martedì 3 aprile 2018

Il Fatto 3.4.18
Rep.it oscura Odifreddi


C’è un blog sul Repubblica.it con un titolo rivoluzionario – Le fake news di Scalfari su papa Francesco – nascosto chissà dove nei meandri del sito dai responsabili anti-rivoluzionari dello stesso sito. Lo firma il matematico Piergiorgio Odifreddi. Il testo ricostruisce tutta la serie di interviste poi smentite – ormai un classico – che scaturisce dagli incontri (surreali) fra il fondatore di Repubblica e l’argentino Jorge Mario Bergoglio. Con perizia e fortuna abbiamo trovato il blog e ve ne proponiamo dei passaggi: “Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. (…) Il fatto è che Scalfari non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre ‘interviste’ pubblicate su Repubblica il 1 ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio”. Un consiglio, per aggirare la censura, andate sui motori di ricerca e scrivete le parole “blog Odifreddi”. E poi pregate.

il manifesto 3.4.18
Perché il Pd è un partito «sbagliato»
di Antonio Floridia


Quanto sta accadendo nel Pd, dopo il voto del 4 marzo, non credo abbia precedenti storici: non s’era mai visto un partito incapace di dare il benservito, più o meno educatamente, al segretario che lo ha condotto alla disfatta.
E che non riesce a discutere seriamente nemmeno sulle ragioni di questa sconfitta. Come può accadere tutto questo? Molti commentatori non riescono a cogliere le ragioni di fondo. Il problema non è solo la protervia del personaggio ma la natura stessa di questo partito, diretta conseguenza di una tara genetica. Non pare che si rifletta adeguatamente, insomma, sia sulla «costituzione materiale» del Pd, sia sulla costituzione «formale» (lo statuto). Partiamo da un dato evidente: Renzi tiene in ostaggio il partito, non molla la presa. Ma c’è una spiegazione: il Pd è retto, sin dalla sua fondazione, da una logica presidenzialistica e plebiscitaria, non da un regime interno di democrazia rappresentativa. L’investitura diretta del «capo», unto dal «popolo delle primarie», fa sì che sia il leader a «far eleggere» gli organismi dirigenti, non questi ultimi a eleggere un segretario. Non parliamo poi dei gruppi parlamentari.
Da qui un’insostenibile rigidità: il Pd è un partito che può solo implodere. Per cambiare un segretario sono possibili solo alcune vie obbligate: o dimissioni vere, o nuove primarie, o un golpe di palazzo, ossia il «tradimento» di coloro che sono entrati nell’assemblea nazionale non per una capacità rappresentativa del corpo degli iscritti, ma letteralmente al seguito del loro candidato-segretario, trainati dai consensi che questi ha raccolto. Un nuovo segretario può essere eletto solo con il voto dei 2/3 dei membri dell’assemblea; altrimenti vige il principio del simul stabunt, simul cadent: i membri dell’assemblea, se «sfiduciano» un segretario, tornano a casa anche loro. Non essendoci organi collegiali che esprimano gli orientamenti del corpo associativo (anzi, mancando del tutto un tale corpo: il segretario, e chi fa parte di quegli organismi, sono eletti da un magma indistinto di «elettori»), viene a mancare ogni capacità deliberativa e quella tipica flessibilità istituzionale che è propria di un regime rappresentativo. E manca un confine organizzativo (una linea distintiva tra chi è dentro e chi è fuori dal partito) che permetta di individuare un soggetto sovrano, fonte ultima di una legittimità democratica.
La Spd, dopo mesi di discussioni accese, ha chiamato i suoi iscritti a votare sulla scelta delle alleanze di governo. Si può mai immaginare qualcosa di simile per questo Pd? Ossia, per un partito in cui delle tessere ci si preoccupa solo quando ci si approssima al «congresso» (che poi, come tale, è espressione nemmeno contemplata nello statuto)? A tutto ciò si aggiunga una mutazione che si è progressivamente palesata: la «fusione» tra due ben diverse tradizioni organizzative (quella post-democristiana della Margherita e quella post-comunista dei Ds) ha comportato, dentro l’impianto statutario dominato dalle cosiddette primarie, un preciso effetto: la prima tradizione si è trovata perfettamente a proprio agio (filiere, cordate, legami personali tra i notabili e la «base»); la seconda è completamente evaporata. Raddrizzare questo partito «sbagliato» è impossibile. Bersani, nella prima fase della sua segreteria, sembrava voler affrontare il problema: ma questo timido tentativo fu travolto dagli eventi (quel governo Monti che, oramai è ben chiaro, è stato una sciagura per la sinistra italiana). Altri, generosamente, penso a Fabrizio Barca, hanno provato ad avanzare e sperimentare alcune proposte: senza nemmeno trovare un qualche interlocutore serio. Pochi giorni fa Gianni Cuperlo ha detto che ci vorrebbe un congresso vero, e che non servono i gazebo: già, ma chi lo decide questo?
È evidente che il Pd è prigioniero del suo stesso impianto fondativo: una trappola mortale. È un partito irriformabile, oramai. E infatti acquistano sempre maggiore credibilità gli scenari che ipotizzano forme di separazione più o meno consensuali o traumatiche. Anche per questo, se a sinistra si uscisse dalla totale afasia e dalla paralisi post-voto, sarebbe necessario qualche esercizio di immaginazione strategica. Ha davvero poco senso dividersi sui «rapporti con il Pd», su un nuovo «centrosinistra», e discorsi simili. Nessuno può dire come evolverà la crisi del Pd, e in che tempi: e non ha davvero senso attendere questi sviluppi, o sperare nell’arrivo taumaturgico di un cavaliere senza macchia e senza paura (Zingaretti?). Come che sia, un partito della sinistra ci vuole, ci vorrebbe come l’aria. E anche coloro che credono nella necessità di ricostruire uno schieramento ampio, democratico e di sinistra (non chiamiamolo più centrosinistra, per favore), debbono convenire su un dato: non potrà essere certo il Pd, anche un Pd «liberatosi» finalmente di Renzi, a porsi come un luogo esclusivo di sintesi. È molto più credibile e auspicabile una pluralità e un’articolazione delle forze. Non sappiamo se ci sarà ancora un Pd nel prossimo futuro e che cosa sarà. Sappiamo solo quello che, comunque, è necessario: un nuovo partito che abbia il coraggio di far rinascere una sinistra radicalmente riformatrice, ripensata nella sua cultura politica e nella sua lettura della società, rinnovata nei programmi e negli uomini e nelle donne che la guidano. Ma ci saranno coloro in grado di avviare questo processo? Forse ci vorrebbe un novello barone di Münchausen, capace di tirarsi su dal pantano aggrappandosi al proprio stesso codino di capelli.

Il Fatto 3.4.18
“Se si allea con la Lega, il M5S si suicida: serve un nuovo voto”
Lo scrittore: “Il 4 marzo è stata bocciata la coalizione tra Pd e Forza Italia, ma qualsiasi governo adesso sarebbe solo un’accozzaglia”
“Se si allea con la Lega, il M5S si suicida: serve un nuovo voto”
intervista di Luca De Carolis


Nel voto del 4 marzo non ha visto un verdetto: “Gli italiani hanno espresso un pronunciamento, non una scelta precisa”. E quel pronunciamento però gli pare chiaro: “Gli elettori hanno voluto scongiurare una coalizione tra Pd e Forza Italia”. Dopodiché, “qualunque alleanza di governo è impossibile, perché sarebbe solo un’accozzaglia”. Lo scrittore Erri De Luca legge i risultati delle Politiche come la bocciatura di un Nazareno bis. Ma invoca già nuove urne: “Per me bisognerebbe tornare al voto a brevissimo, credo che gli italiani darebbero un responso più preciso”.
Forse prima di tornare a votare bisognerebbe cambiare legge elettorale. Molti vedono nel Rosatellum la causa principale dello stallo.
Ho sentito dire che l’esito non sarebbe cambiato con leggi elettorali diversa da quella attuale. Non sono un esperto, ma ho l’impressione che questo voto sia stato una tappa in un percorso degli elettori.
Ora proveranno comunque a formare un governo. E si partirà dai Cinque Stelle e dal loro 32,5 per cento. L’ha stupita il loro risultato, soprattutto nel Meridione?
Quello del Sud è un voto mobile, attuale, soggetto a sbalzi d’umore. Regioni come Sicilia e Puglia vanno dove tira il vento. Ma non so se tra un anno il M5S prenderebbe così tanto. E comunque mi ha colpito di più il mutamento dell’elettorato nelle ex regioni rosse.
Il Pd è precipitato anche lì: colpa di Renzi, e della sua politica poco di sinistra?
No. Lo ripeto, è stato un voto per evitare un’alleanza con Forza Italia, che poteva sembrare un risultato naturale.
E ora? Sarebbe una buona mossa per i dem cercare un accordo con i 5Stelle?
Il Pd dovrebbe indire le primarie per trovare un nuovo segretario, senza decidere a tavolino. E dovrebbe farlo in fretta. Più passa il tempo, più si assottiglia nella considerazione degli italiani.
E allora il M5S dovrebbe provarci con la Lega. Avrebbero anche i numeri.
Sarebbe solo un’accozzaglia e un suicidio reciproco, per un governo che oltretutto durerebbe poco. E a suicidarsi sarebbero soprattutto i 5Stelle, perché perderebbero tanto di quell’elettorato guadagnato a sinistra, con il loro porsi come un soggetto esterno alle categorie politiche, alla destra come alla sinistra.
Un anno fa nel pieno delle polemiche sulle ong, quando Luigi Di Maio parlò di “taxi del mare”, lei definì il Movimento “invotabile”. È ancora dello stesso parere?
Per me il M5S è perfino peggiorato, perché nel frattempo ha boicottato il voto sullo ius soli.
Perché lo ha fatto?
Per prendere voti dappertutto. E finora ci è riuscito.
Ma M5S e Lega hanno davvero linee così simili sull’immigrazione? Qualche giorno fa sul Fatto il politologo Piero Ignazi ricordava che nel programma dei 5Stelle è previsto il divieto di respingere i migranti in Paesi che non rispettino i diritti umani. E il Movimento si è adoperato anche per l’abolizione del reato di clandestinità.
Dove vengono selezionati coloro che hanno diritto d’asilo, i titolari di potenziali diritti? In mare, con una selezione innaturale dei naufragi e degli sbarramenti. E su questo punto i 5Stelle e la Lega hanno la stessa linea, quella dell’istigazione all’omissione di soccorso. Basta vedere come sono entusiasti per i sequestri delle navi delle ong.
Perché è così sentito il tema dell’immigrazione in Italia? C’è effettivamente tutta questa paura nei confronti dei migranti?
La società italiana si compiace di spaventi, e dello spauracchio dell’invasione. A Napoli si dice che Pulcinella ha paura delle maruzze, delle lumache, e delle loro corna che spuntano dal cesto. Nella stessa misura gli italiani hanno paura dei migranti.
È l’effetto della crisi economica?
È un disturbo del comportamento, tipico delle società senili. I vecchi si spaventano più facilmente.
C’è qualcosa o qualcuno che le piace nell’attuale panorama politico?
Luigi De Magistris. Ha fatto buone cose come sindaco di Napoli.
Lo descrivono spesso come un Masaniello, un demagogo.
De Magistris è un magistrato, un uomo di legge che ha impedito di fare man bassa del denaro pubblico.
Ha ancora senso parlare di sinistra da ricostruire?
Per me la sinistra equivale alla trinità laica della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fratellanza. E questi valori esistono ancora in Italia. Solo che non sono rappresentati da alcun partito.
De Luca, lei ha votato il 4 marzo?
Questa domanda la passo.

Il Fatto 3.4.18
Il paradosso del ritorno alle urne: “Non vincerebbe nessuno lo stesso”
Numeri - Fornaro (LeU): “Si sposterebbero 25-30 seggi: niente maggioranze”
di Marco Franchi


Ci vuole tempo. Lo dicono tutti e quindi sarà vero: ci vuole tempo affinché la crisi politica innescata dal voto del 4 marzo trovi una sua composizione parlamentare; ci vuole tempo perché passino le scorie della campagna elettorale e si possa procedere ad alleanze nuove; ci vuole tempo affinché il Palazzo sviluppi quella particolare forma di autoconservazione capace di creare maggioranza laddove pareva impossibile.
Ci vuole tempo, eppure non mancano i segnali che il tempo potrebbe non bastare e l’Italia essere riportata al voto in tempi brevissimi (ottobre se ogni tentativo andrà a vuoto da qui a giugno). Il busillis è noto e parte dal fatto che nessuno ha i voti: il governo del centrodestra, che pure ha più parlamentari degli altri, è difficile perché né il Movimento 5 Stelle, né il Pd intendono appoggiarlo; il governo del M5S è possibile solo con Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, ma nessuno di quelli che potrebbe allearsi coi grillini vuole Di Maio a Palazzo Chigi; un governo 5 Stelle centrodestra è impossibile perché i primi non vogliono Silvio Berlusconi; un governo 5 Stelle-Lega è difficilissimo perché la seconda non pare volersi staccare da Silvio Berlusconi; un governo 5 Stelle-Pd è impossibile perché Renzi non vuole e controlla metà dei gruppi parlamentari; un governo del presidente è difficilissimo perché non lo vogliono appoggiare né i grillini, né i leghisti.
Insomma, ci vuole tempo ma il tempo potrebbe non bastare. Solo che anche il ritorno al voto potrebbe non essere dirimente. Il perché lo spiega l’esperto di sistemi elettorali Federico Fornaro, deputato di Liberi e Uguali, la scorsa settimana eletto presidente del gruppo Misto alla Camera (in questa veste parteciperà alle Consultazioni al Quirinale): “Con il Rosatellum anche la soluzione di tornare alle urne sarebbe sterile perché, stando ai rapporti di forza usciti dalle urne il 4 marzo scorso, in ballo ci sarebbero al massimo 25-30 seggi, insufficienti a determinare una maggioranza stabile alla Camera”.
In sostanza, le dinamiche nei sondaggi post-voto mostrano un ulteriore indebolimento dell’area del centrosinistra e una crescita di 5 Stelle e Lega (ma quest’ultima soprattutto ai danni di Forza Italia, cioè all’interno della coalizione di centrodestra). In sostanza a “passare di mano” da uno schieramento all’altro sarebbero una trentina di deputati, effettivamente non sufficienti – e di parecchio – a formare una maggioranza di governo alla Camera (lo stesso discorso potrebbe essere fatto per il Senato dimezzando i numeri): alla coalizione di centrodestra mancano oltre cinquanta deputati per avere la metà più uno dell’Aula, al Movimento 5 Stelle addirittura quasi cento; a Palazzo Madama Salvini e soci sono sotto di 23, i grillini di 50.
Insomma, anche un voto a ottobre non darebbe un vincitore netto. È anche vero, però, che al prossimo giro sarebbe chiaro a tutti che è il momento del compromesso, che il nuovo sistema tripolare non può essere ingabbiato dentro logiche maggioritarie imposte per legge al corpo elettorale.

