lunedì 2 aprile 2018

internazionale 1.4.18
Giovani ribelli americani
Di Charlotte Alter, Time, Stati Uniti
Gli studenti sopravvissuti alla strage di Parkland, in Florida, hanno dato vita a un movimento contro le armi che sta ottenendo risultati sorprendenti. E hanno fatto venire alla luce le fratture generazionali della società statunitense

In una pizzeria di Coral Springs, in Florida, un martedì a pranzo, dei ragazzi stanno organizzando una rivoluzione. “Gli adulti sanno che stiamo rimediando ai loro casini”, dice Cameron Kasky, 17 anni, studente della Marjory Stoneman Douglas high school. Tre settimane fa, dal salotto di casa, ha lanciato #NeverAgain, un movimento per rispondere alla violenza causata dalle armi. “Ma è come se dicessero ‘ci dispiace per il casino che abbiamo combinato’ e intanto continuassero a fare lo stesso”, interviene Emma González, una studente dell’ultimo anno. Al tavolo con Kasky e González sono seduti altri due leader del movimento, Alex Wind e Jaclyn Corin. In realtà non sono esattamente “seduti”: se ne stanno rannicchiati in diagonale, appoggiati alle ginocchia l’uno dell’altra, come se volessero mantenere un contatto fisico costante. Corin lancia un crostino in bocca a González. Kasky usa le ginocchia di Corin come cuscino. Parlano del loro amico David Hogg (“È talmente concentrato che se volesse potrebbe ingravidarsi da solo”, scherza González), dei complottisti che li accusano di essere attori pagati da donatori misteriosi, della loro battaglia contro la National rile association (Nra), la lobby statunitense delle armi. Sono tutti d’accordo sul fatto che Dana Loesch, la portavoce dell’Nra, è “molto sexy ma fa un po’ paura”, per usare le parole di González. La pizzeria è a poche centinaia di metri dalla loro scuola, dove poco più di un mese fa sono state uccise 17 persone tra studenti e insegnanti. Secondo la ricostruzione della polizia, alle 14.21 del 14 febbraio Nikolas Cruz, un ex studente dell’istituto, è entrato nell’edificio delle matricole con un fucile semiautomatico e ha aperto il fuoco in quattro classi al primo piano. Corin aveva appena portato dei mazzi di garofani nella scuola per raccogliere dei fondi in vista del ballo scolastico, e aveva regalato uno dei fiori a una ragazza che pochi minuti dopo è stata colpita da un proiettile. Hogg era a lezione di scienze ambientali, e dopo che è scattato l’allarme ha girato un video degli studenti accovacciati in una piccola aula per nascondersi dall’attentatore. Il video è diventato virale e Hogg è ormai una presenza fissa nei programmi tv. Il giorno dopo il massacro, Kasky ha invitato Wind e Corin a casa sua per organizzare una manifestazione per la riforma delle leggi sulle armi. Insieme hanno lanciato l’hashtag #Never Again, mai più, su Twitter. La maggior parte di questi ragazzi non può votare, ordinare una birra o prenotare una camera d’albergo.
Non possono nemmeno permettersi una pizza senza spendere buona parte della paghetta. In apparenza non sembrano molto diversi dai tanti adolescenti idealisti che in passato hanno pensato di poter cambiare il mondo per poi accorgersi che non era così semplice. Eppure, nel giro di un mese questi studenti hanno dato vita al più grande e potente movimento contro le armi degli ultimi vent’anni. E ora il resto del paese, depresso e anestetizzato dalla frequenza dei massacri, comincia a pensare che questi ragazzi possono davvero riuscire a cambiare le cose. Nessuno crede che sarà facile. Negli Stati Uniti la violenza legata alle armi sembra impossibile da affrontare. Secondo uno studio dell’università dell’Alabama, il 31 per cento delle stragi compiute in tutto il mondo con armi da fuoco avviene negli Stati Uniti. Eppure, mentre il numero delle vittime continua a salire, il secondo emendamento della costituzione fa in modo che il diritto dei cittadini a possedere un’arma sia sostanzialmente intoccabile. Circa il 90 per cento degli statunitensi vorrebbe trovare soluzioni di “buon senso”, a cominciare dai controlli sui precedenti di chiunque voglia acquistare un’arma, ma gli estremisti ostacolano qualsiasi misura concreta. Nel dicembre del 2012, dopo che Adam Lanza uccise venti bambini tra i 5 e i 7 anni in una scuola elementare del Connecticut, alcuni politici provarono ad affrontare il problema. Il presidente Barack Obama firmò dei decreti per rafforzare il sistema di controlli sui precedenti dei compratori, mentre diversi stati rafforzarono le limitazioni sulla vendita e il possesso di armi. Ma il congresso non riuscì ad approvare neanche un modesto progetto di legge sostenuto da entrambi i partiti per eliminare le scappatoie che permettono di comprare armi da privati senza sottoporsi a controlli.
Tre stanze senza finestre
Nei cinque anni successivi la dinamica è diventata ricorrente. Quasi ogni mese qualcuno apre il fuoco uccidendo altre persone; comincia un breve periodo di lutto; i democratici propongono timide misure per ridurre la diffusione delle armi; i repubblicani offrono “solidarietà e preghiere”; non viene approvata nessuna nuova legge e il paese va avanti come se niente fosse. È successo quando Omar Mateen ha ucciso 49 persone in una discoteca di Orlando, nel 2016. È successo dopo che Stephen Paddock ha ammazzato 58 persone durante un concerto a Las Vegas, nell’ottobre del 2017. Ed è andata così quando Devin Patrick Kelley ha ucciso 26 persone in una chiesa di Sutherland Springs, in Texas, nel novembre del 2017. Ma dopo la strage di Parkland la reazione è stata diversa. Gli studenti sopravvissuti hanno denunciato pubblicamente l’influenza dell’Nra sul congresso e hanno puntato il dito contro i leader politici, considerati responsabili della permissività delle leggi sulle armi. Il messaggio degli studenti si è diffuso immediatamente. González non aveva un account su Twitter prima della strage, undici giorni dopo aveva più follower dell’Nra. I ragazzi hanno chiesto riforme specifiche, come il bando delle armi semiautomatiche, i controlli su tutti i compratori e la digitalizzazione del registro dei possessori di armi. Forse l’aspetto più importante è che i ragazzi di Parkland hanno indicato l’Nra e i suoi sostenitori come i nemici mortali dei 50 milioni di studenti di quella che Kasky ha definito “la generazione delle stragi”. I ragazzi hanno smascherato la lobby delle armi che pretende di garantire la “protezione personale”, e hanno dato un’impronta generazionale al dibattito sulla violenza.
Oggi le notizie che in passato venivano accolte con tristezza e rassegnazione spingono i giovani a protestare scendendo in piazza. Il 14 marzo quasi un milione di ragazzi di tutto il paese ha interrotto le lezioni ed è uscito dalle scuole per partecipare al National school walkout e protestare contro le stragi nelle scuole. Secondo un sondaggio di Politico, dopo Parkland il 68 per cento degli statunitensi vuole leggi più restrittive sulle armi, rispetto al 60 per cento registrato a novembre. Secondo un sondaggio della Nbc, l’appoggio nei confronti dell’Nra è sceso al 37 per cento. È la prima volta dal 2000 che le opinioni negative sulla lobby delle armi superano quelle positive. La catena di vendita al dettaglio Dick’s Sporting Goods ha annunciato che smetterà di vendere fucili d’assalto. Il 9 marzo lo stato della Florida, uno dei più permissivi sul possesso di armi, ha approvato una legge che vieta i bump stock (dispositivi che modificano i fucili semiautomatici e li trasformano in armi automatiche, illegali negli Stati Uniti), impone un periodo d’attesa per ogni acquisto, porta da 18 a 21 anni l’età per comprare un’arma e permette alla polizia di sequestrare l’arma a persone con disturbi mentali. La legge è stata votata anche da 67 repubblicani che hanno ricevuto donazioni dall’Nra ed è stata ratificata dal governatore repubblicano Rick Scott, da sempre favorevole al diritto di possedere armi. È difficile dire come sia possibile che un movimento abbia subito successo, ma i ragazzi di Parkland sembrano perfettamente all’altezza della situazione. Sono abbastanza giovani per finire vittime di una strage in una scuola, ma anche abbastanza grandi da influenzare gli eventi. Come molti adolescenti, sono arrivati a un punto della vita in cui si sentono vulnerabili e allo stesso tempo invincibili, inseriti nel contesto sociale ma impermeabili alle etichette che gli adulti vorrebbero imporgli. Hanno un’aggressività che rispecchia quella del presidente Donald Trump: insultano i loro nemici e attaccano ferocemente politici e lobbisti come se litigassero con dei compagni nei corridoi della scuola. Questo non significa che abbiano già vinto, e non sono così ingenui sulle loro possibilità di successo. I ragazzi sanno che difficilmente il congresso, controllato dai repubblicani, approverà una legge per limitare la diffusione di armi. Nei giorni dopo la strage, Trump ha detto di voler rafforzare i controlli sui compratori, ma poi ha subito cambiato idea. Inoltre i ragazzi di Parkland non rappresentano l’intero paese. I sondaggi mostrano che i giovani non sono necessariamente più favorevoli dei loro genitori a regole più severe sulla vendita delle armi. Questo significa che gli studenti devono rispondere alla stessa domanda dei movimenti che li hanno preceduti: se il governo non accetterà le loro richieste, quale sarà stato il senso della loro battaglia? Il primo test importante è arrivato il 24 marzo, quando centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in tutto il paese