martedì 3 aprile 2018

internazionale 1.4.18
Movimenti
I protagonisti del cambiamento
Da Hong Kong all’Etiopia passando per la Polonia, negli ultimi anni l’impegno giovanile ha trasformato il dibattito politico

Joshua Wong, Hong Kong
Nato a Hong Kong nel 1996, a 17 anni Joshua Wong è diventato uno dei leader della “rivoluzione degli ombrelli”, il movimento nato per chiedere elezioni libere al governo cinese che amministra la regione speciale. Fin dall’inizio i funzionari di Pechino l’hanno accusato di essere un agente degli Stati Uniti. Wong fa parte della prima generazione di giovani di Hong Kong cresciuta sotto il dominio cinese (nel 1996 l’ex colonia britannica fu restituita alla Cina), che è anche quella più refrattaria all’influenza di Pechino. Tra luglio del 2017 e gennaio del 2018 Wong ha ricevuto due condanne per aver partecipato alle manifestazioni del 2014. All’inizio di febbraio la corte suprema di Hong Kong ha deciso di proscioglierlo dalle accuse.

Alaa Abdel Fattah, Egitto
Nato in una famiglia di militanti per la democrazia in Egitto, a 20 anni Alaa Abdel Fattah è stato tra i primi blogger a sfidare la censura di Hosni Mubarak. Durante la primavera egiziana è diventato il simbolo della rivoluzione di piazza Tahrir. Oggi è in carcere per avere organizzato una manifestazione contro il regime di Al Sisi, ma riesce a scrivere articoli per il sito indipendente Mada Masr, in cui rilette sull’impegno politico: “La mia generazione è maturata nel periodo della seconda intifada e poi della guerra in Iraq. I nostri fratelli arabi gridavano ‘Non toccate la nostra dignità’, mentre nel resto del mondo gli attivisti cantavano ‘Not in my name’ e ‘Un altro mondo è possibile’. Abbiamo capito che il mondo che avevamo ereditato stava finendo e che non eravamo soli”.

Agnieszka Dziemianowicz-Bąk, Polonia
Il 3 ottobre del 2016 decine di migliaia di persone, quasi tutte vestite di nero, sono scese in piazza in molte città polacche per contestare un disegno di legge, proposto da un’organizzazione religiosa vicina al governo conservatore, che rendeva l’aborto punibile con il carcere anche in caso di stupro e rischi per la salute della madre. Tra le leader del movimento c’è Agnieszka Dziemianowicz-Bąk, 34 anni, del partito di sinistra Razem, che durante un discorso nel “lunedì nero” ha accusato il governo di voler “trasformare i medici in guardie carcerarie” e di riportare la Polonia “al medioevo”. Pochi giorni dopo le manifestazioni, il parlamento ha respinto il disegno di legge con una maggioranza schiacciante.

Ahed Tamimi, Palestina
Il nuovo simbolo della resistenza palestinese all’occupazione israeliana è una ragazza di diciassette anni nata nel villaggio di Nabi Saleh, in una famiglia di attivisti. Il 19 dicembre del 2017 Ahed Tamimi è stata arrestata dalle forze israeliane con l’accusa di aver preso a schiaffi e a calci un soldato israeliano. Il video dell’accaduto ha fatto il giro del mondo. Poco prima Mohammed Tamimi, un cugino di Ahed di 15 anni, era stato colpito alla testa da un proiettile sparato da un soldato israeliano. Il processo contro Ahed Tamimi è cominciato il 13 febbraio in un tribunale militare a porte chiuse. Il 21 marzo Tamimi è stata condannata a otto mesi di carcere, dopo un accordo raggiunto con i giudici in base al quale la ragazza si è dichiarata colpevole per quattro dei dodici capi d’accusa presentati contro di lei, tra cui aggressione e istigazione alla violenza. Inoltre dovrà pagare una multa equivalente a 1.166 euro. La madre della ragazza, Narimane, che aveva girato il video, è stata condannata a otto mesi.

Feyisa Lilesa, Etiopia
Ventotto anni, medaglia d’argento nella maratona alle olimpiadi del 2016, l’atleta etiope è diventato il simbolo della causa oromo quando, al momento della premiazione, ha incrociato i polsi in segno di protesta. La comunità oromo è la più numerosa in Etiopia, ma sostiene di essere emarginata e perseguitata dal governo. Da almeno due anni i gruppi oromo, tra cui il movimento giovanile Qeerroo (un termine che indica i giovani scapoli), organizzano proteste e scioperi per chiedere più libertà politica e una migliore rappresentanza delle diverse etnie nelle istituzioni. All’inizio del 2018 la pressione è diventata così forte da spingere il governo a liberare migliaia di prigionieri politici e il primo ministro Hailemariam Desalegn a dimettersi.