Corriere 3.4.18
L’identità del Pd
Ora Renzi esca dalla tenda
di Ernesto Galli della Loggia


C’è qualcosa nell’attuale condizione del Pd che ricorda quella del Partito socialista all’indomani delle elezioni del 1976. Ridotto al suo minimo storico il Psi usciva allora dalle urne con le ossa rotte; l’intero gruppo dirigente del partito appariva virtualmente fuori gioco; la strepitosa avanzata dei comunisti segnava il fallimento della sua quindicennale collaborazione con la Democrazia cristiana lasciandolo privo di una strategia. Tutto questo mentre il sistema politico sembrava ormai avviato a una qualche forma di stabile bipolarismo Dc-Pci. Una certa somiglianza con l’oggi come si vede c’è. Si sa come invece andarono le cose. Per ragioni che qui è inutile ricordare il connubio tra democristiani e comunisti ebbe solo uno sviluppo embrionale, e da lì a non molto il Partito socialista riacquistò per un decennio abbondante un ruolo assolutamente centrale nella vita politica del Paese come protagonista di un nuova serie di governi di centrosinistra.
A che cosa fu dovuto quel mutamento sul quale all’indomani delle elezioni del ’76 pochi avrebbero scommesso? Sostanzialmente a tre fattori. Innanzitutto al fallimento del disegno politico mirante all’accordo Pci-Dc che avrebbe relegato in un angolo i socialisti. E poi al fatto decisivo che questi seppero trovare una nuova e abile leadership pronta a dare battaglia.
Non solo: trovarono anche una nuova marcata identità politico-ideale (e pure i soldi allora necessarissimi — oggi no? — per fare politica: ma su questo è meglio stendere il velo misericordioso dell’oblio).
L’evocazione dei tre fattori che allora giocarono a favore dei socialisti aiuta a capire le prospettive che si aprono oggi davanti al Pd.
Comincio dalle possibilità di successo dei suoi avversari. Che in verità non sembrano molto alte. Nessuno di loro, infatti, né la coalizione di destra né i Cinque Stelle, ha la possibilità di governare da solo; dunque se il Pd non collabora sono obbligati a formare un governo insieme. Ma perché ciò accada è necessario che venga superato uno scoglio non da poco, Silvio Berlusconi: dal momento che per i grillini accettare la sua partecipazione in qualunque modo alla maggioranza è impossibile, pena la rivolta armata del loro elettorato; e dall’altra parte per la Lega è altrettanto impossibile rinunciare oggi a quella partecipazione, vale a dire prima che Salvini — compiuto il suo riposizionamento in chiave «nazionale» e, aggiungo, liberatosi delle punte di estremismo piazzaiolo che fin qui lo hanno caratterizzato — abbia avuto il tempo di riassorbire l’elettorato di Forza Italia. Anche andare da sola al governo con i Cinque Stelle per la Lega non è per nulla facile. Significherebbe iniziare una difficile coabitazione ministeriale in posizione di grave debolezza: sia perché alle prese con un socio di stazza doppia rispetto alla propria, sia perché ciò implicherebbe tagliarsi i ponti alle spalle con il potenziale bacino elettorale rappresentato da Forza Italia. E dunque rinunciare a qualunque futuro disegno egemonico sulla Destra. Altri governi più o meno pasticciati sono forse possibili, è vero: ma di sicuro debolissimi e di vita brevissima.
Dunque, in particolare il futuro dei Cinque Stelle, che sono stati i veri rivali elettorali del Pd, non appare per nulla facile. Il loro potere di coalizione è assai scarso ed essi rischiano di restare prigionieri della loro stessa vittoria. Di conseguenza non sembra esserci nessuna impellente ragione strategica perché i Democratici pensino di dover diventare i loro junior partner di governo: come se nel 1976 i socialisti sconfitti avessero deciso di allearsi immediatamente con la Dc .
Come fare però senza un leader? Questo è oggi il vero problema del Pd, di un Pd che per ricostituire la propria identità ideale e politica decida di tenersi fuori dai giochi di governo. Senza un leader, tra l’altro, anche ricostituire la suddetta identità diventa un’impresa quasi impossibile.
Diciamo allora le cose come stanno: allo stato attuale in quel partito esiste una sola persona che per temperamento, per grinta, per audacia e per capacità d’iniziativa abbia la stoffa di un capo. E quella persona, piaccia o non piaccia, si chiama Matteo Renzi. Il guaio è che se Renzi ha temperamento gli fa però difetto in grande misura il carattere. Senza contare, ciò che è quasi più grave, che egli non si è mai curato di dare alle proprie ambizioni una base di conoscenze e di riflessioni più ampia di quella che aveva quando è arrivato a Palazzo Chigi. Per chi si dedica alla politica avere carattere vuol dire avere, per esempio, l’umiltà di capire i propri errori e la voglia di correggerli non sentendosi perciò sminuito; non indulgere alle promesse demagogiche («Visiterò ogni settimana una scuola» fu detto all’inizio...); farsi un’idea non sommaria delle questioni e perseguirla senza tentennamenti; ma anche scegliere collaboratori capaci di dire no e sceglierli proprio per questo, o, per dirne un’altra, evitare di andare a tutte le riunioni di tutte le Confqualcosa d’Italia per riceverne gli omaggi (e magari in separata sede qualche donazione per la Leopolda).
Quanto al problema dell’identità del Pd, Renzi ha avuto sì il merito di mandare in soffitta tutto il ciarpame del sinistrismo postcomunista che soffocava il suo partito, ma non ha capito che contemporaneamente egli doveva sostituire il vecchio con qualcosa di nuovo che comunque, però, continuasse a definire il Pd come un partito di sinistra. Ha pensato invece che un partito di sinistra dovesse qualificarsi essenzialmente come il partito alleato della modernità, laddove al contrario esso avrebbe dovuto innanzitutto criticarne i molti aspetti negativi: in modo nuovo — non pregiudiziale, certo, e indicando soluzioni nuove — ma criticandola. Un affare per nulla facile, lo so, ma dai partiti socialdemocratici una grande parte dell’elettorato si aspetta di avere questo: libertà e sviluppo, e insieme protezione ed eguaglianza. Sicché è necessario farle vedere che è precisamente in questa direzione che ci si muove, altrimenti è facile che essa si rivolga alle ricette dei demagoghi. Al leader di un partito di sinistra una base personale adeguata di conoscenze e di riflessioni serve per l’appunto a capire, a cercare di capire, come si fa. E dovrebbe servire anche a parlare facendo discorsi veri piuttosto che infilando una sequela di battute più o meno felici.
Matteo Renzi appare oggi chiuso in un rancoroso silenzio, intento quasi, si direbbe, a pregustare il sapore della sua futura vendetta contro i nemici interni ed esterni. Ma così ancora una volta egli sbaglia i tempi: ritirandosi sotto la tenda fa oggi quello che semmai avrebbe dovuto fare — ma per sua disgrazia non ha fatto — dopo la sconfitta referendaria. Sbaglia, io penso, perché il suo momento di parlare è proprio ora. Ora è il momento di mettersi totalmente in gioco. Ora è il momento di mostrare di aver capito dagli errori commessi, di mostrare di voler cambiar strada, di indicare con l’energia e il temperamento che egli possiede verso quali nuovi modi d’essere e di pensare il Partito democratico deve muoversi. Ora è il momento di dire se esso vuole o no tornare nuovamente a presidiare i territori sociali e geografici del Paese che ha abbandonato a se stessi e ai più screditati notabili. Per Renzi il finale di partita non è per domani, è per oggi: prima che in un modo o nell’altro, sotto l’incalzare degli eventi e per la pochezza dei vertici del Nazareno, avvenga lo scompaginamento definitivo del suo partito, il virtuale rompete le righe della Sinistra italiana.

Corriere 3.4.18
Pd, nuova frattura sul governo «di tregua» Crescono i disponibili ma Renzi si oppone
di Maria Teresa Meli


ROMA È un Pd quanto mai diviso quello che si prepara all’incontro di giovedì prossimo con il capo dello Stato. La delegazione del Partito democratico dopodomani salirà al Colle per le consultazioni con un’unica posizione ufficiale, benché declinata con diverse sfumature, ma sarà al prossimo, inevitabile, giro di incontri al Quirinale che i dem si spaccheranno.
E la rottura non sarà su «governo con i grillini sì, governo con i grillini no», perché tutti al Nazareno sanno che un esecutivo di quel tipo non avrebbe futuro, anche con l’apporto di Liberi e uguali, perché a Palazzo Madama i numeri sarebbero troppo risicati. Su questo convergono la maggior parte dei leader del Pd.
La divisione in realtà riguarda un altro futuribile scenario. Lo si capisce chiaramente da un discorso che l’altro giorno Dario Franceschini ha fatto ai suoi: «Ragazzi non scherziamo, a me non passa per l’anticamera del cervello di proporre l’appoggio esterno a un governo con il Movimento cinquestelle o, peggio, di pensare di entrare in un esecutivo con i grillini. Sarebbe come fargli un favore...». Già, perché il ministro dei Beni culturali, come, del resto, anche Walter Veltroni, che pare stia promuovendo un appello di intellettuali mirando proprio allo stesso obiettivo, puntano piuttosto a un governo «con tutti dentro» sotto la regia del Colle. Ma, ed è questo il vero discrimine, Renzi non sarebbe disponibile nemmeno a un’ipotesi di questo tipo. «Noi — si è lasciato sfuggire l’ex segretario con qualche fedelissimo — dovremmo stare all’opposizione anche in quel caso».
E non per partito preso. Secondo Matteo Renzi infatti il Pd dovrebbe avere il tempo e il modo di elaborare il lutto e di ritrovare lo slancio perduto. E un governo di «scopo», o di «tregua» che dir si voglia, lo impedirebbe. Anzi, costringerebbe i dem «all’immobilismo» per un malinteso senso di responsabilità.
«Dobbiamo costruire una forza liberale e riformista che, partendo dal Partito democratico, allarghi il campo, andando oltre il Pd. Questa è la nostra sfida, non quella di un esecutivo purchessia»: è la spiegazione che viene data dall’entourage di Renzi per motivare l’ostilità nei confronti di qualsiasi ipotesi di governo.
Il Pd perciò sembra destinato irrimediabilmente a spaccarsi. E la lotta intestina per decidere chi sarà il futuro segretario è un’altra faccia della medaglia di questo travaglio interno.
Perciò la divisione passa anche per la scelta della data in cui svolgere l’Assemblea nazionale. I renziani la vorrebbero a giugno, dopo la tornata elettorale delle Regionali e delle Comunali, per avere il tempo di trovare il candidato alla segreteria. Sarà Debora Serracchiani o Matteo Richetti? Nell’area che fa riferimento all’ex presidente del Consiglio ci sono i sostenitori dell’una e dell’altra ipotesi e non è ancora stata presa una decisione definitiva a riguardo. Soprattutto, non l’ha ancora presa il leader. Motivo in più per rinviare l’Assemblea inizialmente prevista ad aprile. Ma tutti i leader del «correntone» filo-governo (da Franceschini a Orlando, passando per Gentiloni e Veltroni) spingono invece per accelerare i tempi e confermare Martina alla segreteria, nella convinzione che il reggente, impegnato in un’estenuante mediazione interna, riuscirà a far prevalere la linea del dialogo e del sì all’esecutivo di «scopo» contro quello che definiscono «l’autismo» renziano.

