antifascismo e la Lotta di Liberazione entro il perimetro alto e nobile della Resistenza e di non vincolarlo in modo esclusivo all’individuazione, sia chiaro indispensabile, della Costituzione come traduzione di sistema della lotta 1943-1945.
I termini dell’esercizio plurale della democrazia, il rapporto tra le classi, i diritti di cittadinanza ed i suoi istituti di garanzia segnano una linea d’indirizzo concreta ed interamente antiretorica in grado di «parlare» di nuovo, come nei primi decenni della Repubblica, a quella massa di persone e di nuovi cittadini provenienti dal mondo, che cercano quelle fondamentali forme di protezione ed emancipazione sociale, d’identità solidale e indipendenza culturale che l’assetto elitario della modernità ha loro violentemente sottratto.
Questa appare ad oggi la natura profonda dell’esercizio della politica, individuare i tratti profondi della caratterizzazione democratica con l’obiettivo di rompere, proprio in tempi assai confusi, con l’eterno ritorno di quella che Piero Gobetti chiamava l’autobiografia della Nazione.

il manifesto 8.4.18
Genova 2001, una storia da raccontare per intero
La lettera. In risposta all'articolo «La credibilità della polizia è da ricostruire» di Lorenzo Guadagnucci
di Franco Gabrielli

Capo della Polizia – Direttore Generale della Pubblica Sicurezza

Gentile Direttore,
ho letto con attenzione l’articolo «La credibilità della polizia è da ricostruire» perché tocca uno degli aspetti che ritengo fondamentali nel rapporto tra Stato e cittadino. Quello della credibilità delle Istituzioni.
La mia storia personale, ancor più professionale, ruota tutta intorno a questo principio. Se le Istituzioni non sono credibili, se i cittadini non si riconoscono nelle Strutture che li governano, non vi può essere alcun virtuoso rapporto tra essi.
Ne ho fatto una sorta di mantra in tutte le mie esperienze professionali che hanno toccato gli aspetti della Sicurezza nelle sue molteplici accezioni. Da direttore dell’Agenzia di intelligence interna, a Capo del Dipartimento della protezione civile e, da ultimo, ora quale Capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza.
Ho espresso parole chiare e nette sulle responsabilità di quanto accadde nel corso del G8 di Genova. L’ho fatto in modo convinto, perché ho sempre ritenuto, per dirla con una iperbole, che non vada condannato chi dà la manganellata (o perlomeno non solo, se vi sono abusi), bensì chi ordina la carica. E queste parole le ho pronunciate, non come spesso accade nell’ambito ristretto di Uffici del Palazzo, per usare le parole del giornalista, bensì in pubblico e le ho anche consegnate alla carta stampata.
Parole che avrei potuto evitare (da noi si dice che non è importante farsi amici, quanto evitare di farsi nemici) perché io a Genova non c’ero e non c’era nessuno dell’attuale vertice della Polizia di Stato. Ma poiché chi è a Capo di una struttura deve farsi carico anche del passato di essa, ho ritenuto necessario prendere le distanze una volta e per tutte da quella vicenda.
E quelle parole non sono rimaste petizioni di principio. Molte delle persone condannate per quell’avvenimento sono ormai andate in pensione. Altre hanno abbandonato l’Amministrazione.
Le restanti sono state reintegrate, così come prevede la legge, con mansioni proporzionate alle qualifiche ricoperte. Nessuna promozione è stata conferita. Nessun avanzamento in carriera. Nessun posto di prestigio o di responsabilità, anticamera per future progressioni. Nel frattempo, abbiamo percorso chilometri di strada. Abbiamo modificato i criteri di assunzione, formazione, aggiornamento, progressione in carriera. Tra le file dei nostri poliziotti, anche nelle qualifiche di base, ci sono percentuali di laureati in passato inimmaginabili. Abbiamo costituito anche un Ufficio Affari Interni, per il controllo del nostro personale. Insomma posso affermare, senza tema di essere smentito, che siamo migliori di quanto eravamo. Ed è per questo che tra le Istituzioni pubbliche, le forze di Polizia sono ai primi posti per indice di fiducia dei cittadini.
Però la credibilità delle Istituzioni passa anche attraverso una rappresentazione veritiera del suo agire. Il continuare a rappresentare il G8 di Genova come una vicenda esclusivamente limitata alla Polizia mi pare profondamente ingiusto e riduttivo. A Genova non c’erano solo poliziotti. C’era tutto lo Stato, nelle sue molteplici articolazioni. Del resto la magistratura contabile ha condannato 28 persone, tra cui magistrati, medici e componenti di altre amministrazioni. Di essi solo 9 erano poliziotti (nessuno dei quali, tra l’altro, con compiti di responsabilità) e Bolzaneto, citato nell’articolo, lo ricordo a me stesso, non era una struttura sotto la direzione della Polizia di Stato. Noi, grazie anche ai mass media, il nostro processo per il superamento di quella vicenda lo abbiamo affrontato. I nostri poliziotti sono stati condannati ed hanno scontato interamente le pene irrogate. Forse è giunto il tempo per una stampa, attenta e consapevole, quale si è dimostrata nei nostri confronti, di affrontare quella pagina della nostra storia in tutta la sua complessità. Perché altrimenti sorge il sospetto che quella che vada ricostruita non è solo la credibilità della Polizia.

il manifesto 8.4.18
Ossessione migranti, patria e famiglia Ungheria oggi al voto
Alle urne. Viktor Orbán verso il quarto mandato (il terzo consecutivo). Ma rispetto alle elezioni del 2014 sembra che il pavimento scricchioli in casa del premier, e le opposizioni prendono coraggio
di Massimo Congiu


BUDAPEST «Per noi l’Ungheria viene prima» è lo slogan del partito governativo Fidesz per queste elezioni, si vota oggi. Il primo ministro Viktor Orbán punta a ottenere il quarto mandato (il terzo consecutivo) al termine di una campagna elettorale tesa e vissuta all’insegna di un pesante scambio di accuse tra le forze politiche in campo. Particolarmente aggressiva e martellante quella del governo che in questi ultimi anni ha riempito il Paese con cartelloni che paventano l’arrivo di milioni di migranti musulmani pronti a invadere l’Ungheria e il resto dell’Europa. I migranti e George Soros sono diventati i temi centrali della campagna governativa che accusa tutta l’opposizione, quella di destra, liberale e di centro-sinistra, di essere manovrata dal magnate americano di origine ungherese per distruggere il Paese e consegnarlo al pericolo islamico con la complicità di Bruxelles.
Orbán veste i panni dell’unico uomo politico in grado di difendere la sua terra da questi pericoli e indica nell’opposizione l’agente, al soldo di poteri esterni, che coltiva sentimenti antipatriottici. Il premier si è sempre rifiutato di partecipare a un confronto diretto con i leader dell’opposizione, non li ha mai degnati di questa possibilità e ha preferito rivolgersi ai suoi connazionali, certo di conservare il loro appoggio.
Tutti i sondaggi sono concordi nel dare il partito Fidesz in netto vantaggio sui suoi avversari: si parla del 40-45% dei consensi contro il 19-20% di Jobbik che vuole farsi percepire ormai come partito conservatore ma moderato, il 14% dei socialisti in alleanza con Párbeszéd (Dialogo), il 7% dell’LMP (liberali verdi), il 6% di DK (Coalizione Democratica, il partito dell’ex premier socialista Gyurcsány), il 3% di Momentum e il 2,5-3% dei centristi di Együtt (Insieme). Diversi analisti, però, avanzano dei dubbi sull’attendibilità di queste indagini in quanto realizzate su campioni limitati, e fanno notare che un terzo degli elettori è contrario al governo e teme che il Paese venga spinto verso una deriva sempre più antidemocratica da un sistema autoritario che controlla la stampa, le procure, la Corte Costituzionale e la Corte dei Conti.
C’è effettivamente una parte di paese che vuole il cambiamento ma che manca di una rappresentanza politica strutturata e unitaria che dia voce a questo desiderio di svolta. Bisogna poi considerare che c’è un settore di elettorato stanco del clima teso che regna ormai da molto tempo in un paese sollecitato dal premier a stare costantemente all’erta perché il nemico che viene da fuori è in agguato e pronto a colpire grazie anche ai traditori della patria. Stanco di un sistema di cose negativo che sembra perpetuarsi. La conseguenza è l’assenteismo alle urne. I sondaggi riferiscono che due su tre aventi diritto affermano di andare a votare, e la bassa affluenza favorirebbe il Fidesz che può contare su una base solida di circa 2 milioni di votanti certi. Sempre secondo le indagini realizzate di recente, il 30-35% non saprebbe bene chi appoggiare. Bisogna capire chi riuscirà a convincere questo settore dell’elettorato e portarlo dalla sua parte: il governo, le opposizioni o il partito dell’astensione. Del resto c’è anche chi non vede un’alternativa al sistema creato da Orbán.
L’esecutivo si fregia del merito di aver ridato vigore all’economia; un’economia nazionale che cresce protetta dagli appetiti dei già citati poteri esterni. Di fatto, però, questa crescita deve molto ai fondi Ue grazie ai quali, in questi anni, si è svolta la gran parte degli investimenti interni. L’economia cresce, ma per chi? «Per pochi», dice László Kordás, leader dell’Maszsz, la principale confederazione sindacale ungherese. Non dimentichiamoci, poi, che oltre un quarto della popolazione è in notevoli ristrettezze economiche e a rischio di povertà. Se è vero che l’economia cresce c’è qualcosa che non torna sul piano della distribuzione della ricchezza prodotta. Gli squilibri sociali sono evidenti e chi sta peggio concepisce un disagio che non è più solo materiale, ma esistenziale nel senso più profondo del termine, e finisce col convincersi dell’impossibilità di un cambiamento, se non in peggio.
I fondi europei hanno consentito miglioramenti infrastrutturali e il recupero di aree cittadine, ma danno modo alle opposizioni di accusare il governo di aver gestito i medesimi in modo tutt’altro che trasparente. L’altra accusa è quella di aver preferito la Russia di Putin all’Europa dei valori democratici. Per Orbán Putin è l’esempio di come si possa governare bene in modo illiberale. Il premier di Budapest sostiene infatti che la democrazia non deve essere per forza liberale e che anzi, la democrazia illiberale è quella che interpreta meglio il presente e che, sola, può dare risposta al bisogno di sicurezza espresso dalle popolazioni in questi tempi di grande instabilità. Così capita che Steve Bannon consideri Orbán un «eroe di oggi» per questa sua rivoluzionaria visione politica.
Patria, famiglia, valori cristiani: il governo del Fidesz batte su questo. Certo, in particolare dalle elezioni del 2014 anche le opposizioni di centro-sinistra hanno approcciato la questione dell’attaccamento al Paese chiamando patriota chi si oppone al sistema di Orbán per riportare lo Stato danubiano su un percorso di crescita democratica. Rispetto ad allora sembra che il pavimento scricchioli in casa del premier, e pare anche che le opposizioni abbiano acquistato coraggio. Secondo alcuni analisti è lecito aspettarsi sorprese a dispetto dei sondaggi. Le elezioni di oggi sono per questo un po’ particolari rispetto a quelle di quattro anni fa. Qua e là si parla di esito non scontato del voto con argomentazioni dettate anche dalla speranza che qualcosa cambi. Se l’opposizione fosse unita sarebbe tutto un po’ più facile, invece la medesima soffre di una notevole mancanza di compattezza, e non è cosa da poco. Ne sapremo di più in serata.