e in varie città del mondo. Uno degli obiettivi dell’iniziativa – March for our lives – era aumentare il numero delle persone che si registrano per votare nella cosiddetta generazione dei massacri: sono i ragazzi e le ragazze cresciute dopo la strage alla Columbine del 1999, che hanno imparato a costruire barricate e a oscurare le finestre con la carta durante le simulazioni di un attacco. I ragazzi di Parkland vogliono che la riforma delle leggi sulle armi diventi l’argomento principale del dibattito in vista delle elezioni di metà mandato di novembre. “Vogliamo far capire ai politici che stiamo arrivando”, dice Hogg. Kasky è più ambizioso: “Il mondo ci ha delusi. Siamo qui per crearne uno nuovo, dove per la nostra generazione sia più facile vivere. Se non siete d’accordo potete andarvene”. I ragazzi pianificano la rivolta in un ufficio – tre stanze senza finestre – messo a disposizione da un centro commerciale, vicino a un anonimo negozio di alimentari nei pressi di Parkland. Per entrare nel quartier generale del movimento #NeverAgain bisogna bussare tre volte a una porta a vetri e identificarsi a voce alta. In questo modo i ragazzi possono verificare che non sia uno stalker armato di fucile (hanno ricevuto diverse minacce di morte). Nella tana ci sono scatoloni pieni di magliette per la marcia del 24 marzo e un busto di Robert Kennedy accanto alle lavagne con il programma dei prossimi appuntamenti. Su un muro c’è un collage di lettere arrivate nelle ultime settimane, piene di parole di incoraggiamento ma anche di insulti (in una lettera inviata a Delaney Tarr, una studente di 17 anni, si legge: “Chiudi quella fogna, stupida troia del cazzo”). Su un altro muro è appesa una mappa degli Stati Uniti in cui i ragazzi segnalano tutte le iniziative di protesta. Sulla porta di uno sgabuzzino sul retro è stato attaccato un foglio di carta con la scritta “ufficio di Cameron Kasky”, proprio davanti a un piccolo bagno con la scritta “l’altro ufficio di Cameron Kasky”.
Soldi e consulenti
Nelle stanze si respira un grande ottimismo, come se fosse la prova generale di una recita scolastica o l’intervallo di una partita di campionato. I ragazzi entrano ed escono in continuazione, si siedono sul pavimento per leggere le email dei loro sostenitori, si fermano ovunque per scrivere un tweet e si ammassano nella piccola sala conferenze per rispondere alle chiamate dei giornalisti e dei politici. Un giorno hanno passato l’intero pomeriggio a produrre un video per prendere in giro Dana Loesch, la portavoce dell’Nra. Un altro hanno incontrato Ted Deutch, deputato democratico della Florida che rappresenta il distretto di Parkland al congresso. Si ha la sensazione che in questo piccolo angolo dell’universo adolescenziale possa succedere qualsiasi cosa. Le leggi sulle armi hanno tormentato gli attivisti adulti per decenni, ma i ragazzi di Parkland finora hanno avuto un successo sorprendente. Anche se non sono soddisfatti della legge approvata dal parlamento della Florida – “È come se avessero cercato di fare un grande passo avanti e alla fine fossero inciampati”, dice Hogg – si tratta comunque del primo provvedimento sulle armi introdotto dallo stato negli ultimi vent’anni. Gli scioperi del 14 marzo hanno superato per partecipazione la Million mom march del 2000, quando 750mila persone andarono a Washington per protestare contro le armi. “Quest’attivismo giovanile non ha precedenti”, spiega Kris Brown, presidente della campagna Brady per prevenire la violenza causata dalle armi, creata dalle organizzazioni responsabili della manifestazione del 2000. “La differenza, oggi, è che i ragazzi colpiti sono più grandi e sono in grado di far sentire la loro voce come non era mai successo”.
Idee conservatrici
I ragazzi hanno costruito il movimento #NeverAgain basandosi su quello che hanno imparato a scuola. Hogg, aspirante giornalista che studia produzione televisiva, si è autonominato “addetto stampa” del movimento. Corin, che l’anno scorso ha scritto una tesina di 50 pagine sul controllo delle armi, ha organizzato il viaggio per cento studenti a Tallahassee, la capitale della Florida, per fare pressione sul governatore. Kasky e Wind, appassionati di teatro, hanno scritto alcuni dei racconti più impressionanti sulla sparatoria e sulla morte dei loro compagni. Questi ragazzi sono nati con i social network e hanno usato Twitter per influenzare le persone proprio come ha fatto Trump. Se il presidente può prendersi gioco dei suoi nemici, allora possono farlo anche gli studenti. “Gli adulti ci dicono ‘staccatevi dai telefoni’, ma i social network sono la nostra arma”, spiega Corin. “Senza i social network il movimento non sarebbe cresciuto così rapidamente”. Oggi questi studenti sono in una posizione di forza dal punto di vista politico. Gli attacchi dell’Nra e del Partito repubblicano sono percepiti come aggressioni contro le vittime di una tragedia. Un candidato repubblicano del Maine alla camera che aveva definito González una “lesbica skinhead” è stato travolto dalle critiche e ha dovuto ritirarsi dalla corsa elettorale. Gli studenti non sono soli nella loro battaglia. Hanno raccolto più di quattro milioni di dollari da piccoli donatori attraverso il crowdfunding, più due milioni da persone del mondo dello spettacolo come George e Amal Clooney, Steven Spielberg e Oprah Winfrey. Una grande società di pubbliche relazioni di Hollywood li aiuta gratuitamente a gestire i rapporti con la stampa, mentre Deena Katz, organizzatrice della marcia delle donne del gennaio 2017, si è offerta di fare da consulente. Inoltre Everytown for gun safety, l’organizzazione per la riforma della legge sulle armi creata da Michael Bloomberg, miliardario ed ex sindaco di New York, ha donato più di un milione di dollari in borse di studio per gli organizzatori delle marce in tutto il paese.
“Il nostro problema principale è che stiamo ricevendo troppo aiuto”, afferma Corin. I ragazzi sanno che altre campagne contro la violenza delle armi, tra cui quella guidata dagli attivisti neri nelle comunità urbane, non hanno ricevuto lo stesso sostegno finanziario né la stessa attenzione dei mezzi d’informazione. “Viviamo in una zona ricca abitata soprattutto da bianchi. Dobbiamo sfruttare questo privilegio”, dice Delaney Tarr. Gli attivisti di Parkland dicono che stanno cercando di correggere questo squilibrio. Una lettera dei Dream defenders, organizzazione per la giustizia razziale nata dopo l’omicidio di Trayvon Martin, è appesa al muro dell’ufficio. All’inizio di marzo gli studenti hanno inviato a Parkland gli attivisti dei Peace warriors, un gruppo di Chicago, per coordinare gli sforzi. “Combattiamo la stessa battaglia”, dice Arianna Williams, studente all’ultimo anno di Chicago. “A Parkland abbiamo trovato la possibilità di esprimerci. Da noi non era così”. Nell’ufficio non c’è nessun adulto a fare da supervisore, fatta eccezione per Matt Deitsch e Kaylyn Pipitone, due universitari che hanno frequentato la Stoneman Douglas. Si occupano dei compiti riservati ai maggiorenni, come la firma di contratti e polizze assicurative. “Vogliamo solo gli adulti indispensabili”, spiega Kasky. La madre di Alex Wind ricorda che durante un incontro del movimento #NeverAgain i genitori si sono offerti di dare una mano. “Ci hanno risposto: ‘ordinate la pizza’”. Difficilmente la marcia del 24 marzo convincerà il congresso a cambiare la legge sulle armi. Ma gli adolescenti di Parkland hanno una strategia di lungo periodo. Per loro il movimento non è solo una battaglia contro le armi ma anche una missione per mobilitare i giovani elettori. HeadCount, un gruppo che si occupa di aiutare i ragazzi a iscriversi alle liste elettorali, ha mandato cinquemila volontari in tutto il paese nel giorno delle manifestazioni per registrare nuovi elettori in vista del voto di novembre. “Se i politici non cambieranno le leggi, li cacceremo votando”, dice Kasky. “Vinciamo in ogni caso”. Ma non è così semplice. Secondo uno studio della Tufts university, alle elezioni del 2016 ha votato solo il 39 per cento delle persone tra i 18 e i 20 anni, mentre appena il 14 per cento aveva votato alle elezioni di metà mandato del 2014. Già in passato gli sforzi per aumentare l’affluenza non hanno portato grandi risultati. Tra l’altro non tutti i giovani votano per i democratici. Secondo un sondaggio del Pew research center, Trump ha un basso indice di gradimento tra i millennial (solo il 6 per cento lo sostiene con convinzione), ma quasi un terzo dei millennial ha idee conservatrici. Inoltre un sondaggio del 2015 ha evidenziato che solo il 49 per cento dei giovani tra i 18 e i 29 anni era favorevole al bando per i fucili d’assalto. I ragazzi di Parkland vogliono creare un movimento politico che possa occuparsi di tutti i problemi dei giovani statunitensi. Hogg vorrebbe organizzare una manifestazione ogni anno il 24 marzo, usando la rabbia di questa generazione per chiedere un cambiamento su molti temi, dalla riforma sul finanziamento delle campagne elettorali alla neutralità della rete passando per il cambiamento climatico. Ma anche se questi sforzi non dovessero produrre risultati concreti, i ragazzi ribelli di oggi saranno i leader di domani, rafforzati da un’esperienza che forse sta già cambiando il dibattito sulle armi. Questo è il messaggio per tutti i politici che si schierano con l’Nra, spiega Hogg: “I libri di storia vi condanneranno. Se non passate dalla nostra parte sarete il nostro nemico”.

