il manifesto 3.4.18
Perché il Pd è un partito «sbagliato»
di Antonio Floridia
Quanto
sta accadendo nel Pd, dopo il voto del 4 marzo, non credo abbia
precedenti storici: non s’era mai visto un partito incapace di dare il
benservito, più o meno educatamente, al segretario che lo ha condotto
alla disfatta.
E che non riesce a discutere seriamente nemmeno
sulle ragioni di questa sconfitta. Come può accadere tutto questo? Molti
commentatori non riescono a cogliere le ragioni di fondo. Il problema
non è solo la protervia del personaggio ma la natura stessa di questo
partito, diretta conseguenza di una tara genetica. Non pare che si
rifletta adeguatamente, insomma, sia sulla «costituzione materiale» del
Pd, sia sulla costituzione «formale» (lo statuto). Partiamo da un dato
evidente: Renzi tiene in ostaggio il partito, non molla la presa. Ma c’è
una spiegazione: il Pd è retto, sin dalla sua fondazione, da una logica
presidenzialistica e plebiscitaria, non da un regime interno di
democrazia rappresentativa. L’investitura diretta del «capo», unto dal
«popolo delle primarie», fa sì che sia il leader a «far eleggere» gli
organismi dirigenti, non questi ultimi a eleggere un segretario. Non
parliamo poi dei gruppi parlamentari.
Da qui un’insostenibile
rigidità: il Pd è un partito che può solo implodere. Per cambiare un
segretario sono possibili solo alcune vie obbligate: o dimissioni vere, o
nuove primarie, o un golpe di palazzo, ossia il «tradimento» di coloro
che sono entrati nell’assemblea nazionale non per una capacità
rappresentativa del corpo degli iscritti, ma letteralmente al seguito
del loro candidato-segretario, trainati dai consensi che questi ha
raccolto. Un nuovo segretario può essere eletto solo con il voto dei 2/3
dei membri dell’assemblea; altrimenti vige il principio del simul
stabunt, simul cadent: i membri dell’assemblea, se «sfiduciano» un
segretario, tornano a casa anche loro. Non essendoci organi collegiali
che esprimano gli orientamenti del corpo associativo (anzi, mancando del
tutto un tale corpo: il segretario, e chi fa parte di quegli organismi,
sono eletti da un magma indistinto di «elettori»), viene a mancare ogni
capacità deliberativa e quella tipica flessibilità istituzionale che è
propria di un regime rappresentativo. E manca un confine organizzativo
(una linea distintiva tra chi è dentro e chi è fuori dal partito) che
permetta di individuare un soggetto sovrano, fonte ultima di una
legittimità democratica.
La Spd, dopo mesi di discussioni accese,
ha chiamato i suoi iscritti a votare sulla scelta delle alleanze di
governo. Si può mai immaginare qualcosa di simile per questo Pd? Ossia,
per un partito in cui delle tessere ci si preoccupa solo quando ci si
approssima al «congresso» (che poi, come tale, è espressione nemmeno
contemplata nello statuto)? A tutto ciò si aggiunga una mutazione che si
è progressivamente palesata: la «fusione» tra due ben diverse
tradizioni organizzative (quella post-democristiana della Margherita e
quella post-comunista dei Ds) ha comportato, dentro l’impianto
statutario dominato dalle cosiddette primarie, un preciso effetto: la
prima tradizione si è trovata perfettamente a proprio agio (filiere,
cordate, legami personali tra i notabili e la «base»); la seconda è
completamente evaporata. Raddrizzare questo partito «sbagliato» è
impossibile. Bersani, nella prima fase della sua segreteria, sembrava
voler affrontare il problema: ma questo timido tentativo fu travolto
dagli eventi (quel governo Monti che, oramai è ben chiaro, è stato una
sciagura per la sinistra italiana). Altri, generosamente, penso a
Fabrizio Barca, hanno provato ad avanzare e sperimentare alcune
proposte: senza nemmeno trovare un qualche interlocutore serio. Pochi
giorni fa Gianni Cuperlo ha detto che ci vorrebbe un congresso vero, e
che non servono i gazebo: già, ma chi lo decide questo?
È evidente
che il Pd è prigioniero del suo stesso impianto fondativo: una trappola
mortale. È un partito irriformabile, oramai. E infatti acquistano
sempre maggiore credibilità gli scenari che ipotizzano forme di
separazione più o meno consensuali o traumatiche. Anche per questo, se a
sinistra si uscisse dalla totale afasia e dalla paralisi post-voto,
sarebbe necessario qualche esercizio di immaginazione strategica. Ha
davvero poco senso dividersi sui «rapporti con il Pd», su un nuovo
«centrosinistra», e discorsi simili. Nessuno può dire come evolverà la
crisi del Pd, e in che tempi: e non ha davvero senso attendere questi
sviluppi, o sperare nell’arrivo taumaturgico di un cavaliere senza
macchia e senza paura (Zingaretti?). Come che sia, un partito della
sinistra ci vuole, ci vorrebbe come l’aria. E anche coloro che credono
nella necessità di ricostruire uno schieramento ampio, democratico e di
sinistra (non chiamiamolo più centrosinistra, per favore), debbono
convenire su un dato: non potrà essere certo il Pd, anche un Pd
«liberatosi» finalmente di Renzi, a porsi come un luogo esclusivo di
sintesi. È molto più credibile e auspicabile una pluralità e
un’articolazione delle forze. Non sappiamo se ci sarà ancora un Pd nel
prossimo futuro e che cosa sarà. Sappiamo solo quello che, comunque, è
necessario: un nuovo partito che abbia il coraggio di far rinascere una
sinistra radicalmente riformatrice, ripensata nella sua cultura politica
e nella sua lettura della società, rinnovata nei programmi e negli
uomini e nelle donne che la guidano. Ma ci saranno coloro in grado di
avviare questo processo? Forse ci vorrebbe un novello barone di
Münchausen, capace di tirarsi su dal pantano aggrappandosi al proprio
stesso codino di capelli.