il manifesto 8.4.18
Ágnes Heller: «Il sistema Orbán è in fase di declino»
Intervista . Il premier verso il suo terzo mandato, «ma in questi quattro anni ha perso molto e ora i partiti dell’opposizione potrebbero sfruttare questa occasione», parla la filosofa ungherese
di Massimo Congiu


BUDAPEST Filosofa, allieva di György Lukács e in seguito sua assistente universitaria e collaboratrice, Ágnes Heller è stata una delle principali esponenti della «Scuola di Budapest». Nata nel 1929 nella capitale ungherese, scampata alla Shoah, è oggi una delle voci critiche nei confronti del sistema di Viktor Orbán. Heller è nota in occidente per la teoria dei bisogni radicali e della rivoluzione della vita quotidiana e per aver dato luogo a una lettura del marxismo dal punto di vista antropologico e antieconomicista. La teoria dei bisogni in Marx, 1974, La filosofia radicale, 1978, e Filosofia morale, 1990, sono tra le sue opere tradotte in italiano.
Facciamo un bilancio di questi ultimi anni di governo.
Negli ultimi quattro anni il governo si è occupato di concentrare il potere nelle sue mani. E di esercitare soprattutto il controllo delle manifestazioni di dissenso. In pratica ha cercato di annientare l’opposizione. Basta considerare il discorso di Orbán dello scorso 15 marzo (festa nazionale, ndr) in cui parlava di repressione contro quanti lo avversano, contro i partiti e le organizzazioni della società civile che si oppongono alla sua politica, contro gli organizzatori delle manifestazioni antigovernative e contro i giornalisti che lo criticano. Gli ha promesso ritorsioni. La situazione è peggiorata, non c’è stata libertà di stampa, che è stata progressivamente limitata. Inoltre la propaganda governativa mente al 100%, un po’ come quattro anni fa quando il governo ha promesso la riduzione dei costi delle utenze.
Soprattutto negli ultimi tre anni il governo ha battuto molto sulla questione migranti.
Sì, e oggi Orbán dice che l’opposizione vuole portare in Ungheria milioni di migranti, sopprimere la specificità culturale del paese e la sua identità cristiana. Non c’è niente di vero in ciò che il governo attribuisce all’opposizione in questo senso, ossia aprire le porte del paese a tutti: agli africani, a tutti i migranti, invitarli a entrare in Ungheria in modo indiscriminato e mettere a loro disposizione una casa, un posto in cui stare a titolo gratuito. Questo è oggi l’aspetto centrale della propaganda governativa.
L’altro tema della propaganda orbaniana è quello riguardante la figura di George Soros.
Il tema è legato a quello dei migranti e fa capo allo stesso meccanismo. Per il governo, Soros è colui il quale organizza tutte queste macchinazioni ai danni del paese. Quello che muove i fili dietro i partiti dell’opposizione che secondo il governo non rappresentano l’Ungheria e fanno piuttosto gli interessi di una congiura internazionale. Secondo l’esecutivo, Soros coordina questa congiura, è il ragno che cattura tutti nella sua tela. Il governo Orbán gioca il ruolo del difensore del paese da tutti i pericoli esterni e quindi anche da Soros. Quest’ultimo è una figura mitologica, è Mefisto, Lucifero, è il diavolo che tenta tutti e vorrebbe fare la stessa cosa anche con l’Ungheria per distruggerla. Solo Viktor Orbán si erge in difesa del paese, solo lui può proteggerlo da queste minacce. Questa è più o meno la narrazione governativa.
L’opposizione lancia al governo accuse di corruzione.
Credo che corruzione sia il termine sbagliato. Corruzione è quando un uomo d’affari paga un rappresentante del governo. Quando la politica influenza l’economia. Quando il mondo degli affari condiziona la politica. Quella è la corruzione. In Ungheria non avviene esattamente questo, quindi a mio avviso non si può parlare, tecnicamente, di corruzione. Esiste un partito, questo partito crea l’oligarchia ungherese i cui membri prendono soldi, hanno una fetta di potere e contemporaneamente si assumono l’impegno di rimanere fedeli al partito e hanno il compito di sostenerlo. Fanno capo a Viktor Orbán ed è come se fossero membri di una stessa famiglia. Questo sistema viene chiamato da alcuni «stato-mafia», è forse una buona definizione. Potremmo anche parlare di feudalesimo, con un signore che premia i suoi sottoposti con i latifondi. Sono cose che accadono all’interno di un circuito legale. Il 20-30% dei fondi ricevuti dall’Unione europea viene intascato dal governo e dalle persone a esso vicine, sempre con questo sistema.
Come vede l’opposizione?
L’opposizione potrebbe vincere queste elezioni se avesse la generosità e il buon senso di essere meno divisa e litigiosa. Nel 2014 il Fidesz era in minoranza e comunque ha ottenuto la maggioranza dei due terzi. Tutto si complica se l’opposizione non crea una struttura con un solo candidato e se i vari partiti che la compongono continuano a sollevare dubbi e ad alimentare la sfiducia dell’elettorato nei confronti di altre forze politiche ugualmente contrarie al governo. Forse gli elettori sono più intelligenti dei partiti e sanno meglio di loro di cosa ha bisogno il paese. Ma è anche vero che molti non sono interessati alla destra o alla sinistra, e capita che mettano solo una x su un simbolo senza considerare la responsabilità del loro gesto.
Cosa pensa dei partiti Momentum e il Partito del Cane a Due Code?
Momentum è un partito di giovani, molti dei quali hanno completato i loro studi all’estero. Inizialmente, da fuori, non avevano idea di cosa succedesse in Ungheria, ora cominciano pian piano a capire come stanno le cose e a rendersi conto che all’estero non si comprende bene che cosa succede in questo paese. Adesso iniziano a occuparsene e a fare politica in modo rispettabile. Quello del Cane a due code è un partito ironico, lo voteranno quelli che non credono più in nessuna delle forze politiche concorrenti, quelli per i quali tutto è marcio, ma di certo non entrerà in Parlamento.
Jobbik ha deciso di cambiare un po’ identità o abito.
Jobbik è cambiato molto e sta facendo un percorso inverso a quello di Fidesz. Quest’ultimo, infatti, era un partito liberale, poi è diventato di destra e ora è di estrema destra, con il razzismo e con tutto ciò che caratterizza la destra radicale. Jobbik ha iniziato nell’estrema destra, ma poi ha visto che lì non c’è più posto in quanto tutto quello spazio è stato occupato dal Fidesz. Da qualche parte Jobbik doveva cercare collocazione. Dove? Solo al centro. Ora in Ungheria non c’è un partito della destra moderata o di centro-destra, dato il cambiamento del Fidesz, quindi Jobbik ha approfittato di uno spazio lasciato vuoto. Al centro ha visto la sua occasione migliore.
C’è chi dice che per Orbán è iniziata una fase declinante. È una visione semplicemente ottimistica o fondata?
Secondo me non è una visione ottimistica, è un dato di fatto. Ormai nei suoi discorsi parla solo di questo milione di migranti pronto all’invasione. Non sa che altro dire. Ora l’opposizione potrebbe approfittare della situazione. Quattro anni fa non era così, non si poteva parlare di declino. Ora però la situazione è cambiata, Orbán ha perso molta della sicurezza che aveva prima e i partiti dell’opposizione potrebbero sfruttare questa occasione.

