Il Sole Domenica 29.4.18
Violenza sulle donne
Nella mente malata del carnefice
È
la prima causa di morti femminili non naturali in Italia e in Europa.
Dietro litigi e percosse, in un crescendo che può arrivare all’omicidio,
ci sono fattori come l’intossicazione alcolica e la depressione
psicotica. Si tratta di un fenomeno complesso non riducibile a un unico
fattore
di Pietro Pietrini
La violenza maschile è
la prima causa di morte non naturale per le donne in gran parte del
pianeta, Italia ed Europa compresi, come testimonia la cronaca
quotidiana. Le donne uccise, tuttavia, non sono che la punta
dell’iceberg di un fenomeno che comprende una moltitudine di
comportamenti brutali e inumani: dalle aggressioni fisiche alla
segregazione, dalle molestie sessuali alla discriminazione, dal
controllo della libertà individuale alla sottomissione. Atti, tutti
questi, di vera e propria violenza psicologica e morale ancor prima che
fisica, non per questo meno gravi e lesivi.
Una gran parte della
violenza contro la donna nasce e cresce tra le mura domestiche. Litigio
dopo litigio, percossa dopo percossa, in un crescendo che può arrivare
fino al tragico epilogo dell’omicidio: una donna ogni tre giorni nel
nostro Paese, recitano le statistiche. La metà di tutte le donne uccise
lo è per mano del proprio partner, che spesso non si ferma neppure di
fronte ai figli. Come è possibile tutto questo? Come è possibile che la
stessa persona che un tempo ha promesso di “amarti e rispettarti per
tutta la vita” si tramuti in un carnefice?
«La brava moglie
afflitta e senza desideri, spesso già entrata da tempo in climaterio,
viene fantasiosamente trasformata con orrore, cupidigia e odio nella
grande e brillante mondana d’alto bordo. Essa ha iniziato i figli nei
rapporti sessuali; si concede in cantina all’esattore del gas o allo
stagnaro [...]. Non c’è alcun dubbio, basta guardarla, le brillano gli
occhi, ha le mani umide ed è arrossata come la donna che ha appena fatto
all’amore. Molte mogli sono costrette a sottoporsi, sotto pena di
maltrattamenti, a controlli ed inquisizioni. I gelosi vanno in cerca di
tracce di sperma altrui sulla biancheria intima, cercano se i genitali
siano stranamente arrossati, se sulle cosce ci siano tracce di graffi
della barba ruvida di quell’ipocrita dell’appartamento di fronte, che è
certamente anche il padre dell’ultimo nato...». Le parole di Hans Jörg
Weitbrecht, psichiatra tedesco vissuto nel secolo scorso, magistralmente
descrivono il delirio di gelosia nell’alcolista, pronto a cogliere in
ogni gesto della moglie il segno inequivocabile della sua infedeltà.
Abbruttito nel fisico e nella mente dagli effetti dell’abuso, annebbiato
dai fumi dell’alcol quotidiano, ancor prima di cadere preda del
delirio, l’alcolista fa della violenza fisica e verbale la modalità di
interazione con chi ne divide la sorte.
Secondo il National
Institute on Alcoholism and Alcohol Abuse americano, l’intossicazione
alcolica è un fattore rilevante nel25% dei reati violenti in generale e
in oltre la metà degli episodi di violenza che si consumano tra le
pareti domestiche. Violenza domestica che ha conseguenze devastanti,
basti pensare che un ambiente negativo e abusante nel corso
dell’infanzia può letteralmente imprimere una traccia nelle connessioni
cerebrali del bambino e aumentare il rischio che a sua volta possa
diventare un adulto violento o possa ammalarsi di un disturbo depressivo
o di altre patologie psichiatriche. Violenza genera violenza, lo
sappiamo dalle tragedie greche.
Come per l’alcolismo,
comportamenti violenti, inclusi atti estremi, possono essere conseguenza
di patologie psichiche. Alimentata dalla forza sfrenata della acuzie
della follia, la mano dello psicotico delirante arriva a compiere gesta
atroci, troppo spesso frettolosamente liquidate come raptus - termine
che la psichiatria non contempla - ma che nella sua etimologia latina
ben rende l’immagine di una volontà rapita dalla veemenza della malattia
e permette così all’osservatore attonito di farsi una ragione di ciò
che la ragione non riesce a comprendere. I meandri dell’animo umano
rimangono sovente impenetrabili anche alle persone più vicine, persino a
coloro che condividono la quotidianietà dell’esistenza. È quello che
accade nella depressione psicotica, quando il futuro si dissolve come
neve al sole e il presente si fa insopportabilmente opprimente. L’élan
vital, quell’impulso alla vita senza il quale verrebbe meno la
perpetuazione stessa della specie, lascia il passo alla tristezza più
cupa, alla depressione più profonda, all’angoscia più devastante. È
allora che l’umore patibolare prende il sopravvento e quell’uomo magari
un po’ schivo e riservato, quel padre di famiglia sempre gentile ed
educato con tutti - diranno poi i vicini e conoscenti - diviene freddo
regista di una tragedia che non risparmia nessuno. I figli, la moglie,
persino gli animali di casa lo accompagnano in quel tragico atto che
chiamiamo omicidio-suicidio. Un raptus, ripeteranno i notiziari. Nessun
raptus. In un certo senso, siamo di fronte ad un estremo “atto di amore”
di colui che porta con sè le persone che ama, drammatico epilogo di un
male oscuro, la depressione dell’umore, che ancora oggi purtroppo rimane
poco conosciuto e sovente stigmatizzato.
Ma la psichiatria, o
perlomeno le gravi patologie mentali, certo non rendono conto di tutto.
Come per qualsiasi fenomeno complesso, anche in questo caso non si può
ricondurre ad un’unica causa una moltitudine di comportamenti che hanno
origini diverse e spesso lontane ma che condividono una caratteristica
centrale: il venire meno del rispetto della persona, dell’altro.
Uccidere la donna vuol dire annientare la sua libera scelta: la giovane
figlia uccisa dal padre per aver volto lo sguardo e il cuore ad una
cultura diversa, la donna ammazzata dal compagno per aver mosso il passo
oltre i confini di una relazione ormai spenta. In molti casi di
uxoricidio, l’uccisione della donna rappresenta l’ultimo atto di una
tragedia della vita a due, che affonda le sue radici in una malata e
perversa relazione di coppia. In queste relazioni non esiste
condivisione ma solo contrasto, non progettualità di coppia ma
prevaricazione dell’uno sull’altro, non amore e rispetto reciproco ma
possesso e controllo.
È necessario educare i nostri figli, maschi e
femmine, al rispetto dei valori fondanti del vivere civile. Il
riconoscimento della dignità della persona non ha confini di genere, di
orientamento sessuale, geografici, religiosi o di costume. In un mondo
che va incontro a rapidi e inesorabili mutamenti nella composizione dei
tessuti sociali, che vede la convivenza tra persone di culture e
tradizione distanti più nel tempo che nello spazio, il rispetto
incondizionato della donna quale essere umano dotato del diritto/dovere
di autideterminarsi è condizione imprescindibile.