lunedì 30 aprile 2018

Il Sole Domenica 29.4.18
pamphlet
Il capitalismo non sta tanto bene
Per Colin Crouch ha preso il sopravvento il neoliberismo aziendalista, cinico e indifferente alle disuguaglianze: aumentano gli egoismi identitari e le tendenze xenofobe
di Alberto Orioli


È a un passo dall’autodistruzione, ma il capitalismo si può salvare. Però non il capitalismo che da una quarantina d’anni va sotto il nome di neoliberismo, ormai sottoprodotto degenerato di quello cominciato con la curva di Laffer e i tagli fiscali dell’edonismo reaganiano o con la falcidia thatcheriana alla spesa pubblica e il trionfo delle privatizzazioni “stile inglese”. Due forzature, allora, ma due azzardi di successo che hanno contaminato anche le agende della socialdemocrazia e della sinistra più moderna. Ma proprio quel mondo, o meglio ciò che ne è seguito, con la grande crisi finanziaria globale del 2007-8 come emblema della deriva ferina dell’homo oeconomicus, ora è alle corde.
È la tesi di Colin Crouch, il sociologo della London school of economics inventore della post-democrazia, affidata alla sua ultima fatica Salviamo il capitalismo da se stesso (il Mulino). Crouch da almeno una decina d’anni studia la «non morte» dell’ideologia del mercato e ora ci avverte come non tenga più il Pantheon filosofico dell’«ordine spontaneo» creato dal premio Nobel Friedrich von Hayek, e dall’entusiasmo dei seguaci della Mont Pelerin Society (in Italia tra i primi Antonio Martino che ne è stato presidente). Non ha più senso l’istanza libertaria dellaVirtù dell’egoismo di Ayn Rand, l’istrionica teorica dell’individuo da opporre all’idea di società.
Crouch demolisce pezzo per pezzo quel mondo. A cominciare dalle teorie della musa estremista del guru della Fed Alan Greenspan, il Maestro che Ayn Rand chiamava affettuosamente «il becchino» dopo averlo ammesso al suo ambitissimo circolo di adepti di una sorta di culto pagano dell’egolatria. «L’uomo è un fine in sé e deve esistere solo per amore di se stesso e mai sacrificarsi per gli altri» predicava la profetessa-filosofa secondo cui l’equilibrio naturale verso il bene comune passa attraverso il più sfrenato e sfacciato perseguimento dei tanti tornaconti personali e singoli. Per Crouch è tempo di correggere queste perversioni del neoliberismo, pur senza dovere necessariamente demonizzare il capitalismo. Il confine tra il perseguimento legittimo degli interessi e la religione dell’egoismo si è fatto troppo labile.
C’è un neoliberismo del mercato, che non vuole la presenza pubblica, allergico alle regole e alle cosiddette “esternalità” (sempre negative), come potrebbe essere ad esempio la cura dell’ambiente, ma comunque attento a diminuire le asimmetrie informative e l’imperfezione dello scambio tra domanda e offerta. Corollario importante: la riduzione delle diseguaglianze. Tiene conto un po’ del fattore di riequilibrio della spesa pubblica in chiave solidale, retaggio dell’ordoliberalismo della scuola di Friburgo, meno crudo della versione a stelle e strisce del dio mercato.
E c’è un neoliberismo aziendalista, una costola legata alla finanziarizzazione dell’economia e frutto di una rielaborazione operata dalle grandi imprese e, soprattutto, dalle grandi banche (bersaglio antico di Crouch, già oggetto di almeno un altro paio di volumi a cominciare da Il potere dei giganti) secondo cui ciò che conta è massimizzare i profitti degli azionisti e solo per quella via garantire anche il bene dei consumatori; non crede nell’idea del mercato perfetto e, soprattutto, non si cura dell’aumento delle diseguaglianze, danno collaterale di una concezione oligopolista degli interessi.
Per Crouch è questa seconda corrente radicale e cinica ad avere preso la leadership del pensiero capitalista. E ha quindi prodotto un mondo dove le disparità stanno crescendo: chi non ce la fa si indebita altrimenti l’economia non gira, e più gira e più i gruppi egemoni sono in grado di influire sulle politiche pubbliche per perpetuare le diseguaglianze e l’indebitamento come regola, fino a fare del mondo intero una comunità fondata sui “pagherò”. E la bolla dei derivati sarebbe stata solo il prologo per mercati finanziari non disponibili a imparare da quella tragica temperie.
Il neoliberismo di mercato ha portato con sé l’annacquamento delle identità nazionali in nome della globalizzazione e della libera circolazione di merci e persone; ma la prevalenza del ramo aziendalista ha cambiato la percezione di quelle conquiste e l’esigenza oligopolista sta ripristinando i confini delle nazioni, gli egoismi e le barriere identitarie, in un pericoloso crescendo di una nuova stagione xenofoba, frutto anche dell’aumento endemico delle diseguaglianze, avvertite soprattutto da quelle che Crouch chiama le «popolazioni in esubero».
Ed è proprio questa tenaglia debito-xenofobia, secondo l’autore, a stritolare ormai il capitalismo moderno. L’allarme sul debito ha trovato di recente più che una conferma nelle preoccupatissime parole di Christine Lagarde (Fmi): «Nelle economie avanzate è a livelli mai visti dalla Seconda Guerra mondiale». La storia ritorna severa per questo neoliberismo, sfibrato anche per la sua palese incapacità di guardare a orizzonti di lungo periodo.
Il pamphlet non segue sempre un’argomentazione articolata, ma con semplificazioni ardite arriva al punto che interessa Crouch: le contraddizioni tra i due neoliberismi ormai in palese conflitto tra loro. Posto che il mercato è incapace di autocorreggersi, occorre prendere atto che il solo compromesso possibile tra le due visioni ideologiche è «la minaccia alla loro egemonia rappresentata oggi dal populismo xenofobo».
La conclusione è che l’unica soluzione possibile sia cedere sovranità ad autorità sovranazionali in grado di interpretare meglio, qui e ora, la nuova idea di interesse collettivo e per farlo - questa è la parte più fragile del volume - occorre appoggiarsi alla «gente» rappresentata dalle Ong globali e dai movimenti attivi durante i G20.
«Il neoliberismo, oscillante tra l’irrealismo della versione del mercato puro e l’incoerenza della forma aziendalista, resta a metà strada» ci avverte Crouch e «lo si potrà riformare solo se e quando i principali gruppi di interesse del capitalismo mondiale capiranno che flirtare con le forze xenofobe significa mettere a rischio i propri interessi di lungo periodo». Il flirt è parte di una rappresentazione caricaturale degli esiti della Brexit e dell’era dell’«America first» di Trump che, invece, avrebbero meritato maggiore approfondimento. Perché in questo quadro non trovano posto, ad esempio, attori importanti come le Over the top della Silicon Valley, regine di Wall Street e grandi oppositrici della presidenza “populista”, o esponenti di punta del capitalismo globale come il multimiliardario George Soros, diventato il più fiero avversario della svolta xenofoba del leader ungherese Viktor Orban. E non sono dettagli.
Colin Crouch, Salviamo il capitalismo da se stesso , trad. di P. Palminiello,
il Mulino, Bologna, pagg. 110, € 12