Corriere 8.4.18
L’intervista  a Ágnes Heller
«Il sistema di Orbán in Ungheria? Un mix di affari e feudalesimo»
di Paolo Valentino


BUDAPEST Signora Heller, lei critica duramente Orbán.
«Sì. E criticavo duramente anche János Kádár, sotto il regime comunista».
Touché. Ma perché Viktor Orbán?
«Perché ha di fatto abolito la libertà di stampa, perché usa fondi europei per far arricchire i suoi amici e familiari, perché le scuole e la sanità pubblica in Ungheria sono in una situazione tragica. Perché vuole controllare anche la cultura: sa che nell’unico libro di Storia ora in uso nei licei, l’ultimo capitolo è dedicato a Orbán? Neppure Kádár lo aveva fatto. Orbán è un tiranno».
Avrà anche 88 anni Ágnes Heller. Ma è in forma strepitosa, brillante e pungente come quando negli Anni 70 teorizzava i «bisogni radicali». Sopravvissuta all’Olocausto, allieva di Gyorgy Lukacs, Heller è stata leader della Scuola di Budapest, la corrente filosofica del marxismo dissidente nei Paesi dell’Est socialista.
Ma perché la maggioranza appoggia Orbán?
«Il 60% non vota per lui. Ma restiamo alla sua domanda. L’Ungheria è un Paese molto nazionalista a causa della sua storia, dal Trattato del Trianon alla dominazione sovietica. Orbán con la sua retorica sa toccare questo nervo scoperto. Si erge a difensore della patria contro gli immigrati, l’Unione Europea, le Ong, l’Onu. E questo fa presa sull’orgoglio degli ungheresi, che vedono in lui il salvatore».
Non sarà anche per l’economia che va molto bene?
«Va bene per gli amici e gli amici degli amici. Voglio aggiungere un’altra cosa: gli ungheresi non sono abituati alla democrazia, si aspettano ogni cosa dall’alto, una volta era il re, poi fu il segretario del partito, oggi è il premier. Conoscono ancora un solo diritto, lo jus supplicationis , il diritto di supplica. Al governo chiedono un favore e lo ottengono se lo appoggiano. Un esempio? Oggi in Ungheria non puoi aprire un’attività se non sostieni Fidesz. Il sistema Orbán è una combinazione tra feudalesimo e mafia».
È pessimista sull’esito del voto di domani?
«Non sono né pessimista né ottimista. L’unica speranza è che Fidesz non prenda nuovamente i due terzi dei deputati. Sarebbe già un risultato, in presenza della montagna di bugie e della mobilitazione totale. Perfino i funzionari pubblici fanno propaganda per il governo a spese nostre, mentre il 97% dei media è controllato da Fidesz».
Sembra una dittatura.
«Non mi piace usare questo termine, perché è associato indissolubilmente al nazismo o al comunismo. L’Ungheria non è un Paese totalitario. Ma sicuramente è una tirannia. Succede solo ciò che Orbán vuole. È un po’ il modello di Putin e Erdogan, anche se l’appartenenza all’Ue lo rende più prudente e non può permettersi di fare come loro. Ma ha detto chiaramente che se vince si vendicherà degli avversari. Come un tiranno».
Pensa che l’Europa sia troppo indulgente con lui?
«Sì. L’Ungheria è un piccolo Paese e non viene considerato un vero problema. Poi c’è la protezione accordata a Orbán dal Partito popolare europeo, che ha bisogno dei voti di Fidesz nel Parlamento di Strasburgo. Invece dovrebbero prenderlo più seriamente, perché Orbán non è solo un fenomeno ungherese, è ormai un modello per i populisti ovunque, in Francia, in Italia, in Germania».
C’è una chance che perda?
«Molto remota. Non dipende dai partiti di opposizione, ma dagli elettori che dovrebbero votare un solo candidato anti Fidesz in ogni circoscrizione. Ma succederà solo limitatamente».
Cosa succederebbe se Orbán perdesse?
«Non credo accetterebbe la sconfitta. Ho timore di disordini e sollevazioni. Ricordiamoci che controlla forze armate e polizia. Lo credo capace di tutto. Penso che se i partiti di opposizione avessero la maggioranza, dovrebbero immediatamente nominare un premier super partes, in grado di prendere il controllo».
La scelta di Soros come nemico ha un fondo di antisemitismo?
«Orbán non è antisemita. Usa tutto ciò che gli serve per rafforzare il suo potere. Avvelena l’anima del popolo, che crede a tutto quello che dice, per mobilitarlo. Così Soros diventa il “grande cospiratore” e noi siamo tutti sue spie o soldati. È assurdo. Orbán con Soros segue il modello di Erdogan con Gulen, accusato di tutto. Soros è americano, ebreo, ha origini ungheresi: il nemico perfetto per Orbán».
E questo non suscita l’antisemitismo?
«Non è il punto decisivo. Nella retorica di Viktor Orbán i nuovi ebrei sono gli immigrati musulmani: accusa Soros di volerne portare in Ungheria un milione l’anno. Un incubo, una bugia vergognosa. Ma la gente, soprattutto nelle campagne dove non hanno mai visto un immigrato, ci crede».

La Stampa 8.4.18
Budapest e gli studenti di Soros. la frontiera che resiste a Orban
Oggi il voto in Ungheria, nell’ateneo parte la sfida: “Il premier ci chiama spie”
di Monica Perosino


A Budapest, sotto il cielo grigio della vigilia elettorale, qualcuno spera che il risultato non sia ancora scritto. A centinaia si sono dati appuntamento sotto una pioggia intermittente a Olof Palme setany, nel quartiere Varosliget, per marciare in un «carnevale dei diritti contro il regime di Orban» spiega Márton Gulyás, 32 anni, regista e attivista. Una chiamata al voto «per rovesciare il sistema corrotto di Fidesz». Dietro gli striscioni ci sono le ong, gli studenti universitari, le piccole sigle politiche dell’opposizione. In un unico corteo si sono dati appuntamento tutti i nemici di Viktor Orban.
Oggi l’Ungheria deciderà se consegnare al primo ministro il quarto mandato dal 1998, il terzo consecutivo. Secondo la maggior parte dei sondaggi, il leader del partito Fidesz raggiungerà il suo obiettivo con circa il 50% dei voti. L’unica forza in grado di dargli fastidio è il partito nazionalista di estrema destra Jobbik.
Il «Viktator» - come lo chiamano gli oppositori - del muro anti-migranti e del sovranismo assoluto ungherese, ha chiuso la dura campagna elettorale con la promessa di «occuparsi» dei suoi nemici. E il nemico numero uno è il miliardario filantropo americano-ungherese George Soros, che attraverso le Ong e l’università internazionale, «usa 2000 agenti infiltrati per trasformare l’Europa in Paesi di immigrati».
Sophie ed Emmanuel, lei di Marsiglia, lui della Normandia, aspettano di fronte alla scritta colorata «Budapest» alla fine di «Vaci utca»: «Ecco, siamo due dei 2000 agenti infiltrati di Soros». Ridono, ma intanto sono preoccupati. «Siamo studenti della Central European University, quella che Orban vorrebbe chiudere». L’Università internazionale, tra le migliori europee, è finanziata da Soros, e ospita circa 1500 studenti da 110 Paesi. Sophie, che studia Scienze sociali, collabora anche con una Ong: «La pressione è altissima, per il governo rappresento il diavolo. Ma noi vogliamo solo studiare».
Lo scorso 14 febbraio il governo ha presentato al parlamento una legge che prende di mira le persone e le Ong che «promuovono» l’immigrazione. Il progetto di legge, che già dal nome - «Stop Soros» - non lascia fraintendimenti. Vuole impedire l’accesso alle zone di frontiera alle Ong, ed esige il 25% di quanto percepiscono dai finanziatori esteri. Non solo, gli atenei stranieri dovranno avere una sede anche nel Paese di provenienza: la Ceu sarebbe l’unica istituzione colpita.
Nella cosmopolita Budapest nulla farebbe pensare che la partita sia già chiusa. Ma non è qui - dice Bianka, 27 anni, commessa - la vera Ungheria: io vengo da un paesino del Nord dove non c’è ancora elettricità in tutte le case, dove nessuno parla inglese. Siamo isolati, e la percezione di quello che succede è manipolata».
In nome della «difesa della patria» e dei «valori cristiani» il governo di Orban ha messo all’angolo i media e ha rifiutato il multiculturalismo. «Non vogliamo che il nostro colore si mischi», ha detto, tanto che l’Alto commissario dei diritti umani Onu, Zeid Ra’ad Al Hussein, lo ha definito «razzista». Tra i suoi simpatizzanti ci sono Marine Le Pen, il Partito della libertà austriaco, l’AfD tedesco, l’ex leader dell’Ukip britannico Nigel Farage. «Si stanno talmente simpatici - dice Ivett Korosi, analista e giornalista -: che l’immagine per la campagna di Orban sono le stesse usate per la Brexit da Farage».
«La cosa grave - spiegano gli analisti della Ong Migszol - è che l’effetto della campagna d’odio si vede ormai nella vita quotidiana: un cittadino nel panico ha telefonato alle due di notte alla polizia per avvertire che i migranti stavano attraversando Pécs su due minibus bianchi. Erano giocatori di pallanuoto che tornavano da una trasferta».