Da sapere
La destra reagisce
“Le proteste non sono spontanee. I miliardari che odiano le armi e le élite di Hollywood stanno manipolando quei ragazzi per distruggere il secondo emendamento e toglierci il diritto di proteggere le nostre famiglie”. L’Nra, la più importante lobby delle armi degli Stati Uniti, ha risposto con questo comunicato alle proteste del 24 marzo, quando centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in più di 800 città per protestare contro la violenza causata dalle armi. Marco Rubio, senatore della Florida a cui gli attivisti hanno chiesto di tagliare i legami con l’Nra, ha dichiarato: “Nel nostro sistema per cambiare le cose bisogna scendere a patti con chi ha opinioni opposte”. Secondo il politico è molto difficile che il congresso approvi misure per ridurre la diffusione delle armi entro la fine del 2018, anche perché i parlamentari democratici finora sono stati molto timidi su questo tema.

internazionale 1.4.18
L’opinione
Tutte le battaglie sono collegate tra loro I ragazzi scesi in piazza il 24 marzo si battono contro un sistema in crisi che impedisce ogni cambiamento
Di Sarah Jafe, New Republic, Stati Uniti

Durante le proteste del movimento Occupy Wall street a New York, nel 2011, c’era un uomo che reggeva un cartello con la scritta: “È un casino e sono tutte cazzate”. A prima vista poteva sembrare il simbolo della disorganizzazione di cui il movimento veniva spesso accusato. Ma era anche un messaggio appropriato. Effettivamente sembrava tutto un completo disastro, e quella frase è diventata una sintesi per comunicare la necessità di un cambiamento strutturale. Ci ho ripensato quando ho sentito Emma González, attivista del movimento contro le armi, pronunciare l’ormai famoso discorso “sono tutte cazzate”. Non solo per la scelta delle parole ma perché conteneva una rivendicazione più generale. Gli studenti che hanno guidato la marcia del 24 marzo a Washington e in altre città del paese protestano contro la mancanza di controlli sulle armi e contro una democrazia disfunzionale in cui gli adulti non fanno niente per fermare i massacri. Gli adulti difendono lo status quo o si impegnano a peggiorarlo in una serie di contesti che vanno oltre la violenza causata dalle armi, ma che comunque si ricollegano al problema: assistenza sanitaria, razzismo, disparità salariali e guerre avventuristiche con la missione di “far tornare grande l’America”. Le manifestazioni del 24 marzo sono servite ad affermare che è ora di fare cambiamenti radicali, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump. Dai palchi di tutto il paese è emerso un modo diverso di vedere il mondo, senza la violenza delle armi da fuoco. A Los Angeles Edna Chavez ha parlato di cosa significa imparare a schivare i proiettili prima di imparare a leggere, e della morte di suo fratello ucciso in una sparatoria. Chavez ha criticato duramente il modo in cui sono trattati gli studenti che vivono nella zona sud della città. “Armare gli insegnanti non funzionerà. Il rafforzamento delle misure di sicurezza nelle nostre scuole non funzionerà. La politica della tolleranza zero non funzionerà. In questo modo ci fate solo sentire dei criminali. Non dovreste darci agenti di polizia ma un dipartimento specializzato nella giustizia riparatoria. Dobbiamo affrontare le radici dei problemi che abbiamo e trovare un’intesa su come risolverli”. Chavez ha chiesto anche tirocini pagati e opportunità di lavoro per i giovani.
Comunità soffocate
Naomi Wadler, 11 anni da Alexandria, in Virginia, è intervenuta a Washington per dire che i suoi pensieri appartengono solo a lei e che si rifiuta di essere “uno strumento nelle mani di un adulto senza nome”, sottolineando la scarsa attenzione per la morte delle donne nere, “le cui storie non finiscono mai in prima pagina e nei telegiornali”. La preoccupazione di Wadler per le ragazze riecheggiava nei cartelli esposti dai manifestanti in molte città degli Stati Uniti: “In questo paese il mio utero è più regolamentato delle pistole”. “In America i vestiti delle ragazze a scuola sono più regolamentati delle pistole”. Un’accusa non solo ai politici ma anche al legame tra le armi e il maschilismo e al problema del controllo. Molti cartelli si chiedevano anche dove fosse finito il cosiddetto movimento pro life, per la vita. Nino Brown, un’insegnante di Boston, ha chiesto un momento di silenzio per Stephon Clark, un nero disarmato ucciso dalla polizia di Sacramento il 18 marzo. “Tutti i miei studenti vengono da comunità di operai devastate dalla violenza. Il mio popolo, il mio popolo oppresso e colonizzato è stanco di essere ignorato da chi detiene il potere”. La sua comunità, ha spiegato Brown, è “soffocata” dalla segregazione, dalle ingiustizie economiche e dalla mancanza di finanziamenti. “Noi insegnanti chiediamo che i nostri figli possano frequentare scuole finanziate adeguatamente con servizi che aiutino gli studenti ad affrontare il trauma e riducano la violenza”. I manifestanti non si limitano a chiedere “la messa al bando dei fucili d’assalto”. Non è così semplice. Ciò che ha spinto tutte quelle persone ad agire è un grande movimento che ha creato lo spazio per un reale cambiamento. Un movimento che chiede un nuovo senso comune, capace di portare nel dibattito nazionale idee radicali.

internazionale 1.4.18
Movimenti
I protagonisti del cambiamento
Da Hong Kong all’Etiopia passando per la Polonia, negli ultimi anni l’impegno giovanile ha trasformato il dibattito politico

Joshua Wong, Hong Kong
Nato a Hong Kong nel 1996, a 17 anni Joshua Wong è diventato uno dei leader della “rivoluzione degli ombrelli”, il movimento nato per chiedere elezioni libere al governo cinese che amministra la regione speciale. Fin dall’inizio i funzionari di Pechino l’hanno accusato di essere un agente degli Stati Uniti. Wong fa parte della prima generazione di giovani di Hong Kong cresciuta sotto il dominio cinese (nel 1996 l’ex colonia britannica fu restituita alla Cina), che è anche quella più refrattaria all’influenza di Pechino. Tra luglio del 2017 e gennaio del 2018 Wong ha ricevuto due condanne per aver partecipato alle manifestazioni del 2014. All’inizio di febbraio la corte suprema di Hong Kong ha deciso di proscioglierlo dalle accuse.

Alaa Abdel Fattah, Egitto
Nato in una famiglia di militanti per la democrazia in Egitto, a 20 anni Alaa Abdel Fattah è stato tra i primi blogger a sfidare la censura di Hosni Mubarak. Durante la primavera egiziana è diventato il simbolo della rivoluzione di piazza Tahrir. Oggi è in carcere per avere organizzato una manifestazione contro il regime di Al Sisi, ma riesce a scrivere articoli per il sito indipendente Mada Masr, in cui rilette sull’impegno politico: “La mia generazione è maturata nel periodo della seconda intifada e poi della guerra in Iraq. I nostri fratelli arabi gridavano ‘Non toccate la nostra dignità’, mentre nel resto del mondo gli attivisti cantavano ‘Not in my name’ e ‘Un altro mondo è possibile’. Abbiamo capito che il mondo che avevamo ereditato stava finendo e che non eravamo soli”.

Agnieszka Dziemianowicz-Bąk, Polonia
Il 3 ottobre del 2016 decine di migliaia di persone, quasi tutte vestite di nero, sono scese in piazza in molte città polacche per contestare un disegno di legge, proposto da un’organizzazione religiosa vicina al governo conservatore, che rendeva l’aborto punibile con il carcere anche in caso di stupro e rischi per la salute della madre. Tra le leader del movimento c’è Agnieszka Dziemianowicz-Bąk, 34 anni, del partito di sinistra Razem, che durante un discorso nel “lunedì nero” ha accusato il governo di voler “trasformare i medici in guardie carcerarie” e di riportare la Polonia “al medioevo”. Pochi giorni dopo le manifestazioni, il parlamento ha respinto il disegno di legge con una maggioranza schiacciante.

Ahed Tamimi, Palestina
Il nuovo simbolo della resistenza palestinese all’occupazione israeliana è una ragazza di diciassette anni nata nel villaggio di Nabi Saleh, in una famiglia di attivisti. Il 19 dicembre del 2017 Ahed Tamimi è stata arrestata dalle forze israeliane con l’accusa di aver preso a schiaffi e a calci un soldato israeliano. Il video dell’accaduto ha fatto il giro del mondo. Poco prima Mohammed Tamimi, un cugino di Ahed di 15 anni, era stato colpito alla testa da un proiettile sparato da un soldato israeliano. Il processo contro Ahed Tamimi è cominciato il 13 febbraio in un tribunale militare a porte chiuse. Il 21 marzo Tamimi è stata condannata a otto mesi di carcere, dopo un accordo raggiunto con i giudici in base al quale la ragazza si è dichiarata colpevole per quattro dei dodici capi d’accusa presentati contro di lei, tra cui aggressione e istigazione alla violenza. Inoltre dovrà pagare una multa equivalente a 1.166 euro. La madre della ragazza, Narimane, che aveva girato il video, è stata condannata a otto mesi.

Feyisa Lilesa, Etiopia
Ventotto anni, medaglia d’argento nella maratona alle olimpiadi del 2016, l’atleta etiope è diventato il simbolo della causa oromo quando, al momento della premiazione, ha incrociato i polsi in segno di protesta. La comunità oromo è la più numerosa in Etiopia, ma sostiene di essere emarginata e perseguitata dal governo. Da almeno due anni i gruppi oromo, tra cui il movimento giovanile Qeerroo (un termine che indica i giovani scapoli), organizzano proteste e scioperi per chiedere più libertà politica e una migliore rappresentanza delle diverse etnie nelle istituzioni. All’inizio del 2018 la pressione è diventata così forte da spingere il governo a liberare migliaia di prigionieri politici e il primo ministro Hailemariam Desalegn a dimettersi.

internazionale 1.4.18
La guerra commerciale non è ancora cominciata
I nuovi dazi statunitensi sulle importazioni dalla Cina hanno provocato una reazione contenuta da parte di Pechino. E forse si arriverà al dialogo invece che allo scontro
Di George Magnus, Financial Times, Regno Unito