Repubblica 3.4.18
Il Pd e l’anima smarrita
di Roberto Esposito


Il secondo partito italiano ha il dovere di ricominciare a pensare», scrive Mario Calabresi nell’editoriale che ha aperto il dibattito sul destino del Pd, nel momento forse più difficile della sua storia. Per farlo è necessario partire da un dato oggettivo. Tutti i sistemi politici, anche quelli tendenzialmente proporzionali, tendono alla fine a disporsi in forma binaria. Ciò nasce da una spinta che attiene alla forma stessa della politica. Anche i sistemi tripolari, dopo il voto, arrivano a un punto in cui è inevitabile scegliere tra due alternative opposte. Si tratta di decidere dove situare la linea di divisione lungo la quale i tre poli si aggregano. Il recente esito elettorale propone al Pd due soluzioni possibili. Benché la sua scelta debba necessariamente tenere conto di quella degli altri due poli — cioè del centrodestra e dei 5stelle — sarebbe deleterio che il Pd restasse inattivo, sperando nel fallimento degli altri, senza lavorare per una delle due soluzioni che si aprono.
La prima è quella di collocarsi decisamente all’opposizione, spingendo di fatto gli altri due poli ad aggregarsi, o addirittura sperando che ciò avvenga. È la linea inizialmente scelta dal gruppo dirigente e, nonostante alcune turbolenze interne, ancora in piedi. È difficile negare che essa abbia più di una ragione. Intanto di coerenza con la lunga campagna elettorale che ha contrapposto il Pd sia al centrodestra sia, ancora di più, ai 5stelle. Ma anche di strategia. La sconfitta, se elaborata e compresa nelle sue motivazioni, può avere un effetto costituente. L’opposizione consente a una forza politica battuta di riorganizzarsi anche in base alle prevedibili difficoltà di chi va al governo. Tuttavia questa scelta ha un doppio prezzo. Da un lato quello di lasciare il Paese, per così dire senza combattere, a forze giudicate irresponsabili. Dall’altro il prezzo di collocarsi stabilmente dalla parte dell’establishment — precisamente quella che l’elettorato ha punito con il voto.
L’altra possibilità, per il Pd, è di cercare di rompere il fronte populista, appoggiando un polo — quello dei 5stelle contro l’altro. Anche in questo caso con alcune ragioni evidenti. Non solo il Pd ha maggiori punti in comune con il movimento di Di Maio che con il centrodestra. Ma in questo modo si ricostituirebbe una sorta di bipolarismo tra sinistra e destra, che spingerebbe quest’ultima all’opposizione. Ma anche in questo caso gli svantaggi non mancano. Intanto la destra, sola all’opposizione, potrebbe continuare a crescere. Ma soprattutto il Pd finirebbe per porsi a rimorchio della forza che lo ha sconfitto, scolorendo un’identità già sbiadita. Agirebbe come una sorta di freno rispetto al programma più radicale dei 5stelle, acquisendo un ruolo moderato, certo non destinato a rafforzarlo.
E allora? A quale direzione rivolgersi? L’unica scelta non controproducente è quella di rafforzare la propria identità, attraverso un’analisi di fondo dei motivi della sconfitta. Ciò non è possibile che attraverso un congresso veramente rifondativo. Con un doppio obiettivo. Quello di definire una forza di sinistra di forte impegno europeo e quello di fare opzioni precise all’interno della società italiana. Con la consapevolezza che questa non è un tutt’uno. Che è attraversata da interessi diversi e spesso contrapposti. Rispetto ai quali bisogna schierarsi. Facendo ciò che avrebbe dovuto fare da tempo: battersi a fondo contro le ineguaglianze crescenti, da un lato aumentando il sostegno alle fasce sociali più deboli, dall’altro proponendo un sistema di tassazione fortemente progressivo. Esattamente il contrario della tassa piatta.

Il Fatto 3.4.18
Contro la politica degli analfabeti
I critici gli chiedevano: perché tanto accanimento contro Berlusconi? La sua risposta era che c’è liberalismo soltanto quando potere economico e potere politico sono nettamente separati - Giovanni Sartori, 1924 - 2017
di Gianfranco Pasquino


Nella sua brillante introduzione alla Antologia di scienza politica da lui curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Giovanni Sartori affermava senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di “analfabetismo politologico”.
I suoi bersagli erano chiari: democristiani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro ingloriosa scomparsa. I democristiani irritavano Sartori per la loro accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto formalistica e per l’incomprensione dei meccanismi della politica, a cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti rimproverava, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci, inadeguata alla comprensione di tematiche come la Costituzione e lo Stato. Soprattutto, però, la critica che valeva per entrambi riguardava in particolare il cattivo uso dei concetti e la manipolazione talvolta persino inconsapevole che ne facevano gli intellettuali di entrambi i partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà degli anni ‘50, in chiave e con obiettivi parzialmente diversi, sia Norberto Bobbio (Politica e cultura, Einaudi 1955) sia Sartori (Democrazia e definizioni, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmente la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo fino all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara testimonianza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò ripetutamente, anche in polemica con il provincialismo di troppi studiosi, che parlavano dell’Italia Dc-Pci come di un’anomalia positiva, che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica sostanzialmente italiana anche se divenne un critico severissimo e agguerritissimo di tutte le riforme elettorali e istituzionali italiane che, uomini (e donne) privi di cultura politologica e politica, hanno fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescindibili, ma Sartori teneva molto a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria costituzionale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e Homo videns (Laterza 2000).
Ogniqualvolta, specialmente nei pungentissimi editoriali per il Corriere della Sera (variamente raccolti Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era sempre quella relativa alle conseguenze prevedibili di interventi, mutamenti, trasformazioni nel sistema, nei partiti, nella leadership, nelle leggi elettorali. Spiegazioni e/o teorie probabilistiche erano i ferri del suo mestiere: “Se cambiano le condizioni a, b, e c allora è probabile che cambino le conseguenze x, y, z”. Certo, discutere con chi di volta in volta produceva spiegazioni ad hoc, spesso tanto particolaristiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.
Spariti i suoi interlocutori democristiani e comunisti i quali, almeno, avevano letto qualche libro e talvolta s’interrogavano effettivamente su riforme e conseguenze, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i conti con analisti e politici improvvisati. Il liberale che era in lui colse immediatamente l’incongruenza di una rivoluzione liberale di cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e interprete un imprenditore duopolista (nell’importantissimo settore della comunicazione, in particolare televisiva), un imprenditore che (af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi. Perché mai questo accanimento contro Berlusconi, si chiesero molti commentatori, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era semplice, lineare, inoppugnabile: liberalismo c’è quando potere economico e potere politico sono e, nella misura del possibile, rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere economico non si può consentire di conquistare il potere politico. Il conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si era per tempo schierato contro la partitocrazia ovvero quella situazione nella quale il potere politico, più precisamente dei partiti, si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.
Il liberalismo di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali quando garantiscono effettiva rappresentanza politica agli elettori. Dai buoni sistemi elettorali viene buona rappresentanza che esige nella maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal 1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamentari si sentissero maggiormente responsabili nei confronti dei dirigenti di partito, dei gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmente, empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi elettorali che consentano ai parlamentari di essere effettivamente e essenzialmente responsabili nei confronti degli elettori. A Sartori è stato risparmiato l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che avrebbe fatto notare che i premi di maggioranza Italicum-style c’entrano con la buona rappresentanza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più, della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisco niente che non si possa trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare fior fiore (sic) di riformatori e di commentatori, neanche analfabeti di ritorno, perché mai alfabetizzati, sostenere la necessità di un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è multipartitico), poi se ne valuta il consolidamento, molto limitato, infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittivi sui partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di favorire o svantaggiare qualsivoglia partito.
Alla morte di Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla Rivista Italiana di Scienza Politica (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere, insegnare, e anche partecipare alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere sia di condividere queste parole sia di aggiungere nel primo anniversario della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici degli ultimi cinquant’anni.

Repubblica 3.4.18
Bucchi
Il commento
Come curare l’ansia demografica
di Giancarlo Bosetti


Non è nuova la sensazione che una politica illuminata, generosa con i profughi e i migranti, in linea con la globalizzazione, europeista, culturalmente cosmopolita ed espressa con linguaggio sobrio stia diventando un genere di lusso, come il tonno a pinna blu o il tè verde da 3000 dollari al chilo. La storia non è nuova, ha radici ormai lunghe — il conio « radical- chic», di Tom Wolfe, compirà tra poco cinquant’anni –, ma ora ha raggiunto vertici spettacolari. Il distacco dei leader riformisti e democratici, non solo di sinistra, da gran parte del popolo, che una volta sapevano rappresentare, identificandosi emotivamente con loro, pur appartenendo ad élites assai distanti dalla gente comune — da Churchill a Mitterrand, da Brandt a Obama — si è compiuto. Oggi John F. Kennedy farebbe più fatica a vincere le elezioni con un Salvini americano di quanta già ne fece con Nixon, figlio di un benzinaio.
Il nuovo paesaggio politico non è poi una sorpresa così stravagante. Anomalo è il fatto che il «trend populista» o « sovranista » , non abbia incontrato resistenze. Eppure, mai avversari politici hanno giocato così allo scoperto senza nulla nascondere delle loro intenzioni. Perché, allora, l’impotenza che ha afflitto per esempio negli Usa i Democratici, ma anche i Repubblicani, come in Italia il Pd, ma anche quel che resta di una disastrata Forza Italia? L’impotenza riguarda anche i liberal dell’Est Europa e della Gran Bretagna. La Francia ha messo per ora uno stop al « trend » , ma, attenzione, era sulla stessa china: al primo turno l’anno scorso Macron con 8,7 milioni era solo di una incollatura sopra Marine Le Pen (7,6) seconda: un piccolo margine dal grande precipizio.
Di fronte alle grida contro la globalizzazione, contro l’Europa, contro i migranti, messicani o musulmani, di fronte a proclami in difesa della «razza bianca», che cosa ha impedito agli altri di far valere parole più ragionevoli? Che cosa ha prodotto quella frattura che li ha buttati fuori dalla gara?
Nessuno ha il monopolio di questa risposta e tante ne sono già state fornite. Un brillante studioso israeliano ora all’università europea di Firenze, Liav Orgad, ha una risposta interessante da proporre: i leader liberal non hanno saputo farsi partecipi dell’ansia di milioni di persone per gli sconvolgimenti in corso: guerre, disoccupazione, rifugiati, migrazioni, non hanno saputo indossare un « noi » , in cui molti si potessero riconoscere, perché sono affetti da automatismi, in base ai quali sembra che per loro siano rilevanti esclusivamente i diritti delle minoranze — che sono davvero sempre un test fondamentale di libertà -, e che impediscono loro anche solo di parlare dei «diritti della maggioranza » . Eccolo il concetto tabù, per gli avversari del trend ora in auge. In tempi tranquilli « le maggioranze fanno da sé» e possono essere, anzi, pericolose per chi non ne fa parte. Ma le società occidentali stanno attraversano una crisi di rilevanza storica nei rapporti tra vecchie maggioranze dominanti e grandi comunità di immigrati (Stati Uniti) e nel declino senza precedenti della popolazione residente che la rende dipendente dall’immigrazione (Europa). Questi mutamenti hanno effetti destabilizzanti e ansiogeni che riguardano la vita quotidiana e alimentano la simpatia per i politici che catturano l’ansia. Che tra i fattori obiettivi e la percezione del fenomeno si inserisca il processo sistematico di « esagerazione » del problema, insieme alle provocazioni razziste, non migliora le cose, al contrario le complica perché la reazione, specie ai piani alti della società, dove l’ansia è molto minore, si carica anche di indignazione e disprezzo. E i dati di fatto che giustificano una certa «ansia demografica» passano in secondo piano.
Negli Stati Uniti questi fattori obiettivi sono imponenti. Le previsioni secondo le quali le riforme dell’immigrazione del 1965 negli Usa non avrebbero alterato radicalmente la struttura della popolazione sono state smentite dai fatti; gli ispanici erano il 9% dei nati all’estero nel 1960 e ne rappresentano ora più della metà. Sul totale della popolazione saranno il 30% alla metà del secolo. Si capisce che attaccando Hillary Clinton, come una liberal capace di celebrare la varietà del popolo americano e incapace di celebrare la sua unità ( come invece Obama), Trump ha avuto buon gioco, ovviamente non a New York e Los Angeles ma negli Stati determinanti per il suo successo. L’ha battuta con una frase: «Noi siamo un popolo che parla inglese non spagnolo» e con una caricatura: il suo volto circondato di parole spagnole.
Nel suo The Cultural Defense of Nations (Oxford, 2015) Orgad, uno che rifiuta, sia chiaro, le politiche illiberali dell’immigrazione, spiega che anche in Europa il mutamento demografico a causa dell’invecchiamento e della vicinanza con la polveriera africana alimenta una comprensibile « ansia demografica » , che certamente tocca la popolazione più povera, e che sta diventando il motore (inquinante) di tutta la politica europea, anche se non è altrettanto vistoso come in America o in Israele: qui la crescita degli ortodossi e degli arabi, cui si aggiunge, come in Europa, l’emigrazione africana, proveniente soprattutto dalla crisi del Darfur, ma non solo, via Egitto, fa presagire un futuro di ulteriori conflitti. Israele fa valere — d’intesa con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati — un diritto a tutelare la propria società respingendo migranti, in questo caso né ebrei né palestinesi. Ed ecco che compare quel “diritto della maggioranza” — dei cittadini residenti — che in una concezione liberale delle nazioni e degli Stati, e in una gestione sostenibile dell’emigrazione, non può rimanere un tabù impronunciabile neanche per i paesi europei.
Il recupero di un riformismo democratico sarà opera lunga e deve affrontare il problema con chiarezza. La legislazione sulla cittadinanza, una prova che l’Italia ha ripetutamente fallito, e il governo dell’immigrazione sono passaggi che possono ridefinire l’identità costituzionale di un popolo e un test formidabile per la ricostruzione di uno scenario politico democratico.