La Stampa 8.4.18
Tecnologia e una grande classe media indeboliranno il potere di Putin e Xi
Con l’autoritarismo Russia e Cina coprono la loro instabilità. Gli Usa devono prepararsi alla sfida
di Robert D. Kaplan


Siamo passati dal mondo delle lotte ideologiche del 20° secolo al mondo delle lotte geopolitiche del 21° secolo - così almeno crediamo. Ma la tecnologia si sta sviluppando a una tale velocità che questo mondo di conflitti geopolitici probabilmente evolverà verso un altro stadio del confronto.
L’Eurasia sarebbe a rischio, nel momento in cui le autocrazie destabilizzanti di Mosca e Pechino diventassero instabili.
Nel dicembre 1997 scrissi la storia di copertina dell’Atlantic, s’intitolava «Was democracy just a moment?». Tra le élite politiche regnava un ottimismo sfrenato sul futuro trionfo della democrazia in tutto il mondo.
Al contrario, io sostenevo che un tale trionfo avrebbe avuto vita breve e che sarebbero sorte nuove forme di autoritarismo. Le mie argomentazioni si basavano sull’esperienza sul campo come corrispondente estero in decine di Paesi dove le elezioni si erano tenute in assenza di istituzioni e di una classe media. Oggi la mia esperienza di lettore e di corrispondente estero mi suggerisce un’altra lezione: la tendenza autoritaria che ho predetto oltre 20 anni fa potrebbe anche non essere sostenibile.
L’arricchimento della classe media e il progresso tecnologico, fenomeni frequenti nei regimi autoritari o semiautoritari stanno mettendo sotto pressione i governi spingendoli a prestare maggior attenzione alle necessità dei loro cittadini. La Russia e la China ne sono un tipico esempio. E si trovano ad affrontare quella che io definisco la trappola di Samuel Huntington.
Huntington, morto nel 2008, è stato probabilmente il più visionario politologo statunitense. Il docente di Harvard diventato noto per la sua tesi sullo scontro di civiltà, anticipò nel 1993 la natura del recente conflitto tra l’Occidente e l’Islam militante. Ma pubblicò il suo capolavoro «Ordine politico nelle società in cambiamento», nel 1968. Uno dei temi centrali è: la creazione di una grande classe media può rivelarsi politicamente destabilizzante, se i governi e le istituzioni non diventano contemporaneamente più efficienti e capaci di fornire risposte.
Il presidente russo Vladimir Putin intimidisce l’Occidente con le sue politiche di riarmo e di aggressione. Ma regna piuttosto che governare. La Russia non ha vere istituzioni, quanto piuttosto una camarilla di oligarchi raccolta attorno al leader. I russi, tra molti alti e bassi, si sono avviati verso una certa normalizzazione economica dopo il caotico regno di Boris Eltsin negli Anni 90. Ma mentre la qualità della vita e in particolare la sicurezza personale sono migliorate, le istituzioni non si sono evolute, se non in minima parte. E man mano che Putin invecchia, la stabilità della Russia non può più essere data per scontata. Nelle periferie dell’impero si possono creare le condizioni per una versione a bassa intensità dell’ex Jugoslavia. Sarebbe la fortuna della Russia avere gli stessi problemi dell’America.
Fino a tempi recenti, la Cina si stava evolvendo verso un autoritarismo illuminato. Lo stile di governo collegiale dei tecnocrati incoraggiava l’instaurarsi di istituzioni stabili, e agevolava le cose il fatto che il mandato dei leader avesse limiti temporali. Ma la consacrazione di Xi Jinping a presidente a vita rovescia queste dinamiche. Avere un solo uomo al comando implica il culto della personalità, ovvero la distruzione del sistema collegiale su cui poggiava l’esistenza stessa delle istituzioni. E tutto questo accade in un momento di espansione della classe media cinese, mentre lo stato sta cominciando a usare mezzi tecnologici come il riconoscimento facciale e il monitoraggio dei motori di ricerca, per spiare il comportamento online e offline dei cittadini.
La società cinese sta entrando in una fase in cui la gente, che nell’ insieme sta arricchendosi, chiede di più al governo. Questa è la base del ragionamento che fa Huntington in «Ordine politico nelle società in cambiamento». Il disordine politico non cessa mai con l’evolversi della società; semplicemente raggiunge nuovi e più complessi livelli di instabilità. Ecco perché la storia ha un andamento tanto tumultuoso.
Le élite americane intimorite dalle dittature in Russia e in Cina, danno per scontato che il mondo abbia raggiunto una condizione immutabile. Non è così. Il condizionamento mentale che il regime cinese sta cercando di imporre alla popolazione al momento funzionerà. Ma alla fine provocherà un aumento della psicosi, della repressione e dell’ansia a livello individuale. Da questo nasceranno nuovi sommovimenti sociali.
La tecnologia sta scompaginando tutti i tipi di società. Anche gli Stati Uniti. Senza sondaggi d’opinione ed estremizzazioni costruire ad arte in rete, il mondo avrebbe un clima politico più sereno. Un mondo di stanze fumose al posto delle primarie avrebbe scelto un candidato repubblicano più convenzionale per le elezioni presidenziali del 2016. Ma la nuova situazione di instabilità politica dell’America - con tutti i pericoli che comporta - è in grado di autoemendarsi. Negli Stati Uniti ci sono elezioni a livello locale, statale e nazionale, che permettono ai cittadini e alle loro élite di rispondere e adattarsi a circostanze in continua evoluzione.
La Russia e la Cina si trovano in una situazione diversa. La Russia è una costruzione traballante che a un certo punto potrebbe crollare. La Cina è più solida; nondimeno potrebbe lentamente trasformarsi in una polveriera sociale pronta a esplodere, senza uno sfogo per le frustrazioni che l’attraversano. È possibile, in teoria che Xi, in quanto presidente a vita, possa varare un programma di drastiche riforme economiche. Ma questo darebbe via libera al bisogno e all’aspirazione a una maggior libertà personale, proprio il genere di richiesta che il regime sta cercando di eliminare con il suo tentativo di controllare il pensiero attraverso la tecnologia.
Finché la Russia e la Cina si rafforzano militarmente, mantenendo e anzi intensificando la repressione interna, continueranno nel breve termine a scontrarsi con l’Occidente. Ma, come all’inizio della Guerra fredda, i politici devono saper guardare al futuro e alle difficoltà che i loro avversari incontreranno nel tempo per tenere in piedi i loro sistemi. E se questi crollano nel prossimo decennio o in quello successivo, l’Eurasia - di cui Russia e Cina rappresentano i principi organizzativi geografici - ne sarà estremamente destabilizzata. Gli Stati Uniti devono prepararsi a questa battaglia, anche se con un certo ottimismo. Sulla lunga distanza la democrazia vince sempre.
Traduzione di Carla Reschia

Il Fatto 8.4.18
“Congiura delle élite per far fuori il leader che unisce il Paese”
Sogni infranti – Bertinotti conobbe Lula da sindacalista
di Gianluca Roselli