Non si fa che parlare di guerra commerciale, mentre gli Stati Uniti e la Cina alzano la guardia reciprocamente. Questa espressione si adatta ai piani di entrambi i paesi, ma usarla potrebbe essere prematuro. Le scariche a salve a cui stiamo assistendo potrebbero essere solo un preludio a colloqui tra Washington e Pechino. Nonostante le spacconate dell’amministrazione Trump e il suo programma protezionista, diventato ancora più rigido nei confronti della Cina, finora non si è arrivati a un punto di rottura. Tanto per cominciare, il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina non è semplice come potrebbe sembrare. Il disavanzo di 370 miliardi di dollari del 2017 scende a circa 150 miliardi se si considera la filiera cinese uno snodo commerciale dove le merci provenienti da altri paesi vengono rifinite e riesportate. Aggiungendo l’eccedenza commerciale dei servizi statunitensi la cifra si riduce a circa 110 miliardi di dollari, ancora molto alta ma sicuramente politicamente non così incisiva. Washington e Pechino sanno inoltre che la Cina è molto più vulnerabile alle misure protezionistiche americane di quanto non lo siano gli Stati Uniti rispetto alle iniziative della Cina. Le azioni intraprese da Washington finora non sono state drastiche: i dazi sui pannelli solari e sulle lavatrici annunciati a gennaio non arrivano nemmeno a un arrotondamento per difetto; i dazi su acciaio e alluminio, che interessano la Cina solo in modo marginale, hanno tante esenzioni per altri paesi che alla fine ammontano a molto poco. L’ultima serie di dazi è più seria e interessa merci per un valore di 50 miliardi, legate ai dieci settori che la Cina considera prioritari nel suo piano industriale per il 2025, tra cui la tecnologia informatica, la robotica, gli equipaggiamenti aerospaziali, il risparmio energetico e i veicoli alimentati con fonti rinnovabili, gli impianti per la produzione di energia, la medicina e i dispositivi medici. È più probabile che queste sanzioni abbiano lo scopo d’impedire a Pechino l’accesso alle merci e ai servizi che le servono per raggiungere i suoi obiettivi, e per cui dipende ancora in larga misura da aziende straniere. La Casa Bianca si è anche rivolta all’Organizzazione mondiale del commercio per denunciare le pratiche cinesi relative ai brevetti tecnologici e le restrizioni sugli investimenti in Cina. Quindi gli obiettivi di Washington vanno al di là del semplice commercio. La risposta cinese è stata in qui in larga misura verbale. Considerato il volume delle esportazioni statunitensi in Cina, non è semplice dare una risposta forte. Se fosse necessario Pechino adotterebbe misure diverse, come le campagne di boicottaggio contro le aziende straniere organizzate in passato. Potrebbe prendere di mira quelle statunitensi in Cina. Ma questo colpirebbe i lavoratori e i consumatori cinesi, e guasterebbe senza motivo i rapporti con Washington. La Cina di Xi Jinping, inoltre, non vuole essere trascinata nell’instabilità che una guerra commerciale potrebbe generare. Alla fine la strategia americana dei dazi non funzionerà. Farà aumentare i prezzi negli Stati Uniti, mettendo a repentaglio più posti di lavoro di quanti ne protegga, e sarà poca cosa se paragonata all’impatto dei tagli alle tasse, che faranno aumentare in modo significativo il deficit fiscale e, di conseguenza, il disavanzo esterno. Se la Cina fosse determinata nel rifiuto di compromessi sulle politiche commerciali e industriali, dovremmo tornare nel bunker. Per il momento però sembra più probabile che il passo successivo sarà l’avvio di negoziati.

Da sapere
La lezione cinese

“Washington ha bisogno di una vera lezione e solo la Cina, la seconda economia mondiale, può dargliela”, si legge nell’editoriale del Global Times sui dazi imposti dagli Stati Uniti contro Pechino. Il quotidiano legato al Partito comunista cinese avverte che alla fine i due paesi potrebbero negoziare “ma non possiamo basare le nostre azioni su questa eventualità. Dobbiamo prepararci allo scenario peggiore, a una guerra commerciale a tutto campo con gli Stati Uniti”. Lo stesso giorno, però, il Global Times ospitava l’analisi di un esperto, Wang Wen, che parlava di “coevoluzione” delle due economie, destinate a influenzarsi reciprocamente mentre progrediscono.

internazionale 1.4.18
Corea del Sud
Una riforma democratica

Il 26 marzo il presidente Moon Jae-in ha firmato la proposta di riforma costituzionale per ridurre il potere del capo dello stato a favore di un maggiore equilibrio con quello del parlamento. La riforma, che dovrà essere approvata dal parlamento e poi essere sottoposta a referendum in giugno, era una delle promesse fatte da Moon in campagna elettorale. Tra le modifiche, il passaggio dal limite di un unico mandato di cinque anni – introdotto dopo la morte nel 1979 del dittatore Park Geun-hye, che aveva fatto in modo di rimanere al governo a tempo indeterminato – a due di quattro. Inoltre il parlamento avrebbe il controllo su alcune decisioni prese finora per decreto dal presidente, che non potrebbe più nominare il capo della corte costituzionale. Se approvate, le riforme avranno effetto solo dopo le prossime elezioni, quindi non riguarderanno Moon, scrive il Korea Herald.

internazionale 1.4.18
Polonia
Le donne in piazza

Il 23 marzo migliaia di persone sono tornate a manifestare a Varsavia e in altre città polacche contro una proposta di legge che vieta l’aborto in caso di malformazioni del feto. La legge polacca in materia è già tra le più restrittive d’Europa. “Consapevoli del fatto che la Polonia è cattolica e tradizionalista, da venticinque anni i movimenti per il diritto all’aborto cercano di non irritare la sensibilità dei cattolici”, scrive Gazeta Wyborcza. “Il risultato? Passo dopo passo la chiesa e i suoi alleati hanno soppresso diritti e libertà. È ora di cambiare strategia. Le donne vogliono decidere. E la chiesa se ne deve fare una ragione”.

internazionale 1.4.18
Non c’è niente di cui stupirsi
Invece di indignarci per la vicenda della Cambridge Analytica dovremmo rimettere in discussione un modello di capitalismo interamente basato sulla sorveglianza
Di William Davis, London Review of Books, Regno Unito

