lunedì 30 aprile 2018

Il Sole Domenica 29.4.18
Le idee
Il nodo tra politica ed economia
di Sebastiano Maffettone


Marx, letto e studiato a oltranza negli anni Sessanta, è stato messo da parte dopo il 1989. Può essere utile a 200 anni dalla sua nascita tentare un bilancio “anacronistico” -cioè, dal punto di vista di noi oggi- della sua opera: che cosa ci rimane di utile e attuale nel suo pensiero?
La prima cosa da chiarire in un bilancio siffatto è che Marx è più un profondo critico del capitalismo, e con esso della liberal-democrazia, che un profeta del comunismo. Sul comunismo in verità scrisse poco, mentre sul capitalismo scrisse più di 30mila pagine. La sua opera più importante dopotutto si chiama Il Capitale e non Il Socialismo o Il Comunismo. Marx ebbe come scopo principale quello di denunciare i guasti, spesso a suo avviso occulti, che il capitalismo come sistema sociale ed economico causava, e le conseguenze politiche che ne seguivano. Le crisi contemporanee di capitalismo e democrazia rendono assai interessanti queste critiche.
Un aspetto di Marx su cui è, invece, più arduo scommettere consiste nella filosofia della storia che eredita, modificandola, da alcune interpretazioni di Hegel. Che la storia si muova verso un fine predeterminato e progressivo che si può dedurre dall’analisi del passato è cosa difficile da credere. Lo stesso può dirsi per quanto riguarda il ruolo dell’individuo, che ipotesi fortemente strutturaliste come quella di Marx tendono a negare. L’idea che gli individui non possano scegliere nulla autenticamente perché tutto è pre-determinato dalla logica implicita nella storia sembra sbagliata e persino aberrante. La maggior parte di noi crede che ci siano decisioni alternative che possiamo prendere in contesti concreti, e che queste decisioni siano basilari per una teoria etica e una teoria economica ragionevoli. Inoltre, se Marx avesse ragione, la politica stessa – cui pure il grande rivoluzionario teneva assai! – non avrebbe molto senso.
Di pari passo, si può dire che il materialismo storico – dottrina che è spesso attribuita in parte sostanziale a Engels – sia tramontato. Marx sosteneva che «l’essere determina la coscienza». Ma non è facile comprendere ciò che questa frase voglia dire. Ancora una volta, l’idea centrale – oltre alla vaga suggestione che alcuni processi storici sono irreversibili – è quella che esistano spiegazioni socio-economiche che corrispondono a un qualche fine della storia. Ma dato che i fini della storia sono un’entità misteriosissima, anche in questo caso siamo avvolti da una fitta coltre di nebbia. Tutto ciò rende improbabile anche avere fiducia nella concezione materialistica della storia, che pure ha indubbi meriti intellettuali. Per questa ragione, la stessa tesi della corrispondenza necessaria tra forze produttive e relazioni di produzione, pur essendo non priva di fascino, resta difficile da argomentare. La stessa teoria economica complessiva di Marx può essere considerata nella sostanza un parziale fallimento, anche se vi sono alcune periferiche eccezioni e alcune intuizioni formidabili. In generale, è proprio la teoria del valore-lavoro – con gli addentellati della merce e del plusvalore – che non sembra al passo della scienza economica contemporanea. Senza una considerazione indipendente dei prezzi e dell’equilibrio economico generale non si può comprendere la realtà economica. Analoga cosa può dirsi per la tesi sul crollo del capitalismo, e non solo perché questo crollo non c’è stato nei termini di Marx, ma anche perché la ragioni addotte per giustificarlo non sembrano buone ragioni.