il manifesto 3.4.18
Netanyahu si accorda con l’Onu e manda i rifugiati fuori da Israele
Richiedenti asilo. Anche l'Italia dovrebbe accoglierne una parte ma la Farnesina dice di non saperne nulla. Lega e Forza Italia insorgono
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Siamo felici che ci siano tanti Paesi pronti ad accoglierci e che Netanyahu abbia ‎fermato le espulsioni. Non saremo più rimandati in Africa a rischio della vita e ‎non fineremo in prigione in Israele. Però si parla solo di concessione di residenze ‎e di permessi di lavoro e non di riconoscimento dell’asilo. Un giorno Israele ‎potrebbe cambiare idea e mandarci tutti via». Michael Taklit, rifugiato e attivista ‎eritreo, da anni nella zona meridionale di Tel Aviv nota come “piccola Africa”, ci ‎spiega lo stato d’animo nella sua comunità dopo l’intesa tra Israele e l’Alto ‎commissariato dell’Onu che vedrebbe diversi Paesi, tra i quali, pare, Canada, ‎Germania e Italia, pronti ad accogliere nei prossimi cinque anni ‎una parte dei ‎richiedenti asilo africani ora nello Stato ebraico. Felicità e dubbi anche tra i ‎sudanesi che rappresentano il 20% dei circa 38mila richiedenti asilo africani ai ‎quali il governo israeliano a gennaio aveva offerto solo due possibilità: ritornare ‎in Africa prima del 1 aprile o finire in prigione.
 ‏‎«Le perplessità sono comprensibili perché nessuno ha un’idea chiara delle ‎misure che il governo varerà per regolarizzare la posizione dei rifugiati, l’asilo ‎comunque resta l’obiettivo di chi resterà in Israele», dice Tamar, una degli attivisti ‎israeliani che assieme ad intellettuali, scrittori, accademici, sopravvissuti ‎all’Olocausto e centri per i diritti umani si sono battuti contro le deportazioni degli ‎africani verso il Ruanda e l’Uganda. A spingere Netanyahu verso l’intesa con le ‎Nazioni Unite è stata proprio la retromarcia di Kigali e Kampala dopo l’iniziale ‎disponibilità che avevano dato ad accogliere gli espulsi da Israele. E un passo ‎indietro sembrano farlo anche Germania e Italia che ieri sera hanno fatto sapere di ‎non aver ricevuto alcuna richiesta da parte di Israele o dell’Onu per accogliere i ‎rifugiati. ‎«Non c’è alcun accordo con l’Italia nell’ambito del patto bilaterale tra ‎Israele e l’Unhcr per la ricollocazione, in cinque anni, dei migranti che vanno in ‎Israele dall’Africa e che Israele si è impegnata a non respingere‎‎», hanno ‎comunicato funzionari della Farnesina. Prima erano intervenuti il leghista ‎Calderoli e il forzista Gasparri. Il primo è stato molto chiaro: ‎«Non se ne parla ‎neppure di prenderci una quota dei 16mila clandestini africani che Israele sta per ‎espellere dal suo territorio…Appena si insedierà il nuovo governo rimanderà a casa ‎loro, rimpatriandoli, tutti i clandestini, altro che accogliere quelli espulsi da ‎Israele‎». Il secondo, premettendo che lui sta sempre dalla parte di Israele, ha detto ‎di aver letto ‎«sbigottito» che l’intesa coinvolge anche l’Italia. ‎«Bisogna opporsi e ‎anzi chiedere che altri prendano profughi approdati in Italia. Il Parlamento dica no ‎subito‎», ha aggiunto Gasparri tirando il ballo quanto è avvenuto a Bardonecchia ‎che a suo dire avrebbe messo ‎«a nudo la catastrofe dell’Italia colabrodo, paradiso ‎dei clandestini che i nostri confinanti non vogliono a casa loro».‎
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Netanyahu però sa il fatto suo. Durante la conferenza stampa assieme al ‎ministro dell’interno Arie Deri, ha detto che oltre 16mila sudanesi ed eritrei ‎andranno in ‎Paesi occidentali (6.000 il primo anno) mentre gli altri ‎‎16mila ‎resteranno in Israele in qualità di “residenti permanenti”. Otterranno visti ‎di ‎lavoro e saranno destinati verso località ‎«dove potranno rendersi ‎utili‎». ‎«Saremo noi ‎a decidere dove vivranno e dove lavoreranno‎» ha aggiunto da ‎parte sua Deri confermando che i rifugiati saranno portati in varie aree di Israele, ‎probabilmente quelle meridionali, e allontanati dai quartieri poveri di Tel Aviv, ‎come il governo aveva promesso. Netanyahu, per placare il disappunto di chi ‎chiedeva la deportazione di tutti i “clandestini”, ha preparato un piano di sviluppo ‎e riabilitazione della periferia sud di Tel Aviv che, istigata dalla destra più ‎radicale, si è sollevata in diverse occasioni contro la presenza di migliaia di ‎africani.
L’intesa con l’Unhcr ieri sera non era ancora nota in tutti i particolari ma da ‎quello che si è saputo a lasciare Israele per l’Europa e l’America del Nord saranno ‎con ogni probabilità gli eritrei single, che più di altri hanno (invano) chiesto in ‎tutti questi anni di essere riconosciuti come rifugiati politici. Israele è tra i Paesi ‎con il minor numero di riconoscimenti dell’asilo politico. Netanyahu ha sempre ‎negato che eritrei e sudanesi abbiamo cercato rifugio in Israele per scappare dalla ‎guerra o per sfuggire regimi oppressivi. Per il suo governo sarebbero solo dei ‎migranti alla ricerca di lavoro che peraltro, con la loro presenza, minacciano il ‎carattere ebraico del Paese. Ad ostacolare i piani del premier è stata anche la Corte ‎suprema che il mese scorso aveva congelato le espulsioni.‎

Il Fatto 3.4.18
Italia e Germania, stop al blitz di Netanyahu
Il premier israeliano costretto alla retromarcia dopo aver annunciato l’intesa per il trasferimento di 16000 africani
di Roberta Zunini

Benjamin Netanyahu annuncia l’accordo con l’Onu per ricollocare 16.250 migranti africani in Italia, Germania e Canada. E invece no. L’accordo non c’è e la diplomazia israeliana si deve arrabattare a spiegare che le parole del premier erano solo “a esempio”. “Non c’è alcun accordo con l’Italia nell’ambito del patto bilaterale tra Israele e l’Unhcr per la ricollocazione, in 5 anni, dei migranti che vanno in Israele dall’Africa e che Israele si è impegnata a non respingere”. Anche l’ambasciata israeliana a Roma ha fornito al Fatto la stessa versione aggiungendo che “Il primo ministro ha sì menzionato l’Italia, ma solo come esempio”. Esempio non campato in aria tuttavia, perché basato sulla consapevolezza che numerosi rifugiati eritrei e sudanesi finora minacciati di espulsione da Israele hanno parenti in Italia. “Siccome le autorità israeliane conoscono tutto dei richiedenti asilo, sanno che alcuni di loro hanno congiunti in Italia e che, pertanto, potrebbero in futuro chiedere l’applicazione della procedura di ricongiungimento o essere inseriti nei ‘corridoi umanitari’ che si potrebbero aprire tra Israele e il nostro paese. Ma per ora non vi è alcun accordo ufficiale in questo senso. Solamente previo accordo con il governo italiano potrebbero arrivare in Italia alcuni rifugiati provenienti da Israele. Si tratta in sostanza di pochissimi e specifici casi”, ha chiarito Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Unhcr. Anche il ministero dell’Interno tedesco ha assicurato di “non essere a conoscenza di una richiesta concreta relativa a una presa in carico di rifugiati che vivono in Israele, in particolare originari di Paesi africani”.
Subito dopo la Pasqua ebraica, che quest’anno è coincisa con quella cristiana, sarebbero dovute scattare le prime espulsioni di “infiltrati” (termine ufficiale con cui vengono bollati dal governo di Israele i richiedenti asilo, anche quelli come gli eritrei e i sudanesi che fuggono da una brutale dittatura e dalla guerra civile) verso paesi terzi “sicuri”. Fino a questo accordo con l’Unhcr, per il governo Netanyahu erano paesi terzi sicuri il Rwanda e l’Eritrea con cui era stato stretto un patto della serie “rifugiati in cambio di soldi”. Peccato che molti intellettuali e numerosi sopravvissuti alla Shoah, così come molte organizzazioni non governative ebraiche hanno mostrato nei mesi scorsi la totale inadempienza di questo patto – sempre negato dai contraenti – da parte dei paesi africani in questione.
La dichiarazione di Netanyahu che ha fatto infuriare Lega e Forza Italia, annunciava il raggiungimento di un’intesa con l’Onu in base alla quale Israele cancella il controverso piano per l’espulsione di migranti africani e ne invierà oltre 16mila in Paesi occidentali. Netanyahu aveva aggiunto: “Questo accordo permetterà di trasferire da Israele 16.250 migranti verso Paesi sviluppati come Canada, Germania e Italia”.
Per ora la questione è solo rimandata. Se c’è una certezza in questo mistero pasquale è che Netanyahu troverà comunque il modo di espellere i profughi maschi e single, ovvero la maggioranza, per rimanere in alto nei sondaggi sulle intenzioni di voto in vista degli sviluppi dei suoi guai giudiziari e per, possibilmente, ripresentarsi alle elezioni l’anno prossimo. La società civile israeliana è coesa con il primo ministro sulla volontà di sbarazzarsi dei giovani immigrati che vivono accampati soprattutto attorno alla stazione degli autobus e nella zona sud di Tel Aviv.

La Stampa 3.4.18
Israele blocca il rimpatrio dei p rofughima sfiora l’incidente diplomatico
Il premier Netanyahu annuncia l’invio di eritrei e sudanesi in Europa e Canada poi fa marcia indietro: non indicavo Stati specifici, erano solo degli esempi
di Giordano Stabile


Benjamin Netanyahu annuncia un accordo «senza precedenti» per il ricollocamento dei migranti africani da Israele verso «Paesi occidentali» ma sfiora l’incidente diplomatico con Italia e Germania, che smentiscono di aver approvato il trasferimento. Il colpo a sorpresa del premier israeliano arriva nel primo pomeriggio di ieri, quando in una conferenza stampa da Gerusalemme, spiega di aver trovato una soluzione per il problema.
Sono i oltre 40 mila gli eritrei e i sudanesi arrivati nello Stato ebraico fra il 2005 e il 2012 dopo aver attraversato senza autorizzazione la frontiera con l’Egitto. Il governo aveva prima trovato un accordo con due Stati africani amici, Ruanda e Uganda, che avevano accettato di accoglierli. Ma erano piovute critiche sia interne, da parte della sinistra e del mondo delle Ong, sia internazionali, perché quelle persone, considerate «immigrati economici», erano in fuga da Paesi devastati da guerre civili e dittature.
L’Alta corte aveva poi bloccato, con una misura temporanea, i respingimenti. Anche se il no all’immigrazione illegale incontra il favore della maggioranza degli israeliani, Netanyahu ha capito che il caso poteva trasformarsi in un boomerang politico. Ha avviato colloqui riservati con l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, l’Unhcr, e delineato un piano completamente diverso. Nella conferenza stampa ha poi precisato che 16.250 migranti sarebbero stati inoltrati verso Paesi occidentali «nell’arco di cinque anni», mentre altri circa 16 mila sarebbero potuti restare in Israele «con visti di lavoro, in località dove potranno rendersi utili». Fra le destinazioni finali Netanyahu citava «Italia, Germania e Canada».
Un dettaglio che innescava la reazione dell’Italia, non al corrente. In una nota la Farnesina ribatteva che non esisteva «alcun accordo con l’Italia nell’ambito del patto bilaterale tra Israele e Unhcr per la ricollocazione dei migranti». Anche la Germania smentiva. Poco dopo arrivava la precisazione dell’ufficio del premier israeliano che spiegava come «l’Italia era solo un esempio di una nazione occidentale» e che il primo ministro «non intendeva in modo specifico» il nostro Paese. L’accordo, in realtà, prevede che l’Unhcr lavori a livello diplomatico con interlocutori europei e americani per trovare destinazioni consone, in piccoli numeri, visto che il trasferimento dovrebbe avvenire in cinque anni.
La questione non è quindi ancora risolta, anche perché alle obiezioni internazionali si è aggiunta la fronda interna da parte della destra del Likud e dei partiti conservatori della coalizione, e il premier, in tarda serata, ha detto che l’accordo «era sospeso» e sarebbe stato sottoposto a ulteriori valutazioni. L’immagine di Netanyahu, già in difficoltà per gli scandali e le inchieste della magistratura, ne esce offuscata. Un successo su questo fronte serviva anche a risollevare il governo dopo i fatti di Gaza, l’uccisione dei 17 manifestanti palestinesi che ha attirato critiche da molti Paesi per l’uso eccessivo della forza. Ora il respingimento dei migranti verso l’Africa non è più praticabile, come ha ammesso lo stesso premier. L’opposizione l’ha condannato come «immorale», una macchia per Israele, terra di accoglienza per gli immigrati ebrei fin dalla sua nascita. A Tel Aviv, in questi mesi, si sono tenute manifestazioni di protesta, mentre centinaia di medici, accademici, sopravvissuti all’Olocausto, scrittori e rabbini hanno firmato appelli.
I migranti africani sono arrivati in Israele a partire dal 2005, dall’Egitto, quando il governo del Cairo ha represso una loro protesta. Eritrei e sudanesi hanno visto nello Stato ebraico un rifugio sicuro e opportunità di lavoro. Oltre quarantamila hanno attraversato la frontiera lungo il Sinai, porosa e difficile da controllare, finché nel 2012 la costruzione di un muro lungo il confine ha ridotto gli ingressi a poche decine l’anno. Restavano però i circa 40 mila già arrivati, quasi tutti concentrati nei quartieri popolari di Tel Aviv, con impieghi precari, spesso costretti a dormire per strada. Ma il miraggio di una nuova vita in Europa è durato lo spazio di qualche ora.

