internazionale 1.4.18
La guerra commerciale non è ancora cominciata
I
nuovi dazi statunitensi sulle importazioni dalla Cina hanno provocato
una reazione contenuta da parte di Pechino. E forse si arriverà al
dialogo invece che allo scontro
Di George Magnus, Financial Times, Regno Unito
Non
si fa che parlare di guerra commerciale, mentre gli Stati Uniti e la
Cina alzano la guardia reciprocamente. Questa espressione si adatta ai
piani di entrambi i paesi, ma usarla potrebbe essere prematuro. Le
scariche a salve a cui stiamo assistendo potrebbero essere solo un
preludio a colloqui tra Washington e Pechino. Nonostante le spacconate
dell’amministrazione Trump e il suo programma protezionista, diventato
ancora più rigido nei confronti della Cina, finora non si è arrivati a
un punto di rottura. Tanto per cominciare, il deficit commerciale degli
Stati Uniti con la Cina non è semplice come potrebbe sembrare. Il
disavanzo di 370 miliardi di dollari del 2017 scende a circa 150
miliardi se si considera la filiera cinese uno snodo commerciale dove le
merci provenienti da altri paesi vengono rifinite e riesportate.
Aggiungendo l’eccedenza commerciale dei servizi statunitensi la cifra si
riduce a circa 110 miliardi di dollari, ancora molto alta ma
sicuramente politicamente non così incisiva. Washington e Pechino sanno
inoltre che la Cina è molto più vulnerabile alle misure protezionistiche
americane di quanto non lo siano gli Stati Uniti rispetto alle
iniziative della Cina. Le azioni intraprese da Washington finora non
sono state drastiche: i dazi sui pannelli solari e sulle lavatrici
annunciati a gennaio non arrivano nemmeno a un arrotondamento per
difetto; i dazi su acciaio e alluminio, che interessano la Cina solo in
modo marginale, hanno tante esenzioni per altri paesi che alla fine
ammontano a molto poco. L’ultima serie di dazi è più seria e interessa
merci per un valore di 50 miliardi, legate ai dieci settori che la Cina
considera prioritari nel suo piano industriale per il 2025, tra cui la
tecnologia informatica, la robotica, gli equipaggiamenti aerospaziali,
il risparmio energetico e i veicoli alimentati con fonti rinnovabili,
gli impianti per la produzione di energia, la medicina e i dispositivi
medici. È più probabile che queste sanzioni abbiano lo scopo d’impedire a
Pechino l’accesso alle merci e ai servizi che le servono per
raggiungere i suoi obiettivi, e per cui dipende ancora in larga misura
da aziende straniere. La Casa Bianca si è anche rivolta
all’Organizzazione mondiale del commercio per denunciare le pratiche
cinesi relative ai brevetti tecnologici e le restrizioni sugli
investimenti in Cina. Quindi gli obiettivi di Washington vanno al di là
del semplice commercio. La risposta cinese è stata in qui in larga
misura verbale. Considerato il volume delle esportazioni statunitensi in
Cina, non è semplice dare una risposta forte. Se fosse necessario
Pechino adotterebbe misure diverse, come le campagne di boicottaggio
contro le aziende straniere organizzate in passato. Potrebbe prendere di
mira quelle statunitensi in Cina. Ma questo colpirebbe i lavoratori e i
consumatori cinesi, e guasterebbe senza motivo i rapporti con
Washington. La Cina di Xi Jinping, inoltre, non vuole essere trascinata
nell’instabilità che una guerra commerciale potrebbe generare. Alla fine
la strategia americana dei dazi non funzionerà. Farà aumentare i prezzi
negli Stati Uniti, mettendo a repentaglio più posti di lavoro di quanti
ne protegga, e sarà poca cosa se paragonata all’impatto dei tagli alle
tasse, che faranno aumentare in modo significativo il deficit fiscale e,
di conseguenza, il disavanzo esterno. Se la Cina fosse determinata nel
rifiuto di compromessi sulle politiche commerciali e industriali,
dovremmo tornare nel bunker. Per il momento però sembra più probabile
che il passo successivo sarà l’avvio di negoziati.
Da sapere
La lezione cinese
“Washington
ha bisogno di una vera lezione e solo la Cina, la seconda economia
mondiale, può dargliela”, si legge nell’editoriale del Global Times sui
dazi imposti dagli Stati Uniti contro Pechino. Il quotidiano legato al
Partito comunista cinese avverte che alla fine i due paesi potrebbero
negoziare “ma non possiamo basare le nostre azioni su questa
eventualità. Dobbiamo prepararci allo scenario peggiore, a una guerra
commerciale a tutto campo con gli Stati Uniti”. Lo stesso giorno, però,
il Global Times ospitava l’analisi di un esperto, Wang Wen, che parlava
di “coevoluzione” delle due economie, destinate a influenzarsi
reciprocamente mentre progrediscono.