Il Sole Domenica 29.4.18
pamphlet
Il capitalismo non sta tanto bene
Per
Colin Crouch ha preso il sopravvento il neoliberismo aziendalista,
cinico e indifferente alle disuguaglianze: aumentano gli egoismi
identitari e le tendenze xenofobe
di Alberto Orioli
È
a un passo dall’autodistruzione, ma il capitalismo si può salvare. Però
non il capitalismo che da una quarantina d’anni va sotto il nome di
neoliberismo, ormai sottoprodotto degenerato di quello cominciato con la
curva di Laffer e i tagli fiscali dell’edonismo reaganiano o con la
falcidia thatcheriana alla spesa pubblica e il trionfo delle
privatizzazioni “stile inglese”. Due forzature, allora, ma due azzardi
di successo che hanno contaminato anche le agende della socialdemocrazia
e della sinistra più moderna. Ma proprio quel mondo, o meglio ciò che
ne è seguito, con la grande crisi finanziaria globale del 2007-8 come
emblema della deriva ferina dell’homo oeconomicus, ora è alle corde.
È
la tesi di Colin Crouch, il sociologo della London school of economics
inventore della post-democrazia, affidata alla sua ultima fatica
Salviamo il capitalismo da se stesso (il Mulino). Crouch da almeno una
decina d’anni studia la «non morte» dell’ideologia del mercato e ora ci
avverte come non tenga più il Pantheon filosofico dell’«ordine
spontaneo» creato dal premio Nobel Friedrich von Hayek, e
dall’entusiasmo dei seguaci della Mont Pelerin Society (in Italia tra i
primi Antonio Martino che ne è stato presidente). Non ha più senso
l’istanza libertaria dellaVirtù dell’egoismo di Ayn Rand, l’istrionica
teorica dell’individuo da opporre all’idea di società.
Crouch
demolisce pezzo per pezzo quel mondo. A cominciare dalle teorie della
musa estremista del guru della Fed Alan Greenspan, il Maestro che Ayn
Rand chiamava affettuosamente «il becchino» dopo averlo ammesso al suo
ambitissimo circolo di adepti di una sorta di culto pagano
dell’egolatria. «L’uomo è un fine in sé e deve esistere solo per amore
di se stesso e mai sacrificarsi per gli altri» predicava la
profetessa-filosofa secondo cui l’equilibrio naturale verso il bene
comune passa attraverso il più sfrenato e sfacciato perseguimento dei
tanti tornaconti personali e singoli. Per Crouch è tempo di correggere
queste perversioni del neoliberismo, pur senza dovere necessariamente
demonizzare il capitalismo. Il confine tra il perseguimento legittimo
degli interessi e la religione dell’egoismo si è fatto troppo labile.
C’è
un neoliberismo del mercato, che non vuole la presenza pubblica,
allergico alle regole e alle cosiddette “esternalità” (sempre negative),
come potrebbe essere ad esempio la cura dell’ambiente, ma comunque
attento a diminuire le asimmetrie informative e l’imperfezione dello
scambio tra domanda e offerta. Corollario importante: la riduzione delle
diseguaglianze. Tiene conto un po’ del fattore di riequilibrio della
spesa pubblica in chiave solidale, retaggio dell’ordoliberalismo della
scuola di Friburgo, meno crudo della versione a stelle e strisce del dio
mercato.
E c’è un neoliberismo aziendalista, una costola legata
alla finanziarizzazione dell’economia e frutto di una rielaborazione
operata dalle grandi imprese e, soprattutto, dalle grandi banche
(bersaglio antico di Crouch, già oggetto di almeno un altro paio di
volumi a cominciare da Il potere dei giganti) secondo cui ciò che conta è
massimizzare i profitti degli azionisti e solo per quella via garantire
anche il bene dei consumatori; non crede nell’idea del mercato perfetto
e, soprattutto, non si cura dell’aumento delle diseguaglianze, danno
collaterale di una concezione oligopolista degli interessi.
Per
Crouch è questa seconda corrente radicale e cinica ad avere preso la
leadership del pensiero capitalista. E ha quindi prodotto un mondo dove
le disparità stanno crescendo: chi non ce la fa si indebita altrimenti
l’economia non gira, e più gira e più i gruppi egemoni sono in grado di
influire sulle politiche pubbliche per perpetuare le diseguaglianze e
l’indebitamento come regola, fino a fare del mondo intero una comunità
fondata sui “pagherò”. E la bolla dei derivati sarebbe stata solo il
prologo per mercati finanziari non disponibili a imparare da quella
tragica temperie.
Il neoliberismo di mercato ha portato con sé
l’annacquamento delle identità nazionali in nome della globalizzazione e
della libera circolazione di merci e persone; ma la prevalenza del ramo
aziendalista ha cambiato la percezione di quelle conquiste e l’esigenza
oligopolista sta ripristinando i confini delle nazioni, gli egoismi e
le barriere identitarie, in un pericoloso crescendo di una nuova
stagione xenofoba, frutto anche dell’aumento endemico delle
diseguaglianze, avvertite soprattutto da quelle che Crouch chiama le
«popolazioni in esubero».
Ed è proprio questa tenaglia
debito-xenofobia, secondo l’autore, a stritolare ormai il capitalismo
moderno. L’allarme sul debito ha trovato di recente più che una conferma
nelle preoccupatissime parole di Christine Lagarde (Fmi): «Nelle
economie avanzate è a livelli mai visti dalla Seconda Guerra mondiale».
La storia ritorna severa per questo neoliberismo, sfibrato anche per la
sua palese incapacità di guardare a orizzonti di lungo periodo.
Il
pamphlet non segue sempre un’argomentazione articolata, ma con
semplificazioni ardite arriva al punto che interessa Crouch: le
contraddizioni tra i due neoliberismi ormai in palese conflitto tra
loro. Posto che il mercato è incapace di autocorreggersi, occorre
prendere atto che il solo compromesso possibile tra le due visioni
ideologiche è «la minaccia alla loro egemonia rappresentata oggi dal
populismo xenofobo».
La conclusione è che l’unica soluzione
possibile sia cedere sovranità ad autorità sovranazionali in grado di
interpretare meglio, qui e ora, la nuova idea di interesse collettivo e
per farlo - questa è la parte più fragile del volume - occorre
appoggiarsi alla «gente» rappresentata dalle Ong globali e dai movimenti
attivi durante i G20.
«Il neoliberismo, oscillante tra
l’irrealismo della versione del mercato puro e l’incoerenza della forma
aziendalista, resta a metà strada» ci avverte Crouch e «lo si potrà
riformare solo se e quando i principali gruppi di interesse del
capitalismo mondiale capiranno che flirtare con le forze xenofobe
significa mettere a rischio i propri interessi di lungo periodo». Il
flirt è parte di una rappresentazione caricaturale degli esiti della
Brexit e dell’era dell’«America first» di Trump che, invece, avrebbero
meritato maggiore approfondimento. Perché in questo quadro non trovano
posto, ad esempio, attori importanti come le Over the top della Silicon
Valley, regine di Wall Street e grandi oppositrici della presidenza
“populista”, o esponenti di punta del capitalismo globale come il
multimiliardario George Soros, diventato il più fiero avversario della
svolta xenofoba del leader ungherese Viktor Orban. E non sono dettagli.
Colin Crouch, Salviamo il capitalismo da se stesso , trad. di P. Palminiello,
il Mulino, Bologna, pagg. 110, € 12