Corriere 3.4.18
«Gli eritrei torturati a casa, invisibili a Tel Aviv»
di Marta Serafini


«In Sinai sono stati compiuti tra i crimini più gravi contro l’umanità, smettiamola di parlare di reinsediamenti e usiamo la parola più corretta: deportazioni». La dottoressa Alganesh Fessaha, 62 anni, fondatrice della Ong Ghandi, ha visto da vicino l’orrore vissuto dai rifugiati eritrei in Israele e, per salvarli (ne ha liberati migliaia), ha rischiato lei stessa la vita.
Dei 38 mila migranti presenti in Israele, 28 mila sono eritrei. Da cosa scappano?
«In Eritrea la dittatura di Isaias Afewerki, al potere da 25 anni, impone il servizio militare a uomini e donne. I giovani se ne vanno perché non vogliono trasformarsi in schiavi, oltre che per la mancanza di cibo e lavoro».
Lei ha denunciato e documentato gli abusi subiti dalla sua gente nel Sinai. Cosa accadeva a chi tentava di entrare in Israele?
«Ogni tipo di tortura e di orrore. Una volta passati in Sudan i migranti finiscono nella rete dei passeur beduini. A chi è in grado di pagare vengono chiesti duemila euro, poi donne, uomini e bambini, passano di mano in mano, anche 5 volte. E ad ogni passaggio vengono torturati, affinché chiedano ai familiari rimasti a casa di pagare i riscatti. Ho sentito di persona le telefonate e le grida di dolore, ho ascoltato i racconti delle torture con la plastica fusa, dei capelli dati alle fiamme con il kerosene, le botte e la privazione di cibo e acqua. Le assicuro, sono parole che non si dimenticano. Le donne e i bambini vengono violentati anche 5 o sei volte al giorno. A chi non è in grado di pagare vengono espiantati gli organi. I corpi di chi non ce l’ha fatta sono stati abbandonati nel deserto senza nessuna sepoltura».
Che tipo di vita hanno gli eritrei che vivono in Israele?
«Vivono per lo più nella zona sud di Tel Aviv. Sono invisibili, non hanno diritto all’assistenza sanitaria, fanno lavori umili e spesso finiscono in galera. La maggior parte delle donne cade nel traffico della prostituzione. Stessa sorte subiscono i minori non accompagnati. E non mancano i casi di discriminazione e di violenza (nel 2016 un ragazzo è morto dopo che gli hanno dato fuoco)».
Il programma di Netanyahu prevedeva il ricollocamento in Ruanda e Uganda... .
«È tragicamente ironico che Paesi come Israele e il Ruanda le cui popolazioni hanno conosciuto il genocidio si accordino per deportare migliaia di persone. Con il Ruanda sono stati fatti accordi in cambio di armi senza tenere conto delle sofferenze già subite da queste persone. Ma va ricordato come i giovani israeliani siano scesi in piazza per protestare contro queste deportazioni».
Chi è stato rimandato in Ruanda e Uganda ci rimane? «No, la maggior parte ritenta il viaggio, magari provando la rotta libica verso l’Italia».

il manifesto 3.4.18
Già 151 vittime da inizio anno: «Fermare la strage del lavoro»
Infortuni. A Treviglio due operai sono morti nel giorno di Pasqua. A ucciderli è stata un'esplosione, come è accaduto recentemente a Catania e a Livorno: tre episodi simili nel giro di poche settimane. I sindacati: aumentare gli investimenti e la formazione
di Antonio Sciotto


Con i due operai morti alla Ecb di Treviglio – l’esplosione del deposito di mangimi nel giorno di Pasqua – salgono a 151 le vittime sul lavoro registrate nei primi mesi del 2018. Non è ancora un bilancio ufficiale, i dati vengono dall’Osservatorio indipendente di Bologna, che da dieci anni monitora gli infortuni mortali. I sindacati chiedono «maggiori investimenti, più formazione, una strategia nazionale di contrasto», e dedicheranno alla «strage silenziosa» il prossimo Primo maggio.
IL NUMERO DI 151 È notevolmente superiore rispetto alle 113 vittime registrate nello stesso periodo del 2017. E il trend negativo potrebbe proseguire per tutto l’anno, se non si interverrà in qualche modo: l’anno scorso i morti sui luoghi di lavoro, sempre secondo l’Osservatorio di Bologna, sono stati 632. Con 20 vittime è il Veneto la regione che conduce la tragica classifica, seguono la Lombardia e il Piemonte. Milano, con 8 decessi, è la provincia che ha registrato più vittime; subito dopo vengono due province venete, Treviso e Verona, con 7 morti.
In genere il tema riconquista le cronache quando avvengono i cosiddetti «incidenti multipli», con più di una vittima: nel 2018, con l’esplosione alla Ecb, siamo già a tre episodi di questo tipo. Peraltro a distanza di poco tempo l’uno dall’altro: il 20 marzo hanno perso la vita due vigili del Fuoco a Catania, mentre il 28 marzo due lavoratori sono morti nel porto di Livorno. L’1 aprile, domenica di Pasqua, è toccato agli operai trevigliesi.
I due vigili del fuoco catanesi, Dario Ambiamonte e Giorgio Grammatico, sono morti in un appartamento nel centro storico di Catania. Altri due loro colleghi sono rimasti gravemente feriti. La squadra dei pompieri era intervenuta in via Garibaldi in seguito alla segnalazione di una fuga di gas. Prima ancora di poter intervenire, i quattro vigili che si stavano avvicinando alla porta sono stati travolti da una violentissima esplosione. All’interno della casa è stato trovato il cadavere carbonizzato di Giuseppe Longo, 75 anni, gestore nello stesso stabile di un’officina di riparazione di biciclette: non è chiaro se abbia provocato la fuga di gas volontariamente. Gli inquirenti dovranno anche stabilire se la scintilla che ha innescato la deflagrazione non sia partita dagli stessi soccorritori, tanto che è stato indagato per disastro colposo e omicidio colposo plurimo il capo della squadra dei vigili del fuoco .
ANCHE I DUE OPERAI DI Livorno – Nunzio Viola, di 52 anni, e Lorenzo Mazzoni, di soli 25 – sono stati travolti e uccisi da una forte esplosione: dipendenti della Labromare, azienda specializzata nelle bonifiche ambientali, stavano concludendo le operazioni di svuotamento del serbatoio 62, contenente acetato di etile, nella zona industriale del porto toscano. Le pareti in cemento dell’enorme silo hanno per fortuna retto, evitando che la deflagrazione arrecasse maggiore danno non solo agli altri lavoratori presenti nella zona (due sono rimasti illesi, visto che per fortuna si trovavano più distanti), ma addirittura alla cittadinanza: come ha segnalato il sindaco Filippo Nogarin, il porto è vicino al centro abitato. La Procura ha indagato i vertici della Labromare e della Costieri Neri, la società titolare della cisterna che è esplosa.
All’interno della Ecb di Treviglio (Bergamo), industria produttrice di cibo per animali domestici, hanno perso la vita Giuseppe Legnani e Giambattista Gatti: lasciano due figli a testa. Erano stati chiamati in azienda per un sopralluogo, dopo l’allarme lanciato da alcuni cittadini che avevano sentito un cattivo odore nell’aria. Per alcune ore, dopo l’esplosione, l’accesso all’interno dello stabilimento è stato interdetto per la cospicua presenza di anidride carbonica. La Ecb, fondata nel 1966, l’anno scorso è stata acquisita dal gruppo tedesco Saria, marchio internazionale dell’agroalimentare.
TRA LE VITTIME DEGLI ultimi giorni, anche un edile di 52 anni, morto dopo essere precipitato per 4 metri da un traliccio di proprietà di Rai Way: l’incidente è avvenuto il 29 marzo a San Godenzo, nel Mugello (Firenze). L’operaio stava lavorando su un impianto Vodafone, ma era addetto di una ditta esterna.

il manifesto 3.4.18
«Il giovane Karl Marx», l’uomo, l’azione politica e il lavoro teorico
Cinema. Esce giovedì il film di Raoul Peck dedicato al filosofo tedesco, ambientato negli anni dell’incontro con Engel
di Eugenio Renzi


Esce infine in Italia, giovedì prossimo, il film di Raoul Peck su Karl Marx. Questo piccolo evento non può non intrigare il proletariato italiano. Ma che cosa ha da attendersi da un film uno spettatore di sinistra che ancora non conosce il pensiero del padre della filosofia della prassi ? La difficoltà di ogni biografo del genio di Treviri è data dal fatto che la maniera di presentare i vari aspetti della sua esistenza è inevitabilmente anche un modo di interpretare il rapporto tra la vita privata, l’azione politica e il lavoro teorico.
Ora, in un film in costume, dove l’intreccio ha tendenza a dominare la scena, il rischio è di dare la priorità al romanzo, e quindi di cadere, colore a parte, in un’operetta borghese. Rischio accentuato dalla biografia del fondatore del socialismo scientifico che, in particolare in gioventù, non manca di avventure di ogni genere.
Quando il film comincia, il redattore della «Gazzetta renana» è già sposato con Jenny von Westphalen, l’aristocratica che ha scelto la ribellione alla sua classe, sposando il figlio di un ebreo convertito. La loro storia non evolverà d’un millimetro. Il film racconta invece le circostanze dell’incontro con Engels a Parigi.
I due sono già convinti ammiratori l’uno dell’altro. Devono solo confessarselo. Per il resto, Peck, e il suo sceneggiatore Pascal Bonitzer (ex dei «Cahiers» «époque Mao» e regista a sua volta) hanno cercato di evitare lo schema classico dei biopic: l’ascesa, la disgrazia, la redenzione.
Certo, il futuro fondatore dell’Internazionale passa attraverso vari naufragi economici e politici. È sempre sull’orlo della fame, alla ricerca di qualche soldo per il pane, braccato dalla polizia, costretto all’esilio. Ma la costanza della situazione di povertà e di precarietà è un altro modo per togliere al lato dickensiano il ruolo di trazione del film e dare più spazio agli aspetti teorici.
Ma come si filma la teoria? Peck non ha voluto fare un film pedante. Ha cercato di concentrare lo specifico del pensiero di Marx in un concetto unico che irriga tutto: l’idea del conflitto.
La pellicola comincia con un gruppo di sottoproletari intento a raccogliere legna, falciati da una carica di poliziotti a cavallo. Off, risuona il ragionamento di Marx contenuto in un celebre articolo della Gazzetta Renana scritto contro la nuova legge: «Si stacca dalla proprietà ciò che è già staccato da essa… Voi infatti possedete l’albero, ma l’albero non possiede più quei rami.»
È qui, nel 1842, che Peck sceglie di far cominciare Il giovane Karl Marx. Giovane certo, ma pugnace e inflessibile, in particolar modo con i propri compagni di strada. Alcuni dei quali erano, come Proudhon, delle figure molto amate nel mondo operaio. La ferocia con la quale Marx si sbarazzò di questi suoi concorrenti è nota perché pubblica. Quello che Marx porta al movimento operaio è una solida teoria scientifica, nella quale non c’è posto per il moralismo universalista dei socialisti del suo tempo. Quest’aspetto pratico-teorico nel film di Peck fa tutt’uno con il personaggio. E in questo prende senso l’amicizia con Engels, la quale diventa rapidamente una simbiosi politica e intellettuale.
Il film si chiude con due scene che si guardano come allo specchio, quella in cui Engels impone la linea marxista al congresso della lega dei giusti fondando la lega dei comunisti, con Marx a seguire nell’ombra. E quella in cui viene redatto Il manifesto, in cui a tavola sono in quattro: con Marx al centro e gli altri tre nell’ombra: Engels, Jenny e Mary, l’operaia irlandese con la quale Engels visse fino alla morte di lei.
In questo sforzo di piegare le regole del biopic ad un’ esigenza pratico-teorica, il film è ammirevole.
Il tentativo è quello di restituire tutti i Marx: il genio, l’uomo, il suo pensiero, i suoi limiti – e il suo rapporto speciale con Jenny e con Engels. Ma il risultato è un film che sceglie di scegliere il meno possibile: evita di farsi schiacciare da un materiale potenzialmente infinito, al prezzo di addomesticarne la potenza. Se l’essenza di Marx è la lotta, bisogna dire che Il giovane Karl Marx, dal canto suo, si permette una sola audacia, un po’ tardiva e non particolarmente riuscita: un diaporama finale su Like a Rolling Stone di Bob Dylan, nel quale le parole del Manifesto accendono la miccia del ventesimo secolo e fino a noi.

