Il Sole Domenica 29.4.18
Le idee
Il nodo tra politica ed economia
di Sebastiano Maffettone
Marx,
letto e studiato a oltranza negli anni Sessanta, è stato messo da parte
dopo il 1989. Può essere utile a 200 anni dalla sua nascita tentare un
bilancio “anacronistico” -cioè, dal punto di vista di noi oggi- della
sua opera: che cosa ci rimane di utile e attuale nel suo pensiero?
La
prima cosa da chiarire in un bilancio siffatto è che Marx è più un
profondo critico del capitalismo, e con esso della liberal-democrazia,
che un profeta del comunismo. Sul comunismo in verità scrisse poco,
mentre sul capitalismo scrisse più di 30mila pagine. La sua opera più
importante dopotutto si chiama Il Capitale e non Il Socialismo o Il
Comunismo. Marx ebbe come scopo principale quello di denunciare i
guasti, spesso a suo avviso occulti, che il capitalismo come sistema
sociale ed economico causava, e le conseguenze politiche che ne
seguivano. Le crisi contemporanee di capitalismo e democrazia rendono
assai interessanti queste critiche.
Un aspetto di Marx su cui è,
invece, più arduo scommettere consiste nella filosofia della storia che
eredita, modificandola, da alcune interpretazioni di Hegel. Che la
storia si muova verso un fine predeterminato e progressivo che si può
dedurre dall’analisi del passato è cosa difficile da credere. Lo stesso
può dirsi per quanto riguarda il ruolo dell’individuo, che ipotesi
fortemente strutturaliste come quella di Marx tendono a negare. L’idea
che gli individui non possano scegliere nulla autenticamente perché
tutto è pre-determinato dalla logica implicita nella storia sembra
sbagliata e persino aberrante. La maggior parte di noi crede che ci
siano decisioni alternative che possiamo prendere in contesti concreti, e
che queste decisioni siano basilari per una teoria etica e una teoria
economica ragionevoli. Inoltre, se Marx avesse ragione, la politica
stessa – cui pure il grande rivoluzionario teneva assai! – non avrebbe
molto senso.
Di pari passo, si può dire che il materialismo
storico – dottrina che è spesso attribuita in parte sostanziale a Engels
– sia tramontato. Marx sosteneva che «l’essere determina la coscienza».
Ma non è facile comprendere ciò che questa frase voglia dire. Ancora
una volta, l’idea centrale – oltre alla vaga suggestione che alcuni
processi storici sono irreversibili – è quella che esistano spiegazioni
socio-economiche che corrispondono a un qualche fine della storia. Ma
dato che i fini della storia sono un’entità misteriosissima, anche in
questo caso siamo avvolti da una fitta coltre di nebbia. Tutto ciò rende
improbabile anche avere fiducia nella concezione materialistica della
storia, che pure ha indubbi meriti intellettuali. Per questa ragione, la
stessa tesi della corrispondenza necessaria tra forze produttive e
relazioni di produzione, pur essendo non priva di fascino, resta
difficile da argomentare. La stessa teoria economica complessiva di Marx
può essere considerata nella sostanza un parziale fallimento, anche se
vi sono alcune periferiche eccezioni e alcune intuizioni formidabili. In
generale, è proprio la teoria del valore-lavoro – con gli addentellati
della merce e del plusvalore – che non sembra al passo della scienza
economica contemporanea. Senza una considerazione indipendente dei
prezzi e dell’equilibrio economico generale non si può comprendere la
realtà economica. Analoga cosa può dirsi per la tesi sul crollo del
capitalismo, e non solo perché questo crollo non c’è stato nei termini
di Marx, ma anche perché la ragioni addotte per giustificarlo non
sembrano buone ragioni.
Infine, quello che rende più perplessi nel
valutare l’opera complessiva di Marx è la sproporzione assoluta tra
pars destruens e pars construens. Se, in sostanza, Marx è un critico
illuminato dei principali difetti del capitalismo – la coazione a
massimizzare l’utile, la reificazione dei rapporti umani etc. – la sua
capacità di prospettare una soluzione alternativa – come il comunismo –
lascia quantomeno perplessi. E, lo si noti, non solo perché per quanto
ne possiamo sapere il comunismo si è rivelato una tragedia storica. Ma
anche perché non è possibile capire come il comunismo in quanto
«movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» possa
funzionare se stiamo a quanto Marx dice in proposito.
Proprio
quanto detto nell’ultimo capoverso, fornisce qualche suggerimento su che
cosa ci resta di vivo e fecondo di Marx. La prima cosa è proprio la
mistura inimitabile di filosofia post-hegeliana e analisi economica -
una sorta di umanesimo sui generis - che Marx riesce a concepire. La
contraddizione che Marx scorge nel capitalismo è frutto di una visione
dialettica della realtà che, tra i suoi meriti, ha quello di farci
guardare allo sviluppo economico con uno sguardo più profondo. Lo scopo
del sistema economico - Marx ci aiuta a capire - non può essere solo
quello di produrre sempre di più. Deve essere anche quello di
contribuire a realizzare una umanità migliore. In questo, è possibile
credere che Marx avesse profondamente ragione. Proprio per ciò, parti
vive e vere del suo lavoro sono quelle che riguardano l’alienazione e lo
sfruttamento.
Un altro punto vivo e fecondo di Marx poggia
sull’analisi del rapporto tra economia e politica. Se Marx è sicuramente
eccessivo nel volere far dipendere la politica – e in genere tutto il
sistema dei rapporti culturali e etico-legali – dalla struttura
economica, tuttavia resta importante capire che la politica in un mondo
capitalistico è fortemente influenzata dal sistema economico. I
capitalisti influenzano la democrazia in maniera lecita e illecita,
tramite il lobbismo e la corruzione. Contro questa vocazione
disciplinante del capitalismo, che protegge i propri interessi
comperando il consenso, Marx aiuta a costruire una resistenza
intellettuale, morale e politica.
Ciò ammesso, va anche detto che –
pur dando a Marx quel che è di Marx – bisogna ammettere che la sua
condanna delle liberal-democrazia e con essa di ogni forma di socialismo
liberale e democratico appare troppo drastica. Non è vero che le
libertà costituzionali classiche e le procedure democratiche siano
puramente formali, anche se è vero che bisogna proteggerle dalla
tirannia di una minoranza ricca e potente. Per fare qualcosa del genere,
è difficile non tenere conto di quanto suggeriscono le teorie liberal
della giustizia, per cui la proprietà privata dei mezzi di produzione è
consentita ma solo a patto che in questo modo si contribuisca a
realizzare princìpi di giustizia liberali e egualitari. Al tempo stesso,
una soluzione del genere garantisce la tutela degli interessi morali
dei cittadini, e quindi resiste alla critica di Marx, secondo cui
capitalismo e liberal-democrazia sarebbero l’altra faccia di una società
civile in cui convivono individui egoisti chiusi gli uni rispetto agli
altri. I princìpi di giustizia creano invece un clima di solidarietà
diffusa che evita un effetto del genere. È chiaro che questo è quanto
auspicherebbe la società comunista che Marx invoca. Ma proprio la
società comunista in questione appare in tensione con quei vincoli che
riguardano la scarsità moderata dei beni e la benevolenza limitata delle
persone, vincoli che è impossibile trascurare nell’ambito di
qualsivoglia visione normale della giustizia. È da questo punto di vista
che la società comunista di Marx risulta utopica in senso negativo. In
sostanza, la critica marxiana di capitalismo e liberal-democrazia non
trova in un regime di socialismo centralistico una risposta adeguata, ma
nulla esclude che possa trovarla nell’ambito di una visione della
giustizia liberal e social-democratica.
Certo, ho finito con il
presentare un Marx “migliore” senza comunismo e teoria del valore-lavoro
nonché paladino della giustizia distributiva e della politica
democratica. Non è esattamente quello che lui voleva. Ma se fosse
comunque meglio leggerlo così?