Siamo di fronte a un colpo di Stato bianco preventivo. Di solito non amo parlare di congiure, qui però mi pare evidente. Si vuole mettere fuori gioco il probabile vincitore delle prossime elezioni”. Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione comunista ed ex presidente della Camera, guarda alla condanna dell’ex presidente brasiliano Lula a 12 anni di carcere e al suo arresto con amarezza, sgomento e rabbia.
Bertinotti, lei è stato molto vicino ai movimenti di sinistra in Sudamerica. Che sta succedendo in Brasile?
Quello che vedo è un uso politico della magistratura che diventa il braccio armato di classi dirigenti che lavorano per un esito reazionario della crisi in Brasile, in un momento di grandi tensioni nel continente sudamericano. E si pensa di ottenerlo mettendo fuori gioco il leader che ha interpretato la rinascita di quel Paese e che i sondaggi danno all’80%. È un’operazione politica clamorosa che non si arrende nemmeno davanti alle reazioni popolari. Basti ascoltare le parole del leader del Movimento dei Sem Terra, Joao Pedro Stedile, per capire il sentimento di molti brasiliani. Stedile, critico in passato con Lula, ora è al suo fianco di fronte all’ingiustizia.
Chi vuole far fuori Lula?
Ci troviamo di fronte a una convergenza degli interessi di punti apicali dello Stato e dell’economia che si uniscono per impedire una riconciliazione tra il governo e il popolo che Lula incarna. Con la complicità della magistratura usata per impedire il voto popolare. Addirittura si dice che Lula potrebbe restare in carcere fino alle elezioni e poi essere liberato. Più di così…
Che rapporto ha lei con l’ex presidente brasiliano?
Lo conobbi ai tempi del mio impegno nel sindacato. Di lui però ricordo il discorso che tenne nel 2002 al social forum di Porto Alegre poco prima della sua elezione a presidente. Disse: “Alla fine del mio mandato vorrei che ogni brasiliano possa mangiare almeno una volta al giorno”. Qualche tempo dopo davanti al Fondo monetario internazionale disse esattamente la stessa cosa. Questa è la cifra della persona.
Al di là della condanna, secondo lei è giusto candidarsi per la terza volta alla presidenza?
La sua candidatura nasce da una spinta popolare che suona come una rivincita rispetto a quello che sta accadendo. Gli uomini e le donne che lo sostengono sono la garanzia che non stiamo assistendo a un fenomeno leaderistico. Lula ha anticipato in qualche modo i movimenti populisti. Ma attenzione: dico populista non in senso peronista o denigratorio, ma descrittivo. Un fenomeno che fa dello scontro tra il popolo e le élite, del basso verso l’alto, un elemento distintivo, più che tra destra e sinistra.
Lula, Chavez (deceduto nel 2013), Morales sono stati tre protagonisti di sinistra nella recente storia sudamericana. Quella stagione è finita?
No, direi che si sta trasformando. I tre hanno avuto caratteristiche e storie troppo diverse tra loro: la tradizione indigena nel caso di Morales, quella operaia in Lula. Diciamo che li accomuna il vento di cambiamento che ha spirato per oltre un quindicennio in America Latina.
Lula è stato un leader sindacale prima di diventare un leader politico. Ci rivede un po’ della sua storia?
Troppa grazia, Sant’Antonio. No, non vedo alcun parallelismo, anche perché noi non abbiamo mai vinto con le percentuali di Lula. Battute a parte, mi limito a dire che un’esperienza sindacale o sociale forte per un leader di sinistra può essere molto utile perché insegna a capire le ragioni del conflitto e ad avere una radicalità di contenuti che ne traccia anche la vita politica.

La Stampa 8.4.18
Rispettare i prof aiuta a costruire un Paese migliore
di Vladimiro Zagrebelsky


La gravità dei frequenti episodi, che vedono insegnanti insultati, irrisi, picchiati dagli alunni o dai loro genitori, va oltre quella dei singoli casi. Si è infatti davanti ad un fenomeno sociale che vede gli insegnanti avviliti, impediti di svolgere il loro lavoro e, occorrerebbe dire, la loro missione sociale. Ogni autorevolezza della figura professionale dell’insegnate è perduta e con essa il rispetto per la persona e la possibilità stessa di far opera di educazione. L’impressione è che il fenomeno sia sottovalutato, particolarmente quando gli autori delle violenze siano gli allievi, riducendo le aggressioni a bambinate delle quali basta scusarsi per farla franca (dopo avere naturalmente umiliato l’insegnante diffondendo le immagini riprese con i cellulari). E invece si tratta di una manifestazione di radicale rifiuto del rapporto docente-discente, cui purtroppo spesso si adeguano le famiglie.
L’origine di ciò cui assistiamo è complessa e di lunga data. Altri ha certo competenza per approfondirne le cause sociali, tanto più che non riguarda solo l’Italia. Per restare a esperienze a noi vicine, si può ricordare ciò che avviene nelle scuole più difficili delle periferie parigine, dove gli insegnanti temono per la loro stessa incolumità fisica. Ma là appare una reazione da parte delle autorità di governo, che si manifesta anche con parole, che qui sembrano mancare, per rassegnazione o indifferenza. Mancano qui manifestazioni impegnative di solidarietà per i singoli insegnanti, ma anche complessivamente per la categoria, cui pure, più che ad altre, la società e la Repubblica dovrebbero tenere.
Il rispetto per l’insegnante è indispensabile. Esso si fonda sulla sua capacità professionale, fatta di conoscenza della materia che insegna e di aggiornati metodi didattici, ma anche sull’autorevolezza che discende dalla consapevolezza del ruolo non paritario, che distingue chi insegna da chi deve imparare. Non è irrilevante nell’avvilimento della funzione, ma è anzi segno di mancanza di apprezzamento, il penoso trattamento economico degli insegnanti di tutti i livelli. In una società tanto attenta al denaro, lo stipendio è un’importante indicazione del valore che si assegna alla persona che lo riceve. E non è certo segno di attenzione a questo importante aspetto l’occasionale regalia dispensata da questo o quel governo.
Dovrebbero essere oggetto di attenzione e di proposte non solo lo specifico problema della mancanza di rispetto o addirittura della violenza contro gli insegnanti, patologia grave di una generale situazione dell’istruzione, ma anche quello della formazione, selezione e valorizzazione della preparazione e aggiornamento professionale dei docenti. Da questo evidentemente dipende quella che vogliamo sia una buona scuola.
Una scuola di alta qualità è interesse della nostra società. La cultura dei giovani che escono dalla scuola condiziona la vitalità e civiltà della società tutta e il suo carattere democratico. Come difendere le istituzioni democratiche dalla crescente dipendenza da valori effimeri e irresistibili emozioni o dalla fascinazione di impossibili promesse diffuse da pifferai magici cui si accodano crescenti colonne della popolazione? Come, se non con la scuola, far crescere la capacità critica, l’autonomia di pensiero che fanno di un individuo un cittadino, rendendolo capace di partecipare effettivamente alla vita sociale del Paese? In gioco non c’è solo un efficace «ascensore sociale» che renda dinamica una società rigida come la nostra, non ci sono solo questioni che riguardano le capacità degli studenti a partecipare alla competizione per il posto di lavoro. In gioco è la stessa precondizione della vita democratica della società italiana.
Ma si tratta di questioni che richiedono visione culturale e politica di ampio respiro e di lunga durata. Non di questo, però, si occupano i partiti che discutono del nostro prossimo governo. Se non ai vincitori delle elezioni, almeno ai perdenti che dicono volersi rifondare si potrebbe chiedere di pensare a una visione della società di domani e a un programma per la scuola che la prepara.

Repubblica 8.4.18
Violenze contro gli insegnanti
La solitaria resistenza dei professori
di Massimo Recalcati


