internazionale 8.4.18
Ripensare il lavoro del futuro
The Guardian, Regno Unito
Qualche
anno fa Marc Andreessen, un programmatore che ha fatto fortuna con uno
dei primi browser, aveva predetto che il mondo si sarebbe presto diviso
tra quelli che dicono ai computer cosa fare e quelli a cui i computer
dicono cosa fare. Un recente studio dell’Ocse secondo cui nei paesi
industrializzati solo un posto di lavoro su sei sarà cancellato
dall’automazione è stato considerato una buona notizia rispetto alle
previsioni che parlavano di un posto su due. Ma si tratta comunque di
un’enorme trasformazione sociale. Molti dei nuovi lavori sono peggiori e
meno gratificanti di quelli che scompaiono, in parte perché le persone
finiscono alla base di una gerarchia dominata dai programmatori e dai
software, come aveva previsto Andreessen. Ma questi impieghi hanno anche
altri svantaggi: sono meno stabili e meno pagati, e questo non dipende
dalla tecnologia ma dalle scelte politiche. L’Ocse fonda le sue
conclusioni sull’idea che le competenze basate sulle interazioni sociali
saranno difficili da rimpiazzare. Ma questo ottimismo potrebbe essere
ingiustificato. I computer stanno diventando sempre più bravi ad
analizzare suoni e immagini. Inoltre, mentre le macchine fanno sempre di
più, gli utenti imparano ad aspettarsi sempre di meno. I servizi di
relazione col pubblico sono sempre più automatizzati, e chi lavora nelle
pubbliche relazioni è sempre più irreggimentato, al punto che nella
burocrazia moderna non è molto diverso avere a che fare con una persona o
con una macchina. I servitori umani diventeranno uno status symbol, ma
questo non è certo un futuro desiderabile. Per un futuro più equo non
basteranno i corsi di formazione e aggiornamento. Servirà un modello
politico ed economico in cui nessuno viene considerato inutile e messo
da parte.