Nella vicenda della Cambridge Analytica almeno una cosa è certa. se quarantamila persone in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania avessero cambiato idea su Donald Trump prima dell’8 novembre del 2016 e avessero votato per Hillary Clinton, questa piccola società di consulenza non sarebbe finita sulle prime pagine dei giornali. Avrebbe potuto carpire i dati degli elettori e fargli il lavaggio del cervello ma, se Clinton avesse vinto, oggi questa non sarebbe una notizia. I cattivi della storia di sicuro concorderanno con quest’affermazione, ma per ragioni poco plausibili. nell’inchiesta condotta da Channel 4 news con il supporto dell’Observer e del New York Times si vede l’amministratore delegato della Cambridge Analytica Alexander Nix (attualmente sospeso) vantarsi, con quello che riteneva un potenziale cliente, di aver incontrato Trump “molte volte” e di aver architettato l’intera strategia della sua campagna elettorale. Secondo Nix quei quarantamila voti sono stati strappati a Clinton e consegnati a Trump grazie a pubblicità mirate e a qualche messaggio molto persuasivo. “Tutta la strategia elettorale si è basata sui nostri dati”, dice Nix.
La Cambridge Analytica era stata ingaggiata per lavorare alla campagna elettorale di Trump, anche se non necessariamente per la sua genialità machiavellica. SWteve Bannon, il responsabile della campagna, all’epoca era nel direttivo della società e probabilmente ha procurato all’azienda un contratto di favore. All’inizio del 2017, quando la Cambridge Analytica ha attirato per la prima volta le attenzioni dei mezzi d’informazione britannici, si è detto che aveva avuto stretti rapporti anche con la campagna per l’uscita del regno unito dall’unione europea. In una delle tante inchieste sull’argomento, Carole Cadwalladr dell’Observer scriveva nel maggio del 2017 che “gli avvenimenti negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono strettamente intrecciati.
La Brexit e Trump sono intrecciati. I legami dell’amministrazione Trump con la Russia e il Regno Unito sono intrecciati. E la Cambridge Analytica è uno snodo attraverso cui possiamo vedere tutte queste relazioni”. Date queste premesse, in un certo senso le rivelazioni più recenti sono una delusione, se non altro per i clienti più ingenui della Cambridge Analytica. In primo luogo non c’è alcuna prova concreta del fatto che la Cambridge Analytica abbia fornito servizi di consulenza ai sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea in occasione del referendum del 2016. Nix si era vantato in un articolo di averlo fatto, ma a febbraio ha ammesso che quell’articolo era stato scritto da un “consulente di pubbliche relazioni un po’ troppo zelante”. Di sicuro dovremmo cercare di capire come “la Brexit e Trump sono intrecciati”, ma per farlo occorre un’analisi sociologica ed economica: non sarà semplice (o emozionante) come scoprire un centro di controllo segreto.
Strategia comune
In secondo luogo, non c’è – né può esserci – alcuna prova che la Cambridge Analytica abbia fatto vincere le elezioni a Trump (e, per le stesse ragioni, non è possibile dimostrare che non l’abbia fatto), sebbene l’azienda naturalmente sostenga il contrario. Clinton fa ancora fatica ad ammettere che la sua sconfitta potrebbe non essere dovuta a queste macchinazioni. Intervistata da Channel 4, ha parlato della “propaganda” della Cambridge Analytica, che “ha influenzato i processi decisionali degli elettori”. Eppure l’analisi dei dati è alla base di tutte le moderne campagne elettorali. Clinton ha preferito studiare i dati sul Michigan dal suo ufficio di Brooklyn invece di andare di persona nello stato, anche quando i democratici locali l’avevano implorata di farlo nelle ultime settimane di campagna elettorale. Se le cose fossero andate diversamente, avremmo letto articoli sulle innovative tecniche di analisi dei dati che per la prima volta avevano permesso a una donna di diventare presidente degli Stati Uniti. lo scandalo ha due facce, ma nessuna riguarda nello specifico le elezioni. La prima riguarda la “violazione dei dati”, che ha garantito alla campagna di Trump l’accesso a cinquanta milioni di profili Facebook senza il permesso degli utenti. Questo è potuto succedere grazie a un’applicazione chiamata thisisyourdigitallife, simile a quelle in cui si imbattono tanti utenti di Facebook. Sono applicazioni che compaiono nel news feed sotto forma di questionario sulla personalità che produce risultati relativamente banali da condividere con gli amici. Thisisyourdigitallife è stata creata da Aleksandr Kogan, psicologo dell’università di Cambridge, per verificare le teorie sui modelli di personalità in base ai like su Facebook. Solo 270mila persone hanno usato l’app, che però ha raccolto anche i dati dei loro amici. Facebook sapeva di thisisyourdigitallife, ma credeva che servisse solo alla ricerca accademica. Qualsiasi utente che avesse letto termini e condizioni (ma chi di noi lo fa?) avrebbe pensato la stessa cosa. Quello che nessuno sapeva ino a poche settimane fa è che Kogan trasmetteva i dati alla Cambridge Analytica, che a sua volta li metteva a disposizione di Bannon, come ha raccontato all’Observer Christopher Wylie, che lavorava alla Cambridge Analytica. La mietitura sono state violate diverse regole. Le norme sulla privacy presuppongono che ogni individuo abbia il diritto di sapere come verranno usati i suoi dati prima di permettere a qualcuno di raccoglierli. Kogan e la Cambridge Analytica si sono comportati in modo disonesto. Ma anche se non hanno rispettato alla lettera la sezione “termini e condizioni” e hanno violato la normativa sulla privacy, nessuno si sorprenderà del fatto che i dati raccolti in un ambito possano venire usati in un altro. L’uso di dati in modi innovativi (e segreti) è di fatto il principio guida dell’economia digitale: Sshoshana Zuboff l’ha definito “capitalismo della sorveglianza” e Nick Srnicek “capitalismo della piattaforma”. Vale la pena ricordare che negli anni novanta internet era considerata tanto una minaccia quanto un’opportunità per il capitalismo. Napster è l’esempio più celebre. Non si capiva da dove sarebbero venuti i profitti in un contesto in cui l’informazione era abbondante e l’anonimato la norma. Quello che è cambiato, come hanno spiegato Zubof e Srnicek, è che si è cominciato a pensare a internet come a un dispositivo di sorveglianza di dimensioni potenzialmente globali: si offrivano servizi migliori, più economici o gratuiti a condizione che gli “utenti” fossero tracciati in tutto ciò che facevano e che vi ancorassero le loro identità reali. Il fatto che la maggior parte dei giganti della tecnologia abbia registrato perdite enormi nei primi anni di attività è parte integrante della strategia. La gente dev’essere convinta a usare un servizio, e continuare a usarlo. Solo in seguito questo potere viene convertito in profitto. Argomentare che un utente di Facebook dà il suo consenso a tutti i modi in cui Facebook usa o potrebbe usare i suoi dati significa travisare la questione. D’altronde, dire che un lettore del Guardian dà il suo consenso a tutti i modi in cui il Guardian usa i suoi dati (di cui lascia una traccia ogni volta che visita il sito del quotidiano) significa fraintendere la natura essenzialmente malleabile dei dati stessi. Il potenziale valore dei dati emerge dopo che sono stati raccolti, non prima. Nel panico generato dal caso Trump e Cambridge Analytica, questa dura realtà capitalista è stata definita harvesting, la mietitura. Ma se creare un’app per raccogliere dati senza che le persone ne siano pienamente consapevoli è “mietere”, allora lo sono tante altre cose. Creando un wii gratuito sulla metropolitana di Londra, l’azienda Transport for London miete dati sui movimenti dei passeggeri. Il digital service britannico ha mietuto dati sui cittadini manipolando l’aspetto dei siti del governo (usando due versioni diverse di ogni sito si raccolgono dati sulla navigazione e sul tempo passato su ogni pagina). Uber continua a raccogliere dati sul comportamento degli utenti perfino dopo la fine della corsa, anche se ora si può scegliere di disattivare questa funzione. I nuovi manifesti pubblicitari a Piccadilly circus mietono dati: contengono videocamere che analizzano le espressioni della gente. L’altra faccia dello scandalo è più sporca ma meno significativa. Se si deve credere alle sue affermazioni, alla Cambridge Analytica piace giocare in modo scorretto. Nix e il suo collega Mark Turnbull sono stati colti da Channel 4 mentre parlavano di tecniche di adescamento, ricatto e controspionaggio con toni più adatti a una storia di James Bond che alla psicometria. Osservazioni buttate là su come il candidato non sia altro che una “marionetta” nelle mani della campagna elettorale e i “fatti” siano meno importanti delle “emozioni” sembrano losche se colte da una telecamera nascosta, ma non sono poi così lontane dall’atteggiamento del Partito laburista britannico negli anni novanta. E quando Nix si vanta di “agire nell’ombra” e saluta il “cliente” con una battuta a effetto (“non vedo l’ora di costruire un rapporto lungo e segreto con lei”) ci si chiede come abbia fatto il giornalista di Channel 4 a restare serio. Dunque siamo di fronte a un uso improprio dei dati, cosa che ha giustamente attirato l’attenzione dell’ufficio del commissario per l’informazione del Regno Unito, e a un po’ di gergo da marketing che scivola in fantasticherie mafiose per poi sparire al primo segnale di pericolo.
L’uso improprio dei dati non è una novità: nel 2010 il Wall Street Journal aveva scoperto che le app di Facebook (come quella realizzata da Kogan) raccoglievano regolarmente informazioni a uso e consumo degli inserzionisti e delle società che tracciavano i dati d’accesso ai siti, senza il permesso degli utenti. Tenuto conto di quanto Facebook controlli l’attenzione del mondo (con più di due miliardi di utenti attivi al mese, che trascorrono in media cinquanta minuti al giorno sul sito), è inevitabile che i mercanti dell’attenzione vi si buttino a caccia di scarti, proprio come i grandi eventi sportivi attirano i bagarini. Perché tanta indignazione? Bisogna fare i complimenti all’observer per la sua tenacia. Con un po’ di fortuna questa storia potrebbe farci arrivare a un punto di svolta sulla questione della riservatezza dei dati. tuttavia il fascino e lo sgomento provocati dalla Cambridge Analytica suggeriscono una rimozione dell’orrore che in realtà deriva da qualcosa di molto più profondo. In parte deve avere a che fare con il trumpismo. Un fenomeno così terribile dev’essere stato provocato da strumenti altrettanto terribili. Chi si è battuto con fervore per restare nell’unione europea deve pensare la stessa cosa riguardo alla Brexit. È chiaro che nella campagna elettorale statunitense sono intervenute forze segrete e subdole. Grazie alle indagini di Robert Mueller sappiamo che Facebook ha venduto spazi pubblicitari per un valore di centomila dollari alle “fabbriche di troll” russe, e che 126 milioni di americani potrebbero essere stati esposti a notizie false diffuse dalla Russia nel 2015 e nel 2016. Poi c’è la ripresa delle indagini dell’Fbi sulle email di Clinton in un momento critico della campagna elettorale. ma che tutto questo ci permetta di comprendere o spiegare la vittoria di Trump è discutibile.
Cattivi rassicuranti
La Cambridge Analytica sembra un sicuro colpevole soprattutto perché si è vantata più volte di esserlo. Rispetto agli eventi del 2016 Nix e Turnbull sono quello che i manager della Goldman Sachs e della Royal Bank of Scotland sono stati per la crisi finanziaria del 2008: personalità grottesche su cui concentrare rabbia e allarme. Ascoltare uomini simili vantarsi della loro spregiudicatezza è paradossalmente rassicurante, perché contribuisce a spiegare la perdita di senso morale del mondo. Come nel caso della crisi finanziaria, tuttavia, il circo rischia di distrarre dalle vere questioni istituzionali e politiche che, in questo caso, riguardano aziende come Facebook e il modello di capitalismo che tollera, facilita e addirittura celebra le loro estese e sofisticate forme di raccolta e analisi dei dati. È significativo che due dei più grandi scandali etici che hanno colpito Facebook negli ultimi anni coinvolgano dei ricercatori universitari (l’altro scandalo è l’esperimento sul “contagio emotivo” da cui è emerso che Facebook aveva alterato il news feed senza il consenso degli utenti). Avere a che fare con ricercatori esterni significa rinunciare a una parte del controllo. La disponibilità di Facebook a collaborare con i ricercatori è già scarsa, e questi scandali spingeranno Mark Zuckerberg a chiedersi se valga davvero la pena di correre rischi. Se tutti i dati restano all’interno dell’azienda non emerge nessun dilemma etico. Le dimensioni e la portata sempre più vaste di queste piattaforme eliminano gradualmente la necessità di condividere dati con qualcun altro. Si è detto che i dati sono il “petrolio” dell’economia digitale, la risorsa che alimenta tutto il resto. Un’analogia più utile è quella tra il petrolio e la privacy, una risorsa naturale nascosta che viene progressivamente saccheggiata per ricavare un profitto, con conseguenze sempre più nocive per la società nel suo complesso. Se questa analogia è corretta, le leggi per la protezione della privacy e dei dati non basteranno a lottare contro i giganti della tecnologia. distruggere la privacy in modi sempre più avventurosi è il lavoro di Facebook. Proprio come gli ambientalisti chiedo no all’industria dei combustibili fossili di “lasciarli nel sottosuolo”, quello che dovremmo fare è chiedere alla silicon valley di “lasciare le informazioni nelle nostre teste”. Il vero cattivo in questo caso è una logica economica espansiva che insiste nel voler controllare una quantità sempre maggiore dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e delle nostre relazioni. Il modo migliore per fermare tutto questo è quello che la silicon valley teme più di ogni altra cosa: le leggi antitrust. una volta frammentate in società più piccole, le aziende tecnologiche sarebbero comunque in grado di controllarci, ma da punti di vista diversi che non potrebbero essere messi in connessione tra loro con facilità o in modo poco trasparente. un mondo pieno di truffatori come la Cambridge Analytica, che alla fine vengono colti in fallo a causa delle loro stesse stupidaggini, è meglio di un mondo in mano a enormi monopoli come Amazon e Facebook, che un po’ alla volta assumono le funzioni del governo mantenendo un inquietante silenzio su quello che fanno.

L’AUTORE William Davies è un sociologo ed economista britannico. Ha scritto The happiness industry (Verso Books 2015).

l’espresso 1.4.18
Prima pagina
Inchiesta / Potere & affari
Caccia ai soldi della Lega
Milioni investiti in modo illegale. E la onlus Più voci per sfuggire ai giudici. Quel che non dice l’uomo che vuole l’incarico di governo
di Giovanni Tizian e Stefano Vergine

Un’associazione senza scopo di lucro. Una onlus usata per ricevere finanziamenti dalle aziende e girarli subito dopo a società controllate dalla Lega. La porta girevole è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Matteo Salvini nell’ottobre del 2015, nel pieno del processo per truffa che ha poi mandato sul lastrico il partito imponendo il sequestro dei conti correnti. Ma questo non è l’unico segreto finanziario del nuovo leader della destra italiana, in corsa per diventare capo del governo. Al riparo da occhi indiscreti ci sono anche milioni di euro investiti in obbligazioni societarie e titoli derivati. Scommesse proibite per un partito politico, stabilisce la legge. Eppure la Lega le ha fatte. I documenti ottenuti da L’Espresso permettono di andare oltre i bilanci ufficiali e ricostruire un pezzo delle trame finanziarie architettate dal Carroccio negli ultimi sei anni, quelli cioè che vanno dalla cacciata di Umberto Bossi a oggi. Il risultato è che alla narrazione legalitaria sostenuta pubblicamente da Salvini si sovrappone una gestione economica opaca, che richiama il passato bossiano, tempi che “il capitano” vuole far cadere nell’oblio al più presto. Ripartiamo dunque dall’inizio. Dov’è finito il tesoro della Lega? Dove sono spariti i 48 milioni di euro messi sotto sequestro dal tribunale di Genova dopo la condanna di Bossi per truffa ai danni dello Stato? Da mesi i giudici di Genova sono a caccia di quei denari: soldi pubblici, perché frutto dei rimborsi elettorali. Finora sui conti del Carroccio sono stati però rinvenuti poco più di 2 milioni. Gli altri? Usati, spesi, spariti: questo hanno sempre sostenuti i massimi dirigenti del Carroccio. «Oggi sul conto corrente della Lega nazionale abbiamo 15 mila euro», ha detto lo scorso 3 gennaio Salvini, che non perde occasione per ricordare come il suo partito sia senza un quattrino. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali. Alcuni documenti bancari aiutano però a comprendere meglio che fine ha fatto la ricchezza leghista. Facendo emergere un fatto inedito: sia sotto la gestione di Roberto Maroni, sia in seguito sotto quella di Salvini, parecchi milioni sono stati investiti illegalmente. Una legge del 2012 vieta infatti ai partiti politici di scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro «l’Europa serva di banche e multinazionali» (copyright di Salvini) ha cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle più famose banche e multinazionali. Colossi come l’americana General Electric, la spagnola Gas Natural, le italiane Mediobanca, Enel, Telecom e Intesa Sanpaolo. Una fiche da 300mila euro è stata messa anche sul corporate bond di Arcelor Mittal, il gruppo siderurgico indiano che ha acquistato l’Ilva promettendo di lasciare a casa circa 4mila lavoratori. Ma lasciamo stare per un attimo gli investimenti e torniamo al momento in cui tutto è cambiato. Il 16 maggio del 2012, poco dopo che la notizia dell’inchiesta per truffa ha costretto Bossi a dimettersi da segretario federale, la Lega apre un conto corrente presso la filiale Unicredit di Vicenza. Nel giro di sei mesi vi trasferisce buona parte della liquidità parcheggiata in altre banche: 24,4 milioni di euro in totale. È l’inizio di una frenetica girandola di bonifici e giroconti che porteranno, nel giro di quattro anni, al prosciugamento delle risorse finanziarie padane. O almeno di quelle registrate sul conto della Lega nazionale. Degli oltre 24 milioni arrivati in Unicredit, una decina sparisce quasi subito: prelievi in contanti, pagamenti non meglio specificati, investimenti finanziari, trasferimenti sui conti delle sezioni locali del partito, bonifici a favore di società di capitali controllate dalla stessa Lega come Pontida Fin, Media Padania ed Editoriale Nord. A gennaio del 2013 un altro colpo di scena. Il partito, allora guidato da Maroni, apre un nuovo conto corrente. Dove sposta una buona fetta del tesoretto custodito in Unicredit. Questa volta la scelta ricade sulla Sparkasse, la cassa di risparmio di Bolzano. Non un istituto a caso. Il presidente della banca altoatesina è infatti Gerhard Brandstätter, già socio d’affari dell’avvocato della Lega di quel momento, il calabrese Domenico Aiello. Sul conto della Sparkasse arrivano, oltre a 4 milioni di titoli finanziari, 6 milioni di liquidità. Bastano solo sei mesi, però, e i soldi spariscono. La maggior parte del denaro viene usata per finanziare la campagna elettorale di Maroni alla presidenza della regione Lombardia: decine di bonifici a società di comunicazione e organizzazione eventi, tra cui spiccano i quasi 400 mila euro diretti alla sede irlandese di Google, punto di passaggio obbligato per chiunque voglia farsi pubblicità sul motore di ricerca più usato al mondo.
Anche in questo caso non mancano i trasferimenti alle sedi locali del partito, ma la parte del leone - come avvenuto pochi mesi prima con il conto Unicredit - la fanno le società di capitali della Lega. Radio Padania: 250 mila. Editoriale Nord: 600 mila. Pontida Fin: 206 mila. Fin Group: 360 mila. Una volta prosciugato il conto Sparkasse, si torna a puntare tutto su Unicredit. Ed è qui che vengono a galla i dettagli sugli investimenti finanziari. Nel dicembre del 2013, quando Maroni è ancora il segretario federale, il Carroccio ha in pancia titoli per 11,2 milioni di euro. Due terzi della somma equivalgono a buoni del tesoro italiani, mentre il resto sono obbligazioni societarie. Ci sono anche 380 mila euro investiti in un derivato, un titolo basato sull’andamento del Ftse Mib, il principale indice azionario della Borsa di Milano. Insomma una Lega che, a dispetto della legge e delle dichiarazioni ufficiali contro la finanza speculativa, ha scelto di rischiare parecchio con i soldi dei rimborsi elettorali. Strategia che non è cambiata quando a Maroni è succeduto Salvini. Alcuni documenti bancari riassumono il saldo del conto corrente del Carroccio presso Unicredit il 19 maggio del 2014, quando Matteo è ormai da qualche mese in plancia di comando. Le carte raccontano due fatti. Il primo è che anche Salvini ha investito i denari del partito in obbligazioni societarie. Nello specifico, Matteo ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural. Il secondo fatto salta all’occhio confrontando i saldi del conto corrente leghista a distanza di soli cinque mesi. Da dicembre del 2013 al maggio del 2014 il patrimonio è crollato, passando da 14,2 milioni a 6,6 milioni. Non è dato sapere in che modo siano stati spesi così rapidamente tutti quei soldi. Di certo Salvini fino a qualche tempo fa poteva disporre di parecchie risorse, mentre oggi i conti della Lega sono ufficialmente a secco. Tant’è che lo Stato italiano, attraverso i giudici di Genova, si è dovuto accontentare di sequestrare solo 2 milioni sui 48 teorici. Perché la Lega ha investito soldi violando una legge dello Stato? E come mai i finanziamenti delle imprese sono arrivati sui conti di una sconosciuta associazione no profit invece che su quelli ufficiali? Alle domande de L’Espresso, il partito guidato da Salvini ha preferito non rispondere. Scelta che alimenta un dubbio: la onlus è stata creata per evitare il sequestro dei soldi da parte dei magistrati? In mancanza di risposte da parte dei diretti interessati, non resta che attenersi ai fatti documentabili. L’associazione si chiama Più Voci, esiste dall’autunno del 2015. All’apparenza sembra una rivisitazione in salsa padana della fondazione renziana Big Bang. Con la differenza che la onlus sovranista non ha nemmeno un sito internet, figuriamoci una lista pubblica dei finanziatori. A tenerne le redini sono tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Se è vero che la onlus Più Voci finora non ha pubblicizzato alcuna attività politica o sociale, il conto corrente di riferimento mostra una certa vitalità. Soldi - 313 mila euro in pochi mesi - che entrano, fanno una sosta e poi ripartono per altri lidi. O meglio, verso altri conti intestati a società della galassia leghista: aziende in cui i commercialisti preferiti da Salvini hanno incarichi di rilievo. Per chiarire meglio il ruolo dell’associazione Più Voci è necessario tornare tra la metà del dicembre 2015 e i primi mesi del 2016, quando sul conto della onlus piovono due bonifici per un totale di 250 mila euro. La causale è la classica usata per i contributi ai partiti: “erogazione liberale”.
I versamenti sono stati disposti dalla Immobiliare Pentapigna srl. Un nome che ai più non rivela molto. Scavando sulla proprietà si arriva a uno dei più noti costruttori della Capitale: Luca Parnasi, titolare del 100 per cento delle azioni dell’immobiliare. Già, proprio l’uomo che dovrebbe costruire il nuovo stadio della Roma, erede di una dinastia di palazzinari (lui preferisce il termine “sviluppatore di progetti”) che con il potere ha sempre flirtato. Il padre Sandro, era un comunista convinto, ha gettato le basi dell’impero, oggi con le finanze scricchiolanti e con i debiti in mano a Unicredit. Il figlio Luca preferisce il basso profilo, anche se qualche anno fa ha tentato di far rivivere lo storico quotidiano di sinistra Paese Sera, ma si è dovuto arrendere poco dopo. Nella sua carriera non ha disdegnato affari con personaggi equivoci. Come quello proposto dal capo della famigerata “Cricca”, Diego Anemone, di recente condannato in primo grado a 6 anni per associazione a delinquere. Una decina di anni fa, Parnasi acquistò da Anemone per 12 milioni un complesso residenziale di pregio dietro il Pantheon, un tempo nella disponibilità del Vaticano. Perché Parnasi ha versato almeno 250 mila euro all’associazione leghista? L’immobiliarista romano non ha risposto alle domande de L’Espresso. Di certo il primo contributo versato all’associazione Più Voci si concretizza il 12 dicembre di tre anni fa. Nel pieno dunque della retorica sovranista di Salvini, che già in quel momento può contare sul movimento Noi con Salvini per fare proselitismo sotto il Po. E sempre a cavallo tra il primo e il secondo bonifico il leader leghista annunciava la presenza della Lega-Noi con Salvini alle Comunali poi vinte dai Cinque Stelle e Virginia Raggi. Insomma, il sostegno “liberale” offerto dal re del mattone Parnasi potrebbe essere letto in questa ottica locale-Capitale. Un luogo dove il costruttore ha bisogno di mantenere buoni rapporti con tutti, se vuole davvero sperare di costruire lo stadio della Roma. Ma, forse, non si tratta solo di questioni romane. Perché i Parnasi si stanno giocando partite decisive per il futuro del loro gruppo anche oltre il Tevere e il raccordo. C’è per esempio il caso Ferrara. Qui la famiglia di costruttori è proprietaria del Palaspecchi, un grande complesso immobiliare che versa da anni in stato di abbandono. La politica locale, con in testa la Lega, per diversi anni ha sostenuto l’idea di demolire tutto. Un’ipotesi rischiosa per Parnasi. Per sua fortuna, però, le cose sono cambiate. Dopo anni di tira e molla, all’inizio dell’anno scorso la situazione sembra essere stata risolta con un intervento finanziato principalmente da Cassa depositi e prestiti. L’ente che gestisce i risparmi postali degli italiani dovrebbe permettere di riqualificare l’intera area e realizzare duecentosessanta alloggi sociali, affiancati da attività commerciali, servizi e spazi verdi. Un bel sospiro di sollievo per il gruppo Parnasi, che intanto sta facendo parlare di sé anche nell’altra capitale d’Italia, quella economica, Milano. Un mese e mezzo fa, infatti, il Milan ha affidato al quarantenne Luca Parnasi il compito di individuare un’area adatta a realizzare il futuro campo di proprietà rossonera. L’immobiliarista ha dunque contribuito in maniera massiccia alla causa di questa sconosciuta associazione leghista. Non è il solo, però. Con 40 mila euro si piazza Esselunga, la catena di ipermercati della famiglia Caprotti. Del resto Salvini stesso non ha mai nascosto l’ammirazione per il gruppo concorrente per eccellenza delle Coop. «Grande uomo, mai servo di nessuno», scriveva nel suo addio su Facebook il giorno della scomparsa di Umberto Caprotti. La causale del bonifico di 40 mila euro versato a giugno 2016 recita “contributo volontario 2016”. Quasi a voler sottolineare che anche per quell’anno sono in regola con l’attestazione di fiducia verso la Lega sovranista. Esselunga è stata l’unica a rispondere alle nostre domande. La catena di supermercati non ha spiegato perché abbia scelto di versare almeno 40 mila euro all’associazione leghista invece che donarli direttamente al partito. Si è limitata a farci sapere che quella cifra «è stata destinata a Radio Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti pubblicitari su oltre 70 radio». Ma allora perché le aziende non versano il loro contributo direttamente alla Lega o a Radio Padania? È un modo per confondere le acque ed evitare il sequestro dei soldi? E per quale motivo scrivere nella causale “Contributo volontario” se di pubblicità si trattava? Domande a cui non è possibile dare risposta. Il loquace Salvini, questa volta, ha preferito il no comment. C’è da dire, però, che in effetti, poco dopo essere arrivati sul conto della onlus i soldi, non solo quelli di Esselunga, vengono girati a società di capitali del gruppo leghista. In quattro mesi 265 mila finiscono proprio alla cooperativa Radio Padania, quella della storica emittente del Carroccio, mentre altri 30 mila euro vengono versati sul conto della Mc srl, società leghista che controlla il giornale online Il Populista, diventato lo strumento principe della propaganda salviniana in rete. Insomma, l’operazione ha tutta l’aria di essere una partita di giro. Anche perché l’amministratore unico sia della Mc che di Radio Padania è lo stesso Giulio Centemero, tesoriere del partito, che siede nella onlus da cui partono i denari. Le azioni della Mc sono saldamente in mano alla Pontida Fin, altra cassaforte storica del Carroccio ormai caduta in disgrazia, il cui 1 per cento continua a essere in mano al Senatur Umberto Bossi. Frammenti di un passato che Salvini vorrebbe rottamare, ma che non riesce a tenere fuori dalla porta. Anche se una cosa Matteo Salvini l’ha cambiata davvero. Roma per i sovranisti cresciuti tra le valli di Pontida non è più ladrona. Ai tempi di Umberto Bossi era proibito frequentare i salotti. Il Senatur aveva avvertito i parlamentari padani, guai a mischiarsi con il potere romano, tra manager, stelle dello spettacolo e palazzinari. Con la Lega modello Front National, certe rigidità appartengono al passato secessionista.

l’espresso 1.4.18
Medici che non curano le donne
di Elena Testi

Sul foglietto illustrativo, il Vangelo di ogni farmaco, si indicano con precisione gli “effetti indesiderati”, gli “effetti indesiderati rari” e gli “effetti indesiderati non comuni”. Seguono altri mille dettagli. Nessuna specifica, però, su come varia l’effetto della medicina a seconda del genere del paziente, né c’è scritto alcunché sui diversi dosaggi tra uomo e donna. Solo una postilla: «In caso di gravidanza e allattamento consultare un medico». Nient’altro. Eppure la scienza ha da tempo sentenziato: maschio e femmina rispondono in maniere differente ai farmaci. Anche i sintomi delle malattie possono essere diversi tra i due sessi. Il problema è concreto ma in Italia la maggior parte delle Regioni non hanno ancora studiato un piano sanitario per questo. Piano che, tra i numerosi vantaggi, negli anni potrebbe anche notevolmente ridurre i costi del Sistema Sanitario Nazionale. Gli studi clinici, storicamente, si sono basati su uomini caucasici dal peso di circa 70 chilogrammi. Nel 1991 un articolo della cardiologa Bernardine Healy, direttrice del National Institute of Health, per la prima volta mostra quanto questa prassi sia sbagliata. Così la comunità scientifica inizia ad abbandonare le discriminazioni e anche l’Italia tenta l’inversione di marcia. Ma per la Direttrice ad interim del Centro per la medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità, Alessandra Carè, «è ancora necessario cambiare approccio, perché nonostante la situazione sia migliorata c’è ancora molto strada da fare». Già, perché le differenze sono molte. Per i maschi, ad esempio, l’infarto arriva con un dolore al braccio e l’accasciamento improvviso, ma per la donna non è così, la sintomatologia è diversa: spesso non si avverte alcun dolore e l’agitazione viene scambiata per uno stato di irrequietezza e ansia. La conseguenza, di fronte a medici impreparati, è che la paziente non viene ricoverata o viene soccorsa in ritardo. Forse anche per questo in Italia la mortalità per malattie cardiovascolari è del 48,4 per cento nelle donne e del 38,7 per cento negli uomini. Stessa cosa per il diabete: gli studi dimostrano che la donna è meno trattata con medicinali specifici. All’elenco si aggiunge il tumore al colon, seconda causa di morte in ambedue i sessi in Europa e negli Usa: gli esami specifici sono stati cablati solo per gli uomini con la conseguenza che nelle donne possono dare esito negativo e far scoprire la malattia troppo tardi. Così per il cancro legato alle vie urinarie, che nelle donne è spesso scambiato per una semplice infiammazione o cistite. Gli studi - come riportato nell’ultimo report del Ministero della Salute - hanno evidenziato significative differenze di genere anche nell’incidenza, nell’aggressività, nella progressione, nella prognosi e nella risposta alla terapia in molte tipologie di tumori comuni ai due sessi. Tradotto: donne e uomini rispondono in maniera diversa alla malattia e una cura studiata solo sugli uomini può avere conseguenze anche gravi.
La medicina avanza e la politica tenta la risposta. Ed ecco la legge per l’Applicazione e la diffusione della medicina di genere nel Servizio sanitario nazionale pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 15 febbraio. Tempo di attuazione massimo 12 mesi. La legge, dovrebbe quindi entrare in vigore entro l’inizio del 2019. Le necessità impellenti sono: sperimentazione; formazione; ricerca e informazione per la salvaguardia della salute della donne. Convegni, studi di settore e dati che si accumulano. L’attenzione nella comunità scientifica si sta spostando verso l’asticella rossa. Il primo passo è educare gli studenti. È per questo che il professore in Endocrinologia dell’Università La Sapienza di Roma, Andrea Lenzi, ha inserito, come coordinatore dei presidenti dei corsi di studio in Medicina, l’insegnamento della medicina di genere nelle università italiane. «Il progetto», specifica, «è partito per l’anno accademico 2017-2018. Ci siamo resi conto di una necessità divenuta ormai impellente, proprio per questo tutte le facoltà italiane hanno deciso di accettare l’indicazione». Ma se per i medici del domani il cambiamento è già in atto, per quelli del presente saranno necessari corsi di aggiornamento da inserire nella formazione continua per educarli a una diagnosi più consapevole.
La disparità passa anche attraverso le strumentazioni. I macchinari e i dispositivi medici possono a volte essere inadatti al corpo femminile. A fare la differenza può essere per sino la grandezza del cuore o la presenza del seno. Il Sistema Sanitario Nazionale necessita di una ristrutturazione da bollino rosa. Ma l’equità scientifica deve affrontare talvolta anche il problema speculare. L’osteoporosi colpisce entrambi i sessi, eppure - sottolinea Andrea Lenzi - «è difficile che un maschio si faccia un esame specifico, questo solo per pregiudizio».
Vale lo stesso per la depressione, spiega Alessandra Carè: «Si pensa che l’uomo per motivi socio-culturali non ne venga colpito, eppure il tasso di suicidi tra i maschi è molto più alto». Trial clinici, sperimentazioni, pregiudizi e un immaginario comune completamente da rivoluzionare. Come il sito internet “Salute della donna”, il portale del ministero dedicato esclusivamente al genere femminile, che alla voce “Dipendenze e differenze di genere” dedica in tutto cinque righe: «La ricerca scientifica degli anni più recenti mostra significative differenze di genere». E poi: «Tuttavia, mancando studi specifici per genere, forte è il bisogno di sviluppare studi basati sulle evidenze, con metodologie che differenzino le peculiarità». E il ministero della Salute italiano se la cava così.
È del 14 febbraio 2017, invece, la risoluzione approvata dal Parlamento Europeo con cui invita gli Stati membri «a utilizzare un approccio metodologico che garantisca una rappresentanza adeguata di uomini e donne nelle sperimentazioni cliniche». Contiene una serie di raccomandazioni alla Commissione Ue perché tutto il processo di sperimentazione dei farmaci sia più inclusivo del genere femminile: ne parlerà Beatriz Becerra, eurodeputata spagnola indipendente, al Meeting mondiale per la libertà di ricerca scientifica organizzato dall’Associazione Luca Coscioni a Bruxelles, dall’11 aprile prossimo.
Per l’Agenzia Italiana del Farmaco però «le donne rimangono ancora sottorappresentate nelle sperimentazioni cliniche in aree importanti come ad esempio l’oncologia non genere-specifica, oppure nell’area cardiovascolare». Le cause sono i costi elevati per la case farmaceutiche, ma non solo: «Le donne in età fertile sono storicamente escluse dalla partecipazione ai test». I rischi maggiori riguardano «fertilità e un regolare sviluppo del feto». Massimo Scaccabarozzi aggiunge che «esiste una difficoltà a coinvolgere le “quote rosa” nel reclutamento - che è volontario - per gli studi clinici, a causa di diversi fattori, come la variazione dei parametri fisiologici e appunto il potenziale rischio in età fertile». Secondo l’Istituto Superiore di Sanità «per evidenziare le diverse risposte ai farmaci, oltre a un arruolamento bilanciato tra i due sessi, è indispensabile un’analisi dei risultati separata per genere, ad oggi spesso trascurata». Un dettaglio cruciale. Abbattere la cecità di genere significherebbe infatti ridurre gli effetti indesiderati che si manifestano quasi due volte più frequentemente nelle donne. A dettare legge sono sempre gli studi: alcuni farmaci antinfiammatori differiscono significativamente a secondo del sesso. Conseguenza? «Senza test specifici», spiega l’Aifa, «si potrebbe rischiare di privare le donne di medicinali potenzialmente utili per la cura di malattie importanti o non essere a conoscenza della sicurezza dei farmaci» Ed eccoli, come un monito costante: “effetti indesiderati”, “effetti indesiderati rari” ed “effetti indesiderati non comuni”. Diversi per genere.

l’espresso 1.4.18
Se l’uomo si fa Dio
Le frontiere della tecnoscienza
Intelligenza artificiale, bioingegneria, robot sono la nuova frontiera. E tornano a dividere i filosofi tra apocalittici e visionari. Che ne sarà della specie umana?
di Marco Pacini

Una delle fotografie più nitide di questo primo tratto di strada che abbiamo imboccato verso il “salto antropologico” l’ha scattata il sociologo e filosofo Edgar Morin all’alba del millennio: «L’umanità è ancora in rodaggio e siamo già nelle vicinanze della post-umanità. L’avventura è più che mai ignota». Come spettatori un po’ attoniti, sospesi tra l’ammirazione e l’inquietudine, assistiamo alla grande partita della tecnoscienza, dove la posta in palio è il futuro di una specie, la nostra. Lo chiamano post-human, senza nemmeno un accordo su un significato univoco. Ma la partita è iniziata da tempo e non può attardarsi in sottigliezze semantiche. Nella squadra A giocano i tecno-umanisti (o transumanisti), evangelisti di una religione che potremmo chiamare datismo: non siamo altro che sistemi di elaborazione dati e in quanto tali possiamo migliorare, cambiare la nostra natura senza porre limiti alle acquisizioni e applicazioni delle due discipline madri, informatica e biologia (intelligenza artificiale e ingegneria genetica). La squadra B schiera i postumanisti che anche quando salutano con favore la fine del dualismo natura-cultura, mettono in guardia sugli sviluppi “fuori controllo” della tecnoscienza e sul nuovo capitalismo cognitivo e genetico che potrebbe generare scenari distopici. E vorrebbero almeno aspettare l’arbitro, prima di iniziare la partita. Ma dell’arbitro sembra non esserci bisogno. Perché «tutto funziona, e questo è appunto l’inquietante», come disse allo Spiegel nell’ultima intervista postuma Martin Heidegger, antesignano del pensiero della (o sulla) tecnica. Quell’intervista diventò un libro intitolato “Solo un dio ci può salvare”. E forse nemmeno di quel dio c’è più la necessità, dato che saremo noi stessi come specie, o una parte di noi, potenziati da dispositivi frutto della santa alleanza tra bioingegneria e informatica, a trasformarci in “Homo deus”, come ha suggerito lo storico del futuro Yuval Noah Harari. L’intelligenza si sta separando dalla coscienza, avvertono alcuni degli analisti del futuro postumano come Harari; e una volta liberata dalla coscienza l’intelligenza sviluppa una velocità vertiginosa. Quella dei postumani immaginati nei templi dello “human+” come Google e dei suoi sacerdoti come Ray Kurzweil. Gli esseri umani - assicurano - non sono più in grado di gestire gli immensi lussi di dati, sono arrivati al capolinea e ora potrebbero passare il testimone a entità di un tipo del tutto nuovo. Scenario entusiasmante. O apocalittico, come pensa il filosofo Michel Onfray, che conclude il suo ultimo lavoro, “Decadenza”, con una diagnosi senza speranza: «Un pugno di postumani riuscirà a sopravvivere al prezzo di un’inaudita schiavitù delle masse, cresciute come bestiame (…) Le dittature di questi tempi funesti faranno passare quelle del Novecento per inezie. Google lavora oggi a questo programma transumanista. Il nulla è sempre certo». Meno catastrofista, ma “in allerta”, Adam Greenfield, che in “Tecnologie radicali” rilette: «Non so cosa significherà essere umani nell’era della post-umanità (...). Capisco perfettamente perché chi crede, per quanto incautamente, che da queste circostanze (la post-umanità frutto del matrimonio tra I.A. e bioingegneria ndr) trarrà il massimo beneficio e un potere inattaccabile voglia arrivarci così in fretta. Quello che non capisco è perché lo vogliano anche gli altri». Ma forse è inutile preoccuparsi di un futuro postumano alla Onfray, se dovesse realizzarsi la situazione in cui per la parola “umano” non ci sarebbe semplicemente più posto, con o senza prefisso. Lo ipotizza il filosofo Nick Bostrom (fautore del potenziamento umano e studioso dell’Intelligenza artificiale tra i più accreditati) nel suo ultimo saggio “Superintelligenza”: quando l’I.A. supererà quella umana potrebbe sterminare l’umanità intera. Sulla base di queste previsioni, nel gennaio 2015 Bostrom firmò una lettera aperta, sottoscritta da molti altri scienziati, tra cui Stephen Hawking, per mettere in guardia sui potenziali pericoli di uno sviluppo eccessivo dell’I.A. Nel frattempo, finché con o senza “post” ci saremo, le frontiere continuamente superate dall’intelligenza artificiale e dall’ingegneria genetica (ne parlano negli articoli che seguono Nicoletta Iacobacci e Gianna Milano) pongono con sempre maggiore forza un problema. Anzi, il problema: ci spingeremo in dove si “può”, o in dove si “vuole”? È vero, l’ibridazione è già avviata da tempo. Siamo già in parte nel postumano.  «La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto questo ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, rivelando le fondamenta non naturalistiche dell’umanità contemporanea», ha scritto la filosofa del posthuman Rosi Braidotti. Ma forse una parte di  ciò che la migliore fantascienza ci ha fatto intravedere e che si presenta ormai sotto forma di possibilità ulteriore, esponenziale, rappresenta un “salto” più che una continuità di questa condizione postumana. Ed è di fronte a quel salto che il “postumanesimo critico” rivolge interrogazioni sempre più pressanti alla tecnoscienza che “funziona” e procede. Segnalandole l’incrocio tra il si può e il si vuole. Il soggetto di quel volere dovrebbe essere un noi che si interroga ed è interrogato. Ma che per ora sembra assistere attonito alla partita senza arbitro. Ed è quasi inutile ricordare che l’arbitro assente è la politica, ormai da qualche decennio costretta ad arrancare dietro alla tecnoscienza e all’economia o al loro sodalizio (basti pensare agli algoritmi che ogni giorno sui mercati decidono autonomamente di spostare miliardi in nanosecondi). Quel noi ha il volto, per esempio, di chi si vede uscire  dalla mostra  “Human+” (viaggio tecnoartistico sul futuro della specie, in corso a Roma al Palazzo delle esposizioni). E la cui espressione sembra dire: lo voglio o non lo voglio quel “più” per i miei figli e nipoti? Ma soprattutto: potranno deciderlo?

Il nuovo inizio è la vita
colloquio con Rosi Braidotti

«Quando si parla di postumano non si può parlare solo di ricerche neuronali, intelligenza artificiale, bioingegneria. Non c’è niente di nuovo su questo, solo un’accelerazione. Quello che dobbiamo fare è trovare una convergenza tra i saperi».
Raggiunta al telefono nel suo studio all’Università di Utrecht, dove insegna da anni, la filosofa italiana Rosi Braidotti prova a mettere ordine. A sottrarre il dibattito sul postumano ai singoli saperi, ai tecnologi e tecnocrati, per riconsegnarlo alla filosofia. O meglio al pensiero critico. Ha da poco pubblicato in inglese “The Posthuman Glossary”, scritto con Maria Hlavajova. Ma il suo lavoro principale è “Il Postumano”, uscito anche in Italia nel 2014 per DeriveApprodi. Professoressa Braidotti, siamo all’ennesimo “post”, ma questa volta sembra decisivo.
«Sì, e chiama in causa insieme lo sviluppo tecnologico e le realtà sociali. Si può pensare all’accelerazione tecnologica come a una rivoluzione, ma anche una tragedia sociale, all’antropocene come alla catastrofe ambientale senza ritorno... C’è un clima di ansia. Ma io resto ottimista, perché può far scattare la convergenza tra i saperi, un pensiero critico ma non nichilista». Il suo postumano parte dalla fine dell’antropocentrismo e dell’opposizione natura-cultura. Verso quale inizio?
«L’inizio è considerare la struttura vivente in sé vitale e contemporaneamente non naturalistica. Costruire un’etica non antropocentrica che consideri tutti i viventi, sperimentando le possibilità della scienza senza timori».
Non vede nelle istanze postumaniste e tecnoumaniste un prevalere di queste ultime ma nella forma di nuovi spazi di dominio?
«Sul postumano stanno lavorando le grandi compagnie della Silicon valley. Si deve ragionare su come il capitalismo cognitivo si è impossessato delle humanities. Si deve ricostruire un terreno comune per discutere su cosa sta accadendo. Il potenziamento umano è diventato centrale in queste discussioni e ciò che lo rende perverso è che lo presentano come l’ultimo capitolo dell’illuminismo. Io dico il contrario. La grande mutazione non avviene nel vuoto, ci sono le implicazioni sociali. Bisogna negoziare su che cosa siamo capaci di diventare. Riorganizzare i saperi, posizionarsi come cittadini, reinventarsi in un’emergenza epistemologica. Spinoza scrisse l’Etica per questo».