Le aggressioni oscene delle quali gli insegnanti sono sempre più spesso vittime, da parte dei loro alunni e delle famiglie che ne sostengono in modo arrogante le ragioni, lasciano senza parole e non dovrebbero essere sottovalutate. Si tratta di un vero e proprio oltraggio che colpisce al cuore la nostra vita collettiva. Conosciamo lo sfondo antropologico in cui avvengono questi episodi: una alterazione della differenza simbolica tra le generazioni che ha comportato una frattura del patto educativo tra famiglie e insegnanti. I genitori anziché sostenere i rappresentanti del discorso educativo si schierano con i loro figli, lasciando gli insegnanti in una condizione di isolamento. Misconosciuti da uno Stato che non valorizza economicamente il loro lavoro, sovraccaricati di compiti educativi di fronte a famiglie sempre più disgregate e latitanti, gli insegnanti patiscono una condizione di umiliazione permanente. Nel nostro tempo ogni atto decisionale nel campo dell’educazione dei figli rischia di essere guardato dalle famiglie come un sopruso illegittimo, mentre è considerata legittima l’aggressione violenta di genitori e figli verso gli insegnanti. La vita di questi figli dovrebbe scorrere su di un’autostrada spianata, dove ogni ostacolo, ogni esperienza di frustrazione o di ingiustizia dovrebbe essere rimossa. È il sogno narcisistico dei genitori contemporanei: assicurare ai propri figli una vita facile di successo, risparmiare loro ogni angoscia. Se allora un insegnante osa mettersi di traverso ricordando che ogni percorso di formazione è fatto di prove da superare, viene travolto in varie forme: dalle denunce al Tar alla violenza fisica e verbale sino a una sorta di bullismo rovesciato, dove sono gli insegnanti a subire angherie di ogni genere. In un tempo non lontano l’insegnante godeva di un prestigio sociale e di un’autorità educativa che costituivano un punto fermo per le famiglie e per la nostra vita collettiva. Prima del Sessantotto questo prestigio e questa autorità spesso sfociavano in un uso repressivo del potere a danno degli studenti. È stato necessario un lento ma fondamentale processo di liberazione critica della scuola da modelli pedagogici sterilmente autoritari. Ma oggi la scuola non è più un luogo di indottrinamento ideologico ed esercizio di un potere sadico. Non è più un dispositivo disciplinare che costringe le vite dei nostri figli ad adattarsi a pratiche pedagogiche coercitive. Nel nostro tempo la scuola è un luogo di resistenza all’incuria e alla logica produttivistica che ispira l’iperedonismo contemporaneo. Se c’è un luogo che andrebbe custodito e difeso con tutta l’attenzione necessaria da ogni forma di prevaricazione, è il luogo della scuola. È lì che la vita dei nostri figli può allargare l’orizzonte del mondo, fare esperienza della forza della parola, dell’erotismo della conoscenza. La violenza brutale di cui gli insegnanti sono vittime non è solo quella di famiglie incivili, ma è anche quella più diffusa del discredito che li colpisce: penalizzati economicamente, denigrati come lavoratori privilegiati, declassati nel loro prestigio pubblico. Dovremmo invece sempre ricordare che ogni rinascita collettiva inizia dalla scuola e dalla sua funzione. Quale? Quella di introdurre la vita dei nostri figli alla dimensione generativa della cultura. È questo il vero vaccino che abbiamo a disposizione per prevenire la dissipazione della vita dei nostri figli: consentire l’incontro con la dimensione erotica del sapere, con la cultura come desiderio di vita.

La Stampa 8.4.18
Giancarlo De Cataldo
Il rimorso dell’agente che avvelenava il ’68
L’ultimo romanzo del giudice scrittore ricostruisce il caso del Lsd diffuso tra i contestatori dalla Cia “Anche dalle forze del male nascono lampi di luce”
Uno dei servizi mi disse: Ci sono molte missioni, se riescono diventano storia, se falliscono diventano complotti
di Massimo Vincenzi


Il nuovo romanzo di Giancarlo De Cataldo, L’agente del caos, è un illuminante saggio sul 1968, i movimenti giovanili, la violenza degli Anni Settanta e la distopia. Ma qui serve una digressione a discolpa della parola distopia, abusata, aggrovigliata e spesso respingente. Il nuovo romanzo di Giancarlo De Cataldo è un libro tutto da gustare, tangente al noir, ma che vola più alto e si abbevera alla migliore tradizione della letteratura americana (American Tabloid), senza perdere le radici italiane, si spinge oltre la banalità grazie a personaggi avvincenti e una trama dalla quale non si può sfuggire. Un agente della Cia, Jay Dark, allevato da un ex scienziato nazista Kirk, si infiltra tra i ragazzi della rivolta e li inonda, su mandato del potere, di Lsd con l’obiettivo di distruggere le loro menti rivoluzionarie e dunque eliminare la minaccia. Di tutto questo, provando a mettere ordine nel caos da lui stesso creato, parla lo scrittore romano.
La prima impressione: è un libro molto diverso da quelli precedenti. Concorda?
«Molto differente, è un racconto che mi è costato un lungo tempo di gestazione e aggiungo che 30 o 40 anni fa avrei scritto una cosa completamente differente: con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Ora ho la convinzione che tutto sia più sfumato, più complicato».
Molto tempo fa discutemmo del genere noir, ancora allergico alla definizione?
«No, ci mancherebbe. Amo la mia tribù, ma in questa occasione mi sono messo in gioco, allontanandomi dagli stilemi del genere classico, ma senza raffreddare la prosa».
Ci sono eventi veri, provati e ovviamente una robusta dose di fiction. Giusto?
«Ci sono agenti della Cia realmente esistiti, gli esperimenti sulle droghe sono veri, la collaborazione tra l’intelligence americana e alcuni ex collaboratori di Hitler è provata. Poi io mi sono preso la libertà di aggiungerci la mia fantasia».
Come si è documentato?
«Ho lavorato con alcuni ragazzi che hanno prodotto un bellissimo documentario sull’argomento, esistono testi americani sugli agenti deviati e un rapporto dei Ros sulla vicenda».
C’è un grande lavoro sui protagonisti. Jay Dark che tipo è?
«È un personaggio doloroso, nato molto povero, sogna di essere libero e vorrebbe tanto essere quello che invece gli hanno insegnato e ordinato di distruggere. Ha il dono delle lingue, la sua vera dote. E poi è immune alle droghe, questo gli permette di attraversare quel mondo con una triste consapevolezza. La sua cifra più vera è l’ambiguità. È poi un disperato, un miserabile, ma con un talento infinito che alla fine lo porta a provare empatia verso quelli che dovrebbero essere i suoi nemici».
Lei sembra attratto da lui. È così?
«Sì, lui è una metafora perfetta: anche dalle forze del male nascono lampi di luce. La sua è una storia illuminante su quello che siamo».
C’è il ’68, poi lei tocca i misteri italiani con gli inevitabili complotti. Cosa la affascina di questi mondi?
«Una volta un uomo dei servizi segreti mi disse una frase: noi mettiamo in campo molte missioni, se riescono diventano storia, se falliscono diventano complotti. Da sempre è così: pensi all’impero romano, è pieno di ombre, di lati oscuri che la verità ufficiale non riesce a spiegare ma il tempo li ha metabolizzati e li ha chiamati Storia con la S maiuscola».
L’Italia però sembra la patria di questo cono d’ombra.
«Ma non è così, gli Stati Uniti sono pieni di zone opache, la Francia e il Regno Unito, la Germania del dopo nazismo: non siamo un’eccezione. L’unico Paese che ha fatto veramente luce sul proprio passato è il Sudafrica perché lì hanno scelto la via della pacificazione e non quella giudiziaria. Da noi le vittime, giustamente, vogliono ancora giustizia, i carnefici nascondono le proprie colpe e tutto diventa impossibile da sbrogliare. Per esempio la ricostruzione storica delle Br è andata molto avanti sul piano della verità, ma rimangono molti buchi ancora da riempire».
Che faceva nel ’68?
«Ero piccolo e vivevo a Taranto ma mi sarebbe piaciuto tanto viverlo. Quello spirito d’avventura, la rottura con il puritanesimo che soffocava questo Paese. Guardi adesso, siamo chiusi su noi stessi, prigionieri dei social, incapaci di essere una folla in grado di produrre energia e inventarsi un nuovo modo di vivere».
Nel suo libro c’è una frase che lei adesso mi ha ricordato, la pronuncia l’avvocato Flint quando racconta la storia di Jay Dark e che dice: io c’ero. È decisiva nel racconto, vero?
«La devo al mio editor in Einaudi, Francesco Colombo, e in effetti è uno dei motori della narrazione. La mia invidia: avrei voluto esserci, guardare negli occhi quei ragazzi che alla fine seducono anche il cattivo agente del caos».
Ecco così arriviamo all’altra parola chiave: caos. Cosa rappresenta per lei?
«È il movimento per eccellenza, le molecole si rompono per ricreare equilibrio e rimettere le cose a posto in un nuovo ordine. È la linfa della vita».
Complotti, servizi segreti deviati, le stragi, Moro. L’elenco è lungo. Le piace l’Italia come è diventata?
«Ci sono molte cose che non mi piacciono, ma non sono di quelli che si piangono addosso. Bisogna dannarsi l’anima per risolvere i problemi, qui ed ora. Purtroppo, e non è un paradosso, ma il mondo perfetto è noioso».

Corriere 8.4.18
Le immagini
I politici, le br, Riina storia d’Italia nelle segnaletiche
di Giovanni Bianconi


Ci sono i criminali veri, ma anche i denunciati in quanto invisi ai regimi che precedettero la Repubblica: dalla repressione dei moti di fine Ottocento a quella ordinata da Benito Mussolini, a sua volta arrestato e schedato in Svizzera. E così, accanto alle impronte digitali utili a identificare gli squadristi assassini di Giacomo Matteotti, ecco le foto segnaletiche di Filippo Turati, del futuro duce e dei «sovversivi» perseguitati durante il Ventennio: Luigi Longo, Palmiro Togliatti, Alcide De Gasperi, Sandro Pertini. I «padri costituenti» ritratti nei cartellini del ministero dell’Interno con le diverse diciture accusatorie: «comunista», «attentatore», «antifascista», «socialista», «oppositore», «denunziato al tribunale speciale». E prima di loro Turati, schedato in quanto «fuoruscito pericoloso».
È più di un secolo di storia riassunto attraverso le immagini e i reperti della polizia scientifica, raccolti in una mostra itinerante che sarà inaugurata domani a Roma dal capo della polizia Franco Gabrielli e dal responsabile della Direzione centrale anticrimine Vittorio Rizzi; «un’occasione per guardarsi allo specchio e confrontarsi con il passato, ma anche con il futuro che ci aspetta», scrive Gabrielli nella prefazione al catalogo. Perché con l’avvento della democrazia le sfide sono cambiate: dal terrorismo prima interno e poi internazionale alla criminalità mafiosa e organizzata di ieri e oggi, passando per delitti seriali o comuni, e altre emergenze.
Le tre foto segnaletiche di Turati — fondatore del socialismo italiano, arrestato a Milano durante la rivolta del 1898 — rimandano alla «scheda biografica» del 1° luglio 1900 nella quale, con prosa e calligrafia antica, l’estensore ne denuncia «l’aureola del tribuno che gode incondizionato il favore popolare». Tre anni più tardi, in Svizzera, viene fermato e rispedito in Italia «Mussolini Benedetto», anziché Benito, ricercato in qualità di «agitatore politico», di cui sono indicate generalità e fattezze. Dopo la sua salita al potere toccherà agli avversari subire la stessa sorte, ed ecco che Togliatti e Longo, futuri segretari del Pci, vengono schedati come «inscritti nel bollettino delle ricerche», oltre che pericolosi comunisti. Segni particolari del primo: «porta lenti»; il secondo — «sovversivo» e «domiciliato a Mosca» — ha «due cicatrici all’indice sinistro». Alcide De Gasperi — già deputato popolare, catturato nel ’27, scarcerato e rifugiato in Vaticano, leader e premier democristiano del dopoguerra — è schedato come «antifascista», nonché segnalato il 10 dicembre 1928 per una «stretta vigilanza scopo impedire espatrio». Su Sandro Pertini, presidente della Repubblica dal 1978, insieme alle foto segnaletiche c’è una nota prefettizio datata 23 agosto ’43: «Disposta riservata vigilanza».
Finita la guerra, con un salto di quasi 25 anni si arriva ai rilievi sul luogo della strage neofascista di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) e poi a quelle di Brescia e dell’Italicus del ’74, ugualmente «nere». Passano quattro anni ed ecco le ispezioni in via Fani dopo il sequestro Moro e lo sterminio della scorta, e in via Caetani per il ritrovamento dell’ostaggio assassinato. L’anno successivo arrivano gli scatti sui luoghi dei primi «delitti eccellenti» in Sicilia, dal commissario Boris Giuliano al procuratore di Palermo Gaetano Costa; da allora gli attentati di mafia saranno una costante che terrà occupati gli operatori della Scientifica fino alle stragi del 1992-93. Due emergenze parallele — terrorismo e criminalità — che si possono seguire attraverso le foto dei ricercati e arrestati più famosi: dagli sguardi penetranti dei corleonesi Riina e Bagarella, a quelli stralunati o distaccati dei brigatisti Valerio Morucci, Mario Moretti e Barbara Balzerani, fino alla più recente Nadia Lioce.
Ma le istantanee successive ai fermi raccontano anche storie diverse. Ad esempio quella di Renato Vallanzasca (accuse: «omicidio e sequestro di persona», istruzione «4° anno Ragioneria»); del bandito della Magliana Franco Giuseppucci; del boss camorrista Raffele Cutolo, quasi irriconoscibile al primo arresto per omicidio; del turco Mehemet Ali Agca, «senza fissa dimora», motivo del segnalamento: «attentato contro il Sommo Pontefice». Tracce di terrorismo internazionale che proseguono con i rilievi dopo l’attentato alla Sinagoga di Roma che nell’ottobre 1982 uccise Stefano Tachè a soli 2 anni d’età — le foto inquadrano le macchie di sangue e i bossoli rimasti a terra — fino alla schedatura del tunisino Anis Amri, arrestato per «lesioni personali in flagranza di reato» nel 2011, cinque anni prima che compisse la strage di Berlino.
Sono reperti di ordinaria attività di polizia fatta di immagini, misurazioni, impronte, analisi di ogni genere, dietro le quali si nascondono trame politiche e traffici criminali, giochi di potere, segreti, reati passionali; ma anche incidenti, fenomeni naturali o epocali come i terremoti e i nuovi flussi migratori. Pure in questi casi interviene la Scientifica, trasformando i propri archivi in una continua rassegna delle emergenze e delle evoluzioni che hanno segnato la vita degli italiani.

L’allestimento itinerante parte da Roma
«Frammenti di Storia - L’Italia attraverso le impronte, le immagini e i sopralluoghi della Polizia Scientifica» è il titolo della mostra fotografica allestita, nella prima tappa del suo percorso in diverse città d’Italia, da oggi e fino al 14 aprile presso lo Spazio Risonanze dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, con ingresso libero per il pubblico dei visitatori e orario dalle 10 alle 18. Domani, lunedì 9 aprile, alle 11 ci sarà l’inaugurazione ufficiale con il capo della Polizia Franco Gabrielli. La mostra ripercorre momenti significativi della storia italiana attraverso il lavoro della polizia scientifica.

il manifesto 8.4.18
Toni Morrison, il senso del “noi”
Classici moderni. Motivata dal desiderio di dare voce a generazioni di donne nere ridotte all’irrilevanza, e convinta che «l’arte migliore è politica», l’autrice di «Beloved» compare ora nei Meridiani
di Luca Briasco


Quando, nel 1978, decide di abbandonare il mestiere di editor all’interno del gruppo Random House per dedicarsi esclusivamente alla scrittura, Toni Morrison ha già quarantasette anni e tre romanzi alle spalle. Se l’esordio, L’occhio più blu, ha avuto un’accoglienza contrastata, ottenendo un’attenzione critica pari all’indifferenza del pubblico, i successivi Sula e soprattutto Canto di Solomon l’hanno portata al successo e alla fama: il primo è stato candidato al National Book Award e il secondo ha vinto il National Book Critics Circle Award, oltre a essere selezionato per il Book of the Month Club, primo romanzo afroamericano ad arrivare a tanto dopo Ragazzo negro di Richard Wright.
Tardivi riconoscimenti
Una fama, quella di Morrison, che conoscerà una breve battuta d’arresto con il successivo Tar Baby (tradotto in italiano come L’isola delle illusioni), bene accolto in termini di vendite ma criticato per quello che ad alcuni appare un eccesso didascalico; ma che poi si consoliderà con la pubblicazione di Beloved – secondo molti, a tutt’oggi il suo capolavoro, premiato con il Pulitzer nel marzo del 1988 dopo che, due mesi prima, al New York Times era pervenuta una lettera firmata da quarantotto scrittori e intellettuali neri, da Alice Walker ad Amiri Baraka, che polemizzavano sul fatto che a una scrittrice del livello e della fama anche internazionale di Morrison non fosse ancora stato attribuito il National Book Award. Insieme ai successivi Jazz e Paradiso, Beloved va a comporre quella che la stessa Morrison ha più volte definito una trilogia sulla storia afroamericana, e che rappresenta probabilmente il vertice assoluto della sua arte.
La redenzione del «noi»
Proprio mentre comincia a lavorare al terzo capitolo della sua trilogia le viene conferito il Nobel per la letteratura, e Morrison reagisce così alla notizia: «Sono immensamente felice. Ma quel che è più strabiliante per me è sapere che questo premio è stato finalmente dato a uno scrittore africano-americano». In seguito aggiungerà: «Ero eccitata per “noi”. Era come se un’intera categoria di “scrittrici donne” e “scrittrici nere” fosse stata redenta. Sentivo di rappresentare un intero universo di donne che erano state ridotte al silenzio e che non avevano mai ricevuto l’imprimatur del mondo letterario. Ho provato la stessa cosa delle prime volte in cui ho ricevuto una carica onoraria: era importante per i giovani neri vedere che succedeva a una persona nera; probabilmente c’erano giovani neri che non credevano di potercela fare. Ma vedermi lì poteva incoraggiarli a scrivere i libri che desideravo con tutta me stessa leggere».
In questa frase, solo apparentemente banale, è possibile cogliere le due pulsioni dalle quali prende le mosse ogni progetto narrativo di Morrison: la consapevolezza e la ricerca di una rappresentatività, il desiderio di dar voce a generazioni di donne nere ridotte al silenzio o all’irrilevanza, ma anche la volontà, ben più semplice, di scrivere solo ciò che si desidererebbe leggere e che non sempre è dato trovare sul mercato letterario. Ed è forse nella coesistenza di queste due volontà, nella ricerca di un perfetto punto di sintesi tra di esse, che è possibile cogliere il senso ultimo della scrittura di Morrison, del suo intero percorso intellettuale. Un percorso che è la stessa Morrison a sintetizzare perfettamente quando si oppone al sentire comune in base al quale «se un’opera d’arte ha un minimo di impatto politico, allora è corrotta. Io penso esattamente il contrario: è corrotta se non ce l’ha»; perché «l’arte migliore è politica e si deve riuscire a renderla al contempo indubbiamente politica e irrevocabilmente bella».
Per realizzare questo obiettivo, Morrison unisce a una programmatica limpidezza dello sguardo e della visione un sincretismo straordinario, nel quale convergono e si armonizzano la potente cultura orale trasmessale dalla famiglia e dalla comunità di riferimento e una conoscenza approfondita dell’intera tradizione letteraria, afroamericana e non. Di questo complesso lavoro di collazione e reinvenzione, che in capolavori come Canto di Solomon, Beloved e Jazz trova la sua espressione più compiuta, ci viene offerta una sintesi accurata grazie al Meridiano Toni Morrison che Mondadori le ha finalmente dedicato, a cura di Alessandro Portelli e accompagnato, oltre che da una magnifica introduzione dello stesso Portelli, da uno scritto di Marisa Bulgheroni e da una cronologia particolarmente ricca di informazioni e dettagli, redatta da Chiara Spallino Rocca (pp.1664, € 80,00).
Il primo, grande merito del volume, che ospita sei degli undici romanzi di Morrison, va rintracciato nelle traduzioni. Vengono variati, rispetto alle edizioni originali – e sempre in modo più che giustificato – ben tre titoli: L’occhio più blu al posto dell’Occhio più azzurro, «per il rimando fonico al blues, latente nel libro»; Beloved, titolo «meno enfatico e più puntuale del precedente Amatissima»; Canto di Solomon invece che Canto di Salomone, al fine di «identificare in maniera appropriata il personaggio dell’omonimo canto al centro del romanzo».
Quanto alle traduzioni, Chiara Spallino firma tre versioni completamente nuove, e davvero eccellenti, di L’occhio più blu, Sula e Beloved, mentre Franca Cavagnoli ha proceduto a una revisione rigorosa e approfondita delle sue traduzioni di Canto di Solomon e di Jazz. Resta dunque sostanzialmente invariata la sola traduzione del Dono, firmata da Silvia Fornasiero. In queste versioni, i romanzi di Morrison – qui sono presenti i titoli maggiori, con la sola eccezione di Paradiso – si dispiegano in tutta la loro ricchezza di temi e riferimenti, disegnando una traiettoria davvero unica. Se nell’Occhio più azzurro e in Sula predomina uno sguardo al femminile che prende le mosse dal microcosmo del nativo Ohio – una «letteratura di villaggio», per riprendere la felice espressione richiamata nel saggio di Portelli, però sempre fondata sulla consapevolezza che l’universale si coglie nello specifico – in Canto di Solomon Morrison abbraccia una prospettiva maschile, e dà il via a quel processo di immersione nella storia e nelle leggende della schiavitù che troverà in Beloved la sua mirabile sintesi.
Un impegno necessario
E se Jazz rappresenta a tutt’oggi il culmine di uno sperimentalismo e di una frammentazione narrativa tutta giocata sul filo della memoria e dei suoi meccanismi più intimi, Il dono costituisce una riflessione dolce e feroce al tempo stesso sul sostrato di schiavitù e oppressione sociale che lo sguardo bianco e americano ha tentato di nascondere dietro i propri miti fondativi.
Al lettore non rimane allora che «surfare» tra le parole di Morrison e il ricco e rigoroso apparato critico che le accompagna, e riscoprire così in tutto il suo valore una scrittrice straordinaria, capace di rilanciare quella nozione di «intellettuale impegnato» cui troppo spesso si tende a guardare con imbarazzo, senza comprenderne invece l’assoluta necessità storica.

il manifesto 8.4.18
L’eredità italiana oltre il ghetto del melodramma
Musica. Fiamma Nicolodi fa pulizia in una incolta boscaglia storiografica per prelevare quanto del nostro contesto musicale fu aperto al dialogo con altre forme d’arte: «Novecento in musica», dal Saggiatore
di Oreste Bossini


Uno tra gli effetti perversi dei recenti rigurgiti neofascisti è stato quello di fare ripiombare lo studio dei fenomenti artistici del primo Novecento italiano nel cono d’ombra della dissertazione ideologica, col rischio di far cadere una pietra tombale sul faticoso lavoro di riscrittura di un periodo storico che ha usato in maniera spregiudicata il mondo culturale, e viceversa. Fin dall’inizio degli anni Ottanta, Fiamma Nicolodi ha speso buona parte delle sue ricerche per illuminare lo sfondo culturale della musica italiana di questo periodo, sforzandosi di definire i rapporti dei nostri musicisti con l’ambiente intellettuale, anche europeo, in maniera non viziata da pregiudizî e luoghi comuni.
I primi cinquant’anni
La narrazione musicologica ha perlopiù liquidato frettolosamente la musica italiana del primo Novecento come frutto incommestibile di un ambiente provinciale e arretrato, schiavo di una tradizione melodrammatica sempre più isolata e grettamente nazionalistica. Le uniche eccezioni allo straripante cattivo gusto di quella che Fausto Torrefranca parlando di Puccini ha chiamato «opera internazionale», sarebbero state la breve ventata futurista e la cosiddetta «generazione dell’80», prive tuttavia della forza di ribaltare le sorti del declino musicale italiano, vuoi grazie alle velleità dei Futuristi vuoi per le tensioni tra i maestri più corredati di strumenti artistici e culturali, come Alfredo Casella, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gianfrancesco Malipiero, divisi da gelosie e rivalità personali sullo sfondo di un diffuso opportunismo verso il regime fascista.
Non sempre, però, una simile lettura regge alla prova dei fatti, che Fiamma Nicolodi esamina con scrupolo sulla scia di un lavoro di pulizia di questa incolta boscaglia storiografica, scrivendo Novecento in musica Protagonisti, correnti, opere. I primi cinquant’anni (Il Saggiatore, pp. 287, euro 28,00). Tra le pieghe dei documenti e della pubblicistica del tempo, emerge infatti un contesto musicale più complesso, dotato di una mentalità meno provinciale e più aperta al dialogo con altre forme di espressione artistica e culturale: il Futurismo, per esempio, attende ancora di essere esaminato in tutte le sue diramazioni, nonostante gli studi sulla fitta trama delle sue relazioni con la musica, cui ha dato un significativo contributo anche il pianista e studioso Daniele Lombardi, scomparso prematuramente, che avrebbe certamente saputo portare a galla ulteriori documenti e nuovi testi musicali inediti di grande aiuto per la ricerca.
Su questa mappa ancora da definire nei dettagli, Nicolodi traccia alcuni punti di riferimento, prendendo in esame sia i musicisti di aperta fede futurista, come il romagnolo Francesco Balilla Pratella e il triestino Silvio Mix, sia gli echi della poetica futurista presenti nei compositori di ambiente accademico più sensibili alle sfide della modernità, come Casella e Malipiero. Altrettanto illuminante è il riverbero delle tendenze più attuali della musica europea sulla scena culturale italiana, in cui si distinguono anche critici molto attenti e informati come Giannotto Bastianelli, traduttore per gran parte dell’ambiente letterario italiano del nuovo linguaggio degli impressionisti francesi, Debussy e Ravel, e delle raffinate seduzioni del teatro di Strauss.
Tra Poulenc e Dallapiccola
’Italia del primo Novecento, pur con i suoi limiti, mantenne tuttavia canali di scambio con la grande musica europea, che Nicolodi riscontra per esempio nella cerchia di Busoni. Nomi come quelli di Bruno Mugellini e Gino Tagliapietra sono ormai caduti nell’oblìo, ma furono protagonisti anche di progetti importanti come l’edizione Breitkopf&Härtel dell’opera pianistica di Bach curata da Busoni. Inoltre, la sorpresa, al di là delle Alpi, dellamusica del giovane Petrassi, non faceva pensare a una nazione così ancorata alla tradizione del melodramma.
Particolarmente gustoso il saggio che racconta i rapporti di un artista francese fino alla radice dei capelli, Francis Poulenc, con i colleghi italiani, e in particolare con Luigi Dallapiccola, uno tra i padri della dodecafonia in Italia: divisi in tutto, i due artisti godevano tuttavia di un reciproco profondo rispetto, e di una comune visione della sfera religiosa. Sulla copia di Dallapiccola delle Deux mélodies su poesie di Apollinaire, l’autore giustifica di proprio pugno, con garbata ironia, la dedica al collega: «Un giorno d’estate, scrivendo qualche nota sui versi di Apollinaire, l’ho trovata vagamente dodecafonica: di qui la mia dedica».