La Stampa 2.4.18
Ridacci oggi il nostro Marx
A 200 anni dalla nascita, le Edizioni Lotta Comunista pubblicano in 50 volumi l’opera omnia del padre del materialismo storico e dell’amico Friedrich Engels
di Fabio Martini


Nell’approssimarsi del bicentenario della nascita di Karl Marx si sta silenziosamente avvicinando alle librerie qualcosa di mai visto prima in Italia: cinquanta volumi, undici dei quali in parte inediti, che di fatto rappresentano l’opera completa del padre del materialismo storico e del suo amico Friedrich Engels. Un’impresa poderosa, una festa per gli eruditi ma non solo per loro, perché tra gli inediti (lettere, articoli, manoscritti) affiorano tanti spunti che «parlano» anche all’oggi e al lettore meno smaliziato: dall’analisi dei partiti italiani a quella di casa Savoia, da Garibaldi al continente asiatico, individuato come fattore strategico e non visto - come usava a quei tempi - come immobile agglomerato millenario.
L’impresa è il risultato del lavoro, durato dieci anni, delle Edizioni Lotta Comunista, una casa editrice lontana dai clamori mediatici e animata, oltreché da passione monotematica, anche da una acribia filologica inattesa in un collettivo di rivoluzionari. L’editrice prende il nome da un movimento restato l’unico superstite dei tanti gruppi della sinistra extraparlamentare degli Anni Sessanta e da allora attestato su una linea di fedeltà a Marx e Lenin, di ostilità allo stalinismo e con nessuna simpatia per il castrismo e il maoismo.
Dai Savoia a Garibaldi
Un centinaio tra militanti, storici e traduttori si sono dedicati alle opere dei profeti del comunismo, in collaborazione con docenti universitari (Gian Mario Bravo e Mario Cingoli) e con l’Accademia delle Scienze di Berlino, che da anni cura l’opera omnia di Marx, dopo averlo fatto per Immanuel Kant. Un’operazione editoriale (alla fine conterà qualcosa come 35 mila pagine) che cade in un momento propizio: il bicentenario della nascita di Marx (Treviri, 5 maggio 1818) incrocia una delle cicliche riprese di interesse per il marxismo, in particolare nelle università anglosassoni. Come testimonia anche l’approdo dopodomani nei cinema di un film americano sul giovane Marx.
I volumi partono proprio dagli scritti del diciassettenne Karl, per poi dipanarsi tra un’infinità di argomenti. Sui partiti italiani di estrema sinistra Engels scrisse pennellate che colgono un elemento perenne di certa sinistra: «L’Alleanza è un ammasso di déclassés [...] avvocati senza cause, medici senza malati e senza scienza, studenti di biliardo, commessi viaggiatori e altri impiegati di commercio, e principalmente di giornalisti della piccola stampa di una reputazione più o meno equivoca». Ai giudizi sferzanti sul Regno di Sardegna, cui rimproverava «ambiguità, asse costante intorno al quale ruota la sua politica», Marx alterna la curiosità per Garibaldi. Al quale dedica un articolo, il 17 settembre 1862 su Die Presse, nel quale si propone nel ruolo di cronista, resocontando una manifestazione a sostegno dell’Eroe dei Due Mondi che si era svolta a Newcastle e limitandosi a inserire alcune notazioni tra parentesi: «ovazione», «applauso scrosciante», «applausi e risate».
Marx, come è noto, è tra i primi a proporre una lettura «globale» del mondo e lo fa anche in privato. Il 25 marzo 1853 scrive all’amico Weydemeyer per congratularsi con lui per la nascita del figlio: «Evviva il nuovo cittadino del mondo! Non è possibile venire al mondo in un’epoca più formidabile che oggigiorno. Quando si viaggerà in sette giorni da Londra a Calcutta ci avranno tagliato la testa a tutti e due da moltissimo tempo. I nuovi cittadini del mondo non riusciranno a capire quanto piccolo era il nostro mondo». Marx non esita a cimentarsi con problemi della vita quotidiana. In un articolo del 1862 si occupa della «Produzione del pane» con espressioni iper-realistiche: «Un indicibile mixtum compositum di farina, allume, ragnatele, black beetles e sudore umano».
Accuratezza filologica
I volumi in uscita - che comprendono classici come Il Capitale e tanti appunti inediti - arriveranno nelle librerie nei prossimi mesi in sequenza, completando lo storico lavoro svolto dagli Editori Riuniti e con un link alla monumentale opera di ripristino e scoperta di inediti ancora in corso: la cosiddetta Mega, la Marx-Engels-Gesamtausgabe. Il progetto ha una storia a sé, ancora tutta da raccontare: ad avviare le pubblicazioni fu nel 1927 David B. Rjazanov, successivamente incappato nelle purghe sovietiche e condannato a morte nel 1938. Dopo il consolidamento dello stalinismo, infatti, la Russia bolscevica interruppe la pubblicazione dell’opera omnia perché il progetto era considerato troppo indipendente.
I volumi in uscita in Italia (cinquanta più uno di soli indici) si gioveranno di quella cura filologica da tempo prerogativa di Lotta Comunista, che dispone di un catalogo di 209 titoli, diversi dei quali tradotti in sette lingue: «Abbiamo sempre teso a fornire il miglior prodotto editoriale», spiega Irma Perrotti, del collettivo editoriale, «nella convinzione che “diffusione” e “popolarizzazione” non debbano essere confuse con “volgarizzazione”». Un metodo di lavoro che è anche un programma politico: nella loro sede, un’ex officina di caldaie in via Sarca alla periferia Nord di Milano, i militanti comunisti - un po’ come i monaci amanuensi medievali - trascrivono nel modo più fedele e più ampio quel che scrissero i fondatori del materialismo storico. Nella incrollabile fiducia che quelle profezie, dopo aver influenzato e mosso nel passato milioni di uomini, prima o poi tornino a essere attuali e attuabili.

La Stampa 3.4.18
Raoul Peck: “Ormai non è più un tabù
Torniamo al nocciolo del suo pensiero”
Il regista del film sul giovane Karl, da giovedì nelle sale “In tempi di crisi è possibile riconoscerne il valore profetico”
di Fulvia Caprara


L’unico modo per ritrovare l’essenza del pensiero di Karl Marx era coglierne l’empito giovanile, la spinta emotiva che lo convinse, nel 1844, a lasciare il suo Paese per raggiungere Parigi con la moglie Jenny e lì immergersi nel clima effervescente che attraversava non solo la Francia, ma l’intera Europa: «Fino a pochi anni fa», osserva il regista haitiano Raoul Peck, «Marx era considerato un tabù, ma ultimamente, mentre le crisi economiche hanno iniziato a susseguirsi, si sono risvegliati un nuovo interesse e una nuova popolarità. Le più famose riviste del mondo lo hanno messo in copertina, da Time a Newsweek, dal Financial Times al Der Spiegel. A 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, credo sia possibile ritornare alle origini, al nucleo centrale dell’opera scientifica marxiana».
Così, tenendosi lontano dalla più classica e scontata rappresentazione del personaggio - un anziano «eternamente barbuto, come una statua di cera messa tra Angela Merkel e Marlene Dietrich, al Madame Tussaud’s di Berlino» - Peck ha raccontato, nel film Il giovane Karl Marx (giovedì nei cinema) un uomo brillante, pieno di entusiasmo ed energia (August Diehl), innamorato della sua compagna (Vicky Krieps), pronto a confrontarsi con il pensiero di Friederich Engels (Stefan Konarske), erede di una grande fabbrica e studioso del proletariato inglese, e con le idee di Pierre-Joseph Proudhon (Olivier Gourmet). E poi la stesura del Manifesto, i moti rivoluzionari, le difficoltà economiche, l’espulsione dalla Francia, i contrasti ideologici, i dibattiti infiammati.
«Ho voluto girare un film e non un documentario perché mi interessava che il pubblico, il più ampio possibile, andasse a vedere questa storia e poi ne discutesse». Prima delle riprese Peck si è a lungo documentato e poi ha cercato interpreti che parlassero le tre lingue dei protagonisti - francese, tedesco e inglese - e che riuscissero a rendere al meglio il loro lato umano e l’atmosfera cosmopolita in cui si muovevano: «Ho letto le lettere che i personaggi principali si scambiarono dal 1843 al 1850, e mi ha colpito il modo diretto e appassionato con cui confrontavano le loro opinioni».
Candidato l’anno scorso agli Oscar con I am not your negro dedicato alla figura dello scrittore afroamericano James Baldwin, Raoul Peck ha frequentato per quattro anni corsi sul Capitale durante i suoi studi all’Università di Berlino: «In questo modo ho acquistato consapevolezza della vera opera di Karl Marx, e non del suo dogma». Una visione che lo ha guidato nella realizzazione del film: «Viviamo in un momento di grande confusione. Anche se ci sembra di comunicare moltissimo, in realtà le risposte e le analisi adeguate mancano, per questo è necessario andare al nocciolo del pensiero marxista, coglierne il senso e riconoscerne il valore profetico. La classe operaia di oggi è molto diversa da quella di allora, ha vissuto un lungo periodo di prosperità, ma adesso sta perdendo tutte le posizioni raggiunte, la gente non va a votare, i politici non hanno risposte e il risultato è che il panico tende a diffondersi».
In America, ma anche nel mondo, dice Raoul Peck, «siamo in una fase particolarmente pericolosa, tutti continuano a seguire ogni giorno i tweet di Trump, ma nessuno si accorge di quello che sta accadendo in molte istituzioni, della progressiva distruzione di libertà democratiche acquisite. Nei prossimi venti o trent’anni si vedranno le conseguenze di tutto questo, su tanti fronti diversi, e saranno molto gravi, perché toccheranno settori importanti, abbandonati a sé stessi, come la medicina, l’alimentazione, la cura dell’ambiente».

il manifesto 3.4.18
La sinistra e i contenuti, ovvero Keynes e la mucca nel corridoio
Non ci si è resi conto che l’abbattimento della precarietà del lavoro è il presupposto imprescindibile di una politica coerente per l’occupazione
di Vincenzo Maffeo


Una ricostruzione della sinistra in Italia non può prescindere da una critica impietosa che riguardi i contenuti della proposta politica prima che il modo in cui essa è stata presentata. Una critica che non può trascurare di aprire finalmente gli occhi sulla «mucca che è nel corridoio»: la precarietà del lavoro. Intendo sostenere che questo problema, ampiamente denunciato, non è mai stato in realtà affrontato sul serio, per lo meno da parte della sinistra finora rappresentata in Parlamento.
Ci si è baloccati con idee bizzarre quali gli incentivi ai rapporti di lavoro stabili (come se la ricattabilità dei lavoratori non fosse l’incentivo più auspicato dalle imprese), gli articoli 17 e mezzo e amenità simili. Soprattutto non ci si è resi conto che l’abbattimento della precarietà del lavoro è in realtà il presupposto imprescindibile di una politica coerente per l’occupazione, e non qualcosa a cui si possa pensare in un secondo momento, quando l’auspicata ripresa economica sia stata avviata.
Prendiamo per esempio il caso di Liberi e Uguali. Come ribadito sulla Repubblica del 18 febbraio, il programma economico di Leu si ispirava ad una “visione keynesiana”, che si concretizzava in “due punti fondamentali”: l’aumento della “spesa pubblica per investimenti ad alto moltiplicatore” e la riduzione dell’imposizione fiscale, ma solo nei limiti consentiti dal recupero dell’evasione.
Com’è noto, Keynes riteneva che l’occupazione e il reddito possano crescere soltanto come conseguenza di un’espansione della domanda aggregata, e cioè della domanda complessiva di beni e servizi. Alla politica economica era assegnato il ruolo di sostenerla, qualora essa si fosse rivelata insufficiente; l’aumento iniziale del reddito e dell’occupazione generato dall’intervento pubblico avrebbe a sua volta alimentato la crescita dei consumi privati ̶ che dal reddito dipendono ̶ dando così luogo ad un’espansione ulteriore della domanda. E’ in quest’ottica, dunque, che il programma di Liberi e Uguali proponeva di sostenere gli investimenti pubblici “ad alto moltiplicatore”, e cioè quelli in grado di determinare gli effetti più significativi sul reddito e sull’occupazione. Quelli, in altri termini, capaci a loro volta di fornire maggiore alimento alla spesa per consumi che dovrebbe essere stimolata dall’intervento iniziale dello stato.
Eppure, nella dichiarata adesione di Leu ad una prospettiva keynesiana c’è qualcosa che non torna; qualcosa che riguarda la questione, centrale nell’analisi di Keynes, della relazione tra la domanda aggregata e la distribuzione del reddito.
Keynes riteneva che il volume della domanda aggregata, e in particolare il livello dei consumi, non sia indipendente dalla distribuzione del reddito tra le classi sociali. Questo perché i ceti sociali più benestanti risparmiano in genere una quota significativa del proprio reddito; quelli relativamente meno abbienti ne consumano invece una quota molto elevata. Di conseguenza quanto più il reddito è concentrato in poche mani, tanto maggiore sarà la percentuale di esso che verrà risparmiata, e quindi tanto più contenuto sarà il livello dei consumi. Un alto grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito limita dunque la crescita dei consumi e, con essa, l’espansione della domanda aggregata e dell’occupazione: la propensione al risparmio dei membri più ricchi della società, affermava Keynes, può essere incompatibile con l’occupazione dei suoi membri più poveri.
Una politica economica di ispirazione keynesiana non può dunque prescindere dalla questione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, soprattutto quando queste sono molto accentuate e vanno addirittura aumentando, come accade ormai da molti anni. Se questa tendenza dovesse persistere, sarebbero ben poco efficaci gli aumenti della spesa pubblica per investimenti auspicati da Leu. Sarebbe, inoltre, completamente esclusa la possibilità che essi possano rivelarsi “ad alto moltiplicatore”, dato che la loro efficacia nell’alimentare la crescita dei consumi dipende in maniera cruciale dal livello della propensione al consumo della collettività.
In passato questo problema tendeva almeno in parte a risolversi man mano che l’intervento pubblico, avviando una ripresa dell’occupazione, contribuiva ad accrescere la forza contrattuale e quindi le retribuzioni dei lavoratori. In questo modo l’incremento dell’occupazione, determinato inizialmente dall’intervento dello Stato, veniva poi alimentato dall’espansione dei consumi che era consentita anche dal mutamento della distribuzione del reddito.
Tutto questo non è più possibile. Le norme che sono state via via introdotte hanno favorito il dilagare dei rapporti di lavoro precari, con la conseguenza di ridurre drasticamente la forza contrattuale dei lavoratori. Anche in presenza di una ripresa dell’occupazione non c’è da aspettarsi un incremento dei salari reali che possa invertire la tendenza all’aumento delle disuguaglianze. E’ stato insomma creato un contesto istituzionale che favorisce una distribuzione del reddito via via più sperequata: un elemento che, come abbiamo visto, tende a limitare la crescita dei consumi e, più in generale, della domanda aggregata. Insomma, non c’è poi molto da aspettarsi, in termini di crescita del reddito e dell’occupazione, da una semplice politica di investimenti pubblici.
Una politica economica di impostazione keynesiana deve dunque prevedere un’immediata e drastica riduzione della precarietà dei rapporti di lavoro. In mancanza di questa, è illusorio pensare ad un aumento degli investimenti pubblici come ad una seria possibilità per una ripresa della crescita; ancora più illusorio è parlare di investimenti “ad alto moltiplicatore”.
Nel programma di Liberi e Uguali lo “scandalo” della crescente disuguaglianza dei redditi viene sottolineato. Si ritiene però che la “via maestra per la redistribuzione di redditi e ricchezza è quella verso la piena e buona occupazione, da stimolare tramite un piano straordinario di investimenti”. La redistribuzione del reddito viene dunque considerata un risultato della crescita dell’occupazione, e non come la condizione necessaria perché essa si realizzi. Sembra sfuggire che l’auspicata crescita dell’occupazione non può realizzarsi senza la preliminare rimozione dell’ostacolo alla redistribuzione del reddito costituito dalla precarietà del lavoro.
Certo, nel programma di Liberi e Uguali viene affermata la necessità di interventi orientati a cancellare il “ricatto della precarietà”. E’ difficile tuttavia sfuggire alla sensazione che l’aumento degli investimenti pubblici sia considerato il vero provvedimento urgente, mentre il “superamento” dei rapporti di lavoro precari sia una questione di più lungo periodo, da affrontare una volta che siano stati realizzati incrementi apprezzabili dell’occupazione.
Non si spiega altrimenti perché dell’abbattimento della precarietà non sia stata fatta una vera e propria bandiera elettorale (nelle dichiarazioni pubbliche si è parlato prevalentemente di cancellazione del Jobs Act, come se prima di questo la precarietà non fosse già dilagante!). Un atteggiamento dettato forse dalla convinzione che, almeno in una prima fase, un aumento della forza contrattuale dei lavoratori possa danneggiare la ripresa dell’occupazione. Questo significherebbe però, parafrasando Keynes, essere ancora “schiavi” di un’impostazione economica che l’identità e il programma di una sinistra adeguata ai tempi dovrebbe considerare sostanzialmente “defunta”.
* Università di Roma “La Sapienza”

il manifesto 3.4.18
Winnie Mandela vive, malgrado tutto
Sudafrica. Lutto per la scomparsa di «Mummy Winnie», icona della lotta anti apartheid ed ex sposa di Nelson Mandela. Dimenticando per un giorno i lati più controversi della sua figura
Winnie Mandela negli anni '60-'70
di Marco Boccitto


Se ne va a 81 anni un’altra icona della lotta contro l’apartheid. Nonché ex moglie di Nelson Mandela. Una figura diventata via via più scomoda, quando non vera fonte d’imbarazzo, per l’uomo che ha cambiato la storia del Sudafrica.
LA MORTE DI WINNIE Madikizela-Mandela, avvenuta in un ospedale di Johannesburg, ha messo però a tacere per incanto, almeno per un giorno, le pesanti riserve proliferate sulle condotte che da risorsa inestimabile del movimento di liberazione l’hanno trasformata in problema. Ieri è stato il giorno del rispetto per una figura esemplare e tutt’altro che collaterale nel «lungo cammino verso la libertà» del popolo sudafricano: Mummy o Mam’, la chiamavano, intendendo con questo proprio «madre della nazione». Madre degenere, secondo molti, incurante dei rischi a cui aveva esposto il nuovo Sudafrica appena nato,
Anche i suoi detrattori più aggressivi hanno fatto un passo indietro per onorarne la memoria. Persino l’arcivescovo emerito Desmond Tutu, ultimo rimasto tra i “grandi vecchi”, che Winnie non aveva esitato a definire in una recente intervista un «cretino», ha avuto solo parole solenni per lei, ricordando il modo in cui non si fece piegare dall’arresto del marito e dai continui soprusi delle forze di sicurezza: «Possa riposare in pace e risorgere in gloria», ha chiosato. «Tutti i sudafricani hanno un debito con lei, che ne siano consapevoli o meno», gli ha fatto eco Njabulo Ndebele. che presiede la Nelson Mandela Foundation: «Il suo grido era il nostro».
Il tributo meno sospetto lo aveva ricevuto quando era ancora in vita, allorché Graça Machel, che  nel frattempo le era subentrata come nuova  first lady, rammaricandosi del fatto che la vita non le aveva rese esattamente delle amiche, le espresse ammirazione totale e la definì la sua «eroina».
MAMMA WINNIE era nata Nomzamo Winifred Zanyiwe Madikizela nel 1936 a Bizana, nell’Eastern Cape. Nomzamo, cioè «colei che si batte», è una delle prime donne nere a intraprendere studi sociali nel Sudafrica ostaggio della minoranza bianca. Ha 22 anni quando incontra a una fermata del bus di Soweto un avvocato da combattimento di nome Nelson Mandela. È una mattina del 1957. Due anni dopo Mandela, già incriminato, ottiene un permesso speciale per sposarla. Passano altri tre anni vissuti pericolosamente, in cui arrivano due bambine e l’arresto che fa da preludio alla condanna all’ergastolo. Winnie s’impegnerà anima e corpo nella campagna per la liberazione del marito, ma i tempi in cui il suo rilascio diventerà pressante domanda globale sono lontani.
PRIMA VENGONO GLI 8 ANNI durissimi di confino e libertà azzerate, con le piccole Zindzi e Zenani al seguito, nello Stato libero d’Orange. Isolata al punto quasi di impazzire, con i primi pettegolezzi abrasivi che comninciano a fiorire sul suo conto. Nel 1969 sperimenta gli effetti del nuovo Terrorism Act e del vecchio Suppression of Communism Act con 18 mesi di isolamento nella famigerata Prigione centrale di Pretoria. Il ritorno fuorilegge a Soweto per ritrovare l’abbraccio dei suoi coincide con la presa di conscienza internazionale sullo stato dell’arte in Sudafrica. E Winnie diventa la punta di diamante della campagna che porterà alla liberazione di Mandela nel 1990. Un percorso appena turbato dalle voci sul lusso sfrenato che regna nel cosiddetto Winnie’s Palace a Soweto, gli eccessi dei suoi guardiaspalle e l’uso spregiudicato del brand Mandela che infastidirà non poco Mandela.
winnie mandela 32
Il giorno del rilascio
QUANDO I DUE SI ALLONTANANO dal carcere mano nella mano ne viene fuori una delle immagini più iconiche di quanto sta accadendo, ma nessuno ci crede più. Due anni dopo le loro strade si dividono e nel 1996 sarà divorzio vero. Quello “politico” si era già consumato in modo turbolento, con una Winnie “di lotta e di governo” che Mandela a un certo punto sacrifica sull’altare dell’acrobatica transizione democratica in cui si era impegnato. La torbida vicenda del rapimento di quattro ragazzi e la morte di uno di loro accusato di essere una spia, costerà a Winnie una condanna a 6 anni e costringerà anche la Commissione per la verità e la riconciliazione, architrave della strategia di Mandela e Tutu per scongiurare il bagno di sangue, a occuparsi delle sue trame.
Da qui il brusco ridimensionamento. Che non riguarda certo chi l’ha sempre difesa e grida al complotto contro una delle voci più radicali e coerenti del partito, l’Anc che come amava ripetere lei era l’unica cosa che avesse veramente sposato. Il tatto non è mai stato il suo forte. E non le verrà in soccorso certo quando di Mandela dirà in sostanza che 27 anni di carcere lo hanno rammollito.
È COSÌ CHE NEGLI ULTIMI ANNI Winnie era sembrata la madrina naturale di un personaggio incendiario come Julius Malema, l’ex leader della Lega giovanile dell’Anc oggi a capo del partito scissionista Economic Freedom Fighters (Eff). Chissà se avrà in cuor suo gioito quando l’esproprio delle terre ai grandi propietari terrieri bianchi, uno dei cavalli di battaglia condivisi con lui, è stato a sorpresa preso per la prima volta in considerazione dall’Anc, il mese scorso. E chissà se avrà riconosciuto, in quell’apertura nei confronti della sinistra radicale da parte di Cyril Ramaphosa, nuovo leader del partito, un gesto simile alle mosse inclusive con cui Mandela amava spiazzare l’estrema destra razzista.

La Stampa 3.4.18
La rivolta degli Intoccabili di Gandhi
“Picchiati e discriminati per legge”
India, colpo di spugna della Corte contro chi perseguita un Dalit In tutto il Paese scoppiano le proteste della casta più umile: sei morti
di Carlo Pizzati


Hanno riempito le strade armati di spade, bastoni, aste portabandiera, mazze da cricket e da baseball. Tra spari, incendi e scontri con la polizia, hanno bloccato strade principali, uffici governativi e più di cento treni in diversi Stati dell’India. A terra, alla fine di un lunedì di fuoco, sono rimasti i corpi di sei Dalit, che in Occidente chiamano ancora con il termine derogatorio di «Intoccabili», la casta più umile di un sistema dove in teoria la discriminazione di casta non deve esistere più per legge.
Sono decine i feriti negli scontri scatenati dallo sciopero generale e dalla serrata nazionale, promossi dalla casta più maltrattata d’India: esami di maturità rimandati nel Punjab, morti nel Madhya Pradesh, Uttar Pradesh e Rajasthan, treni bloccati nel Bihar.
Il verdetto
La causa dell’esplosione di rabbia nel sub-continente è una decisione della Corte Suprema di Delhi che, con un verdetto emesso il 20 marzo, ha proibito l’arresto immediato di persone accusate di violenza contro i Dalit. Per capirci meglio, ciò significa che, prima, chiunque venisse colto in fragrante a picchiare o tentare di uccidere un Dalit veniva arrestato immediatamente. Ma, ora, la Corte Suprema ha diluito l’efficacia di una legge creata per tutelare i Dalit, lasciando un margine più ampio a chi commette violenze contro di loro.
In teoria è una decisione garantista, in quanto la Corte specifica che sarebbe più prudente che fosse un alto ufficiale di polizia a verificare i fatti prima di ordinare un arresto. Ma nel contesto indiano il segnale è chiaro: gli appartenenti alla casta più umile saranno meno protetti dalla legge.
I divieti
Stiamo parlando di una categoria che comprende 200 milioni di cittadini, un sesto della popolazione indiana, persone spesso trattate come servi, gente che per i «casteisti» deve solo pulire le fogne, le strade, le case. Sono cittadini indiani a cui, in realtà, nella vita reale, lontana dai dettami della Costituzione, è spesso proibito bere dallo stesso bicchiere, anche se lavato, di quello di un appartenente a una casta più alta, e a cui è proibito addirittura sedersi nelle stesse seggiole di chi è di casta più elevata. L’India di oggi è ancora così, nonostante la Carta costituzionale consideri inequivocabilmente fuorilegge queste discriminazioni.
Annacquare le norme
Il leader dell’opposizione Rahul Gandhi, figlio di Sonia Gandhi, ha criticato il governo per non essersi opposto con abbastanza fermezza a questa svolta legislativa: «Perché annacquare una legge che protegge i Dalit proprio quando le atrocità nei loro confronti sono in aumento?».
I dati gli danno ragione. Secondo il National Crimes Record Bureau, l’ente che documenta i crimini in tutto il Paese, da quando il partito dei fondamentalisti indù del Bjp è al potere, le violenze contro i Dalit sono aumentate. E il 90 per cento dei 145 mila casi di violenze anti-casta è ancora in attesa di processo.
Per entrare nell’assurdità del contesto, nel Gujarat occidentale la settimana scorsa un Dalit è stato picchiato a morte solo perché era in possesso di un cavallo. Che era suo. Regolarmente acquistato. Ma secondo gli estremisti, un Dalit non può né salire, né essere proprietario di un cavallo, prerogativa unica delle caste più alte.
Già nel gennaio scorso, i Dalit si erano scontrati con i fondamentalisti a Mumbai, con conseguenti feriti e danni. Questo perché da due secoli i Dalit celebrano un’antica battaglia tra gli imperialisti britannici e la casta indù dei Peshwas. All’epoca, i Dalit combatterono dalla parte dei britannici e contro gli oppressori induisti. E quindi i Dalit fanno annualmente festa a favore degli ex colonizzatori britannici, scontrandosi sempre, e quest’anno anche con uno sciopero, manifestazione e botte, contro i discendenti delle caste più alte.
Delusione politica
Sullo sfondo c’è in realtà una profonda e seria delusione politica. Alle elezioni del 2014, alcune associazioni Dalit avevano sostenuto il premier Narendra Modi, credendo forse nella sua promessa di trasformazione e modernizzazione dell’India oltre queste antiche e apparentemente inestirpabili divisioni. Le classi più maltrattate avevano creduto che Modi facesse, sì, l’occhiolino ai fanatici induisti avvolti nei mantelli color zafferano, ma che avrebbe in fin dei conti portato più garanzie per gli afflitti, le cosiddette Scheduled Classes.
Così non è stato. Anzi, tutto il contrario. E, nell’era di Modi, le atrocità, gli stupri, le violenze contro la casta più vituperata, mentre la polizia guarda spesso dall’altra parte, si sono invece moltiplicati.

Corriere 3.4.18
La resistenza ritardataria
Ben pochi italiani prima dell’8 settembre erano disposti a combattere il fascismo
Dall’indagine di Olivier Wieviorka sui movimenti di Liberazione dell’Europa dalla dominazione nazista (Einaudi) emerge che gli Alleati per lungo temponon riuscirono a trovare nostri connazionali che si schierassero dalla loro parte
di Paolo Mieli


Quella di Adolf Hitler — che iniziò nell’aprile del 1940 con l’attacco alla Scandinavia — fu un’offensiva davvero travolgente a cui arrise un successo che Olivier Wieviorka in Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945 (in uscita oggi da Einaudi), definisce «spudorato». Il risultato fu che all’inizio dell’estate i principali Paesi europei — Gran Bretagna a parte — avevano deposto le armi e da Bruxelles a Varsavia, da Parigi a Oslo, da Praga ad Amsterdam sventolava la bandiera nazista. I capi di Stato o di governo di Belgio, Norvegia e Olanda avevano trovato riparo a Londra; «nutrite schiere di volontari» risposero agli appelli diffusi dal francese Charles de Gaulle, dal belga Hubert Pierlot e dal norvegese Johan Nygaardsvold e, con il fondamentale sostegno degli Alleati, diedero inizio ad una resistenza contro le truppe che marciavano dietro il vessillo con la croce uncinata.
Finita la guerra, però, dappertutto nei Paesi che avevano resistito fu promossa una politica della memoria che «minimizzava il contributo degli Alleati quando addirittura non lo passava sotto un indifferente silenzio». Lo stesso de Gaulle nel discorso che tenne a Parigi il 25 agosto del 1944 rese omaggio al proprio Paese liberato «con le proprie mani», dal suo popolo «con l’aiuto degli eserciti della Francia, con l’appoggio e il concorso della Francia tutta, della Francia che lotta, dell’unica Francia, della vera Francia, della Francia eterna!». Limitandosi a salutare con «un fugace e striminzito omaggio» i «nostri cari e ammirevoli alleati». In Danimarca la Resistenza fu considerata come qualcosa a cui i britannici si erano limitati a «fornire i mezzi». E fu così dappertutto. Lì per lì la cosa parve naturale. Del resto, come ha osservato lo storico Pieter Lagrou, «esaltare il contributo dei movimenti di resistenza endogeni era l’unico modo che quei Paesi avevano a disposizione per costruire un mito nazionale».
Questa «visione idilliaca», tuttavia, corrisponde ben poco, scrive Wieviorka, «ai fatti, quantomeno a quelli colti dagli storici». Anche per quel che riguarda la coalizione nata all’ombra dell’Union Jack e della bandiera a stelle e strisce che «risentì degli aspri rancori del periodo tra le due guerre e portò con sé concezioni divergenti, quando non opposte, dell’avvenire dell’umanità». È noto che, pur cooperando, Londra e Washington vennero più volte ai ferri corti. Quanto ai fattori nazionali, ebbero sì «un ruolo eminente nella nascita della Resistenza», ma poi, nella crescita della reazione ai nazisti, «la parte svolta dagli angloamericani fu di indiscutibile centralità».
Se vogliamo ricostruire la storia della Resistenza in Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia e Italia — la zona di intervento angloamericana — è necessario, secondo Wieviorka, sfuggire a «quattro forme di semplificazione». La prima è di «credere che gli Alleati onnipotenti tirassero le fila delle resistenze locali». La seconda di «ritenere che queste ultime potessero svilupparsi adeguatamente senza aiuti esterni». La terza di «immaginare che la necessità di abbattere il nazismo abbia fatto scomparire d’un sol colpo le logiche di interesse». La quarta di «sopravvalutare il ruolo svolto dalla dimensione nazionale della lotta comune». Ne viene fuori un quadro assai più sfaccettato di come andarono le cose.
Quel che davvero accadde nell’Europa continentale travolta dalle armate naziste fu assai poco lineare. Spesso, anzi, assai in contrasto con la versione accreditata degli eventi. A partire dalla stizzita reazione francese alla subitanea capitolazione dell’Olanda e del Belgio. «Ecco che nel vivo della battaglia il re del Belgio Leopoldo III, senza degnare neppure di uno sguardo e una parola i soldati francesi e inglesi che in risposta al suo appello angosciato erano accorsi in aiuto del suo Paese, ha deposto le armi», protestava il presidente del Consiglio francese Paul Reynaud, stigmatizzando la resa belga come «un fatto storico senza precedenti». Per proseguire con lo sconcerto generale allorché, dopo l’invasione hitleriana della Norvegia, il partito comunista locale, allineato sulle posizioni di Mosca, chiese la collaborazione con Berlino pur reclamando «per contrappeso» l’abdicazione del re Haakon (fuggito in Inghilterra) e la formazione di un «governo degli operai, dei contadini e dei pescatori». Anche la regina Guglielmina d’Olanda riparò in Gran Bretagna mentre il «suo» governo (guidato da Dirk Jan de Geer, presto indotto alle dimissioni) cercava la via di un compromesso con Hitler. In Belgio, il ministro degli Esteri Paul-Henri Spaak confortava il re Leopoldo III scrivendogli che, se la Germania non avesse riportato al più presto «una vittoria decisiva», il suo destino sarebbe stato di essere «sconfitta». Era il 26 maggio 1940. Quarantott’ore dopo, il 28 maggio, l’esercito belga si arrese, il re si consegnò prigioniero e l’intero Consiglio dei ministri riparò in Francia, ai primi di luglio fu a Vichy per cercare una trattiva con il Führer. Tutto ciò mentre il ministro della sanità Marcel-Henri Jaspar era scappato in Inghilterra per pronunciare dalla Bbc un discorso echeggiante quello del generale de Gaulle. Dopodiché i ministri, mai presi in considerazione da Hitler, espatriarono in Inghilterra, dove però non furono considerati granché a causa della loro performance alla corte di Philippe Pétain.
In ogni caso la stessa Londra esitava a rompere con Vichy nella speranza che alcuni importanti ufficiali — come il generale Weygand — «passassero prima o poi al campo della libertà». Winston Churchill ordinò sì il cannoneggiamento della squadra navale francese ancorata nella base algerina di Mers el-Kebir, nei pressi di Orano (ciò che provocò la rottura tra Londra e Vichy), ma cercò ancora di tenere il piede in due staffe evitando di affidarsi in toto a de Gaulle e di infierire sul vincitore di Verdun. Una Francia neutrale, dal suo punto di vista, «restava preferibile a una Francia legata mani e piedi alle sorti del Reich». Un identico calcolo fu alla base della strategia britannica nei confronti della Danimarca. Un quadro assai confuso. Così come l’altro quadro, quello del contrasto europeo al nazismo, fu assai deludente.
A questo punto il ministro dell’Economia di guerra, il laburista Hugh Dalton, scrisse a Churchill: «Dobbiamo organizzare nei territori occupati dal nemico movimenti paragonabili al Sinn Féin irlandese, alle guerriglie cinesi attualmente operative contro il Giappone, agli irregolari spagnoli che tanto peso hanno avuto nella campagna di Wellington (contro Napoleone, 1808-13) o ancora — si può ben ammetterlo — alle organizzazioni che gli stessi nazisti hanno sviluppato in modo così degno di nota in quasi tutti i Paesi del mondo». Hugh Dalton proponeva di costituire un’«Internazionale democratica» — fu lui stesso a definirla così — che avrebbe dovuto produrre «sabotaggio industriale e militare, scioperi e agitazioni dei lavoratori, propaganda incessante, atti terroristici contro i traditori e i capi tedeschi, boicottaggi e sommosse». Il 19 luglio del 1940 nacque il Soe (Special Operations Executive) che fu annesso al ministero di Dalton con il compito di «incendiare l’Europa».
Non fu affatto semplice dar inizio alle operazioni. La disponibilità ad opporsi ai nazisti, gradualmente andò aumentando in tutti i Paesi d’Europa, tranne in Italia. «Non abbiamo nessun italiano in addestramento», si dispiaceva il capo del Soe nell’ottobre 1941, «non abbiamo linee in Italia (a parte due vaghi contatti con base in Svizzera); e abbiamo assolutamente fallito nel reclutamento di persone che potessero servire al Regno Unito, al Medio Oriente o a Malta».
Wieviorka fa osservare che le condizioni dell’Italia (fino all’8 settembre del 1943) sono diverse da quelle degli altri Paesi occupati dalle armate hitleriane. Nel senso che il nostro Paese, fino all’estate del 1943, è ancora sotto il regime mussoliniano e alleato con Hitler. Però gli inglesi ugualmente non si capacitano dell’apatia politica degli italiani (escludendo i comunisti con i quali non entrarono se non marginalmente in contatto). Poi, con l’andare del tempo, per quel che riguardava l’Italia, scrive Wieviorka, «la Gran Bretagna passò di delusione in delusione».
Gli inglesi non avrebbero voluto far perno sugli esiliati che consideravano «sconosciuti o dimenticati dai loro compatrioti» (come il conte Carlo Sforza, don Luigi Sturzo o Gaetano Salvemini, che pure aveva creato nel 1939 la «Mazzini Society»). Si illusero che potesse accendere una miccia Carlo Petrone, rifugiato in Inghilterra dal 1939, al quale nel gennaio del 1941 fu affidato il compito di dar vita ad un Comitato dell’Italia libera. Ma si accorsero ben presto che Petrone era «assolutamente ignoto al grande pubblico», le sue capacità di manovra apparivano «sommarie», il suo ascendente «limitato». Inoltre in luglio alcuni membri del Comitato si rivoltarono, revocarono il mandato a Petrone e lo sostituirono con Alessandro Magri, «un annunciatore che lavorava per la propaganda britannica», messo su due piedi a capo del Movimento dell’Italia libera. Risultato? Petrone sostenne di essere stato esautorato per il fatto di esser lui un cattolico e inondò di rimostranze le autorità britanniche. «Molti miei amici come io stesso», scriveva, «siamo preoccupati della tendenza di estrema sinistra che sembra prevalere in seno al Movimento dell’Italia libera... Comincia ad apparirmi necessaria la formazione di un nuovo organismo, più rappresentativo, in grado di esprimere i sentimenti degli italiani che sono leali nei confronti di questo Paese e più aggiornati sulla situazione che regna nel nostro». Poi aggiungeva considerazioni che al Foreign Office furono lette con un certo stupore: «Su un centinaio di membri (del gruppo capeggiato da Magri, ndr ) più della metà sono ebrei. Va sottolineato che un tale movimento non è rappresentativo della situazione esistente in Italia». Anche se si sentì in dovere di precisare: «Non parlo evidentemente “da un punto di vista razziale” ma da un punto di vista psicologico, sociale e religioso». I britannici stabilirono che Petrone era diventato «un fastidio».
A questo punto i britannici andarono a cercare ribelli italiani tra gli internati nei campi di prigionia in India e in Africa del nord. A loro fu rivolto un appello alla lotta che però non venne raccolto. Purtroppo, si legge su un rapporto dei servizi britannici, «i soldati italiani catturati sono perlopiù assolutamente felici di restare prigionieri e non mostrano alcun desiderio, mosso dal denaro o da altri motivi di rientrare nel loro Paese alla ventura». Per attirare i volontari dai campi di internamento, ricostruisce Wieviorka, fu addirittura lanciato un giornale «La Diana», «dalle colonne piene d’amore e di sesso, due argomenti ritenuti attraenti per dei maschi privati dei piaceri della carne». Ma senza risultato. A un certo punto gli inglesi imputarono questi insuccessi all’assenza di un «capo prestigioso» un «de Gaulle italiano» che, dopo molte ricerche, fu individuato nel generale Annibale Bergonzoli, soprannominato «barba elettrica». Ma il generale Francis Davidson dopo un periodo di collaborazione ne fornì questo ritratto: «Ritenuto dai bersaglieri un ciarlatano, compie improvvise visite a sorpresa nelle unità e raramente si fa trovare in ufficio... Lo ritengo inadatto a diventare il capo di qualsiasi movimento dell’Italia libera essendo di temperamento esaltato e vagamente instabile. Ha probabilmente raggiunto il rango che ricopre sottomettendosi al Partito fascista. In ogni caso quando ha combattuto contro di noi ha mostrato più velocità che fegato».
La lotta clandestina in Europa fu poi danneggiata, secondo Wieviorka, dai paraocchi ideologici dei grandi leader degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Il «gretto antigollismo» di Franklin Delano Roosevelt «indebolì l’efficacia della Resistenza francese», così come il «conservatorismo» di Winston Churchill «sfavorì la sua omologa italiana, a cui fu intimato di sottomettersi a un re senza più credito e a un maresciallo in pesante passivo». Beninteso: «Con o senza Resistenza, l’Europa occidentale sarebbe stata liberata dalle forze angloamericane». Ma, riconosce l’autore, i partigiani favorirono l’avanzata delle truppe alleate e permisero di limitare il costo umano di un conflitto spaventoso. Evitarono anche pericolosi vuoti di potere, «riuscendo a farsi carico del passaggio di testimone fra le autorità tedesche, sostenute da minoranze collaborazioniste, e i nuovi governi». E questo non fu un dettaglio da poco.