Infine, quello che rende più perplessi nel valutare l’opera complessiva di Marx è la sproporzione assoluta tra pars destruens e pars construens. Se, in sostanza, Marx è un critico illuminato dei principali difetti del capitalismo – la coazione a massimizzare l’utile, la reificazione dei rapporti umani etc. – la sua capacità di prospettare una soluzione alternativa – come il comunismo – lascia quantomeno perplessi. E, lo si noti, non solo perché per quanto ne possiamo sapere il comunismo si è rivelato una tragedia storica. Ma anche perché non è possibile capire come il comunismo in quanto «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» possa funzionare se stiamo a quanto Marx dice in proposito.
Proprio quanto detto nell’ultimo capoverso, fornisce qualche suggerimento su che cosa ci resta di vivo e fecondo di Marx. La prima cosa è proprio la mistura inimitabile di filosofia post-hegeliana e analisi economica - una sorta di umanesimo sui generis - che Marx riesce a concepire. La contraddizione che Marx scorge nel capitalismo è frutto di una visione dialettica della realtà che, tra i suoi meriti, ha quello di farci guardare allo sviluppo economico con uno sguardo più profondo. Lo scopo del sistema economico - Marx ci aiuta a capire - non può essere solo quello di produrre sempre di più. Deve essere anche quello di contribuire a realizzare una umanità migliore. In questo, è possibile credere che Marx avesse profondamente ragione. Proprio per ciò, parti vive e vere del suo lavoro sono quelle che riguardano l’alienazione e lo sfruttamento.
Un altro punto vivo e fecondo di Marx poggia sull’analisi del rapporto tra economia e politica. Se Marx è sicuramente eccessivo nel volere far dipendere la politica – e in genere tutto il sistema dei rapporti culturali e etico-legali – dalla struttura economica, tuttavia resta importante capire che la politica in un mondo capitalistico è fortemente influenzata dal sistema economico. I capitalisti influenzano la democrazia in maniera lecita e illecita, tramite il lobbismo e la corruzione. Contro questa vocazione disciplinante del capitalismo, che protegge i propri interessi comperando il consenso, Marx aiuta a costruire una resistenza intellettuale, morale e politica.
Ciò ammesso, va anche detto che – pur dando a Marx quel che è di Marx – bisogna ammettere che la sua condanna delle liberal-democrazia e con essa di ogni forma di socialismo liberale e democratico appare troppo drastica. Non è vero che le libertà costituzionali classiche e le procedure democratiche siano puramente formali, anche se è vero che bisogna proteggerle dalla tirannia di una minoranza ricca e potente. Per fare qualcosa del genere, è difficile non tenere conto di quanto suggeriscono le teorie liberal della giustizia, per cui la proprietà privata dei mezzi di produzione è consentita ma solo a patto che in questo modo si contribuisca a realizzare princìpi di giustizia liberali e egualitari. Al tempo stesso, una soluzione del genere garantisce la tutela degli interessi morali dei cittadini, e quindi resiste alla critica di Marx, secondo cui capitalismo e liberal-democrazia sarebbero l’altra faccia di una società civile in cui convivono individui egoisti chiusi gli uni rispetto agli altri. I princìpi di giustizia creano invece un clima di solidarietà diffusa che evita un effetto del genere. È chiaro che questo è quanto auspicherebbe la società comunista che Marx invoca. Ma proprio la società comunista in questione appare in tensione con quei vincoli che riguardano la scarsità moderata dei beni e la benevolenza limitata delle persone, vincoli che è impossibile trascurare nell’ambito di qualsivoglia visione normale della giustizia. È da questo punto di vista che la società comunista di Marx risulta utopica in senso negativo. In sostanza, la critica marxiana di capitalismo e liberal-democrazia non trova in un regime di socialismo centralistico una risposta adeguata, ma nulla esclude che possa trovarla nell’ambito di una visione della giustizia liberal e social-democratica.
Certo, ho finito con il presentare un Marx “migliore” senza comunismo e teoria del valore-lavoro nonché paladino della giustizia distributiva e della politica democratica. Non è esattamente quello che lui voleva. Ma se fosse comunque meglio leggerlo così?