lunedì 30 aprile 2018

Il Sole Domenica 29.4.18
Violenza sulle donne
Nella mente malata del carnefice
È la prima causa di morti femminili non naturali in Italia e in Europa. Dietro litigi e percosse, in un crescendo che può arrivare all’omicidio, ci sono fattori come l’intossicazione alcolica e la depressione psicotica. Si tratta di un fenomeno complesso non riducibile a un unico fattore
di Pietro Pietrini


La violenza maschile è la prima causa di morte non naturale per le donne in gran parte del pianeta, Italia ed Europa compresi, come testimonia la cronaca quotidiana. Le donne uccise, tuttavia, non sono che la punta dell’iceberg di un fenomeno che comprende una moltitudine di comportamenti brutali e inumani: dalle aggressioni fisiche alla segregazione, dalle molestie sessuali alla discriminazione, dal controllo della libertà individuale alla sottomissione. Atti, tutti questi, di vera e propria violenza psicologica e morale ancor prima che fisica, non per questo meno gravi e lesivi.
Una gran parte della violenza contro la donna nasce e cresce tra le mura domestiche. Litigio dopo litigio, percossa dopo percossa, in un crescendo che può arrivare fino al tragico epilogo dell’omicidio: una donna ogni tre giorni nel nostro Paese, recitano le statistiche. La metà di tutte le donne uccise lo è per mano del proprio partner, che spesso non si ferma neppure di fronte ai figli. Come è possibile tutto questo? Come è possibile che la stessa persona che un tempo ha promesso di “amarti e rispettarti per tutta la vita” si tramuti in un carnefice?
«La brava moglie afflitta e senza desideri, spesso già entrata da tempo in climaterio, viene fantasiosamente trasformata con orrore, cupidigia e odio nella grande e brillante mondana d’alto bordo. Essa ha iniziato i figli nei rapporti sessuali; si concede in cantina all’esattore del gas o allo stagnaro [...]. Non c’è alcun dubbio, basta guardarla, le brillano gli occhi, ha le mani umide ed è arrossata come la donna che ha appena fatto all’amore. Molte mogli sono costrette a sottoporsi, sotto pena di maltrattamenti, a controlli ed inquisizioni. I gelosi vanno in cerca di tracce di sperma altrui sulla biancheria intima, cercano se i genitali siano stranamente arrossati, se sulle cosce ci siano tracce di graffi della barba ruvida di quell’ipocrita dell’appartamento di fronte, che è certamente anche il padre dell’ultimo nato...». Le parole di Hans Jörg Weitbrecht, psichiatra tedesco vissuto nel secolo scorso, magistralmente descrivono il delirio di gelosia nell’alcolista, pronto a cogliere in ogni gesto della moglie il segno inequivocabile della sua infedeltà. Abbruttito nel fisico e nella mente dagli effetti dell’abuso, annebbiato dai fumi dell’alcol quotidiano, ancor prima di cadere preda del delirio, l’alcolista fa della violenza fisica e verbale la modalità di interazione con chi ne divide la sorte.
Secondo il National Institute on Alcoholism and Alcohol Abuse americano, l’intossicazione alcolica è un fattore rilevante nel25% dei reati violenti in generale e in oltre la metà degli episodi di violenza che si consumano tra le pareti domestiche. Violenza domestica che ