martedì 3 aprile 2018

internazionale 1.4.18
La guerra commerciale non è ancora cominciata
I nuovi dazi statunitensi sulle importazioni dalla Cina hanno provocato una reazione contenuta da parte di Pechino. E forse si arriverà al dialogo invece che allo scontro
Di George Magnus, Financial Times, Regno Unito

Non si fa che parlare di guerra commerciale, mentre gli Stati Uniti e la Cina alzano la guardia reciprocamente. Questa espressione si adatta ai piani di entrambi i paesi, ma usarla potrebbe essere prematuro. Le scariche a salve a cui stiamo assistendo potrebbero essere solo un preludio a colloqui tra Washington e Pechino. Nonostante le spacconate dell’amministrazione Trump e il suo programma protezionista, diventato ancora più rigido nei confronti della Cina, finora non si è arrivati a un punto di rottura. Tanto per cominciare, il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina non è semplice come potrebbe sembrare. Il disavanzo di 370 miliardi di dollari del 2017 scende a circa 150 miliardi se si considera la filiera cinese uno snodo commerciale dove le merci provenienti da altri paesi vengono rifinite e riesportate. Aggiungendo l’eccedenza commerciale dei servizi statunitensi la cifra si riduce a circa 110 miliardi di dollari, ancora molto alta ma sicuramente politicamente non così incisiva. Washington e Pechino sanno inoltre che la Cina è molto più vulnerabile alle misure protezionistiche americane di quanto non lo siano gli Stati Uniti rispetto alle iniziative della Cina. Le azioni intraprese da Washington finora non sono state drastiche: i dazi sui pannelli solari e sulle lavatrici annunciati a gennaio non arrivano nemmeno a un arrotondamento per difetto; i dazi su acciaio e alluminio, che interessano la Cina solo in modo marginale, hanno tante esenzioni per altri paesi che alla fine ammontano a molto poco. L’ultima serie di dazi è più seria e interessa merci per un valore di 50 miliardi, legate ai dieci settori che la Cina considera prioritari nel suo piano industriale per il 2025, tra cui la tecnologia informatica, la robotica, gli equipaggiamenti aerospaziali, il risparmio energetico e i veicoli alimentati con fonti rinnovabili, gli impianti per la produzione di energia, la medicina e i dispositivi medici. È più probabile che queste sanzioni abbiano lo scopo d’impedire a Pechino l’accesso alle merci e ai servizi che le servono per raggiungere i suoi obiettivi, e per cui dipende ancora in larga misura da aziende straniere. La Casa Bianca si è anche rivolta all’Organizzazione mondiale del commercio per denunciare le pratiche cinesi relative ai brevetti tecnologici e le restrizioni sugli investimenti in Cina. Quindi gli obiettivi di Washington vanno al di là del semplice commercio. La risposta cinese è stata in qui in larga misura verbale. Considerato il volume delle esportazioni statunitensi in Cina, non è semplice dare una risposta forte. Se fosse necessario Pechino adotterebbe misure diverse, come le campagne di boicottaggio contro le aziende straniere organizzate in passato. Potrebbe prendere di mira quelle statunitensi in Cina. Ma questo colpirebbe i lavoratori e i consumatori cinesi, e guasterebbe senza motivo i rapporti con Washington. La Cina di Xi Jinping, inoltre, non vuole essere trascinata nell’instabilità che una guerra commerciale potrebbe generare. Alla fine la strategia americana dei dazi non funzionerà. Farà aumentare i prezzi negli Stati Uniti, mettendo a repentaglio più posti di lavoro di quanti ne protegga, e sarà poca cosa se paragonata all’impatto dei tagli alle tasse, che faranno aumentare in modo significativo il deficit fiscale e, di conseguenza, il disavanzo esterno. Se la Cina fosse determinata nel rifiuto di compromessi sulle politiche commerciali e industriali, dovremmo tornare nel bunker. Per il momento però sembra più probabile che il passo successivo sarà l’avvio di negoziati.

Da sapere
La lezione cinese

“Washington ha bisogno di una vera lezione e solo la Cina, la seconda economia mondiale, può dargliela”, si legge nell’editoriale del Global Times sui dazi imposti dagli Stati Uniti contro Pechino. Il quotidiano legato al Partito comunista cinese avverte che alla fine i due paesi potrebbero negoziare “ma non possiamo basare le nostre azioni su questa eventualità. Dobbiamo prepararci allo scenario peggiore, a una guerra commerciale a tutto campo con gli Stati Uniti”. Lo stesso giorno, però, il Global Times ospitava l’analisi di un esperto, Wang Wen, che parlava di “coevoluzione” delle due economie, destinate a influenzarsi reciprocamente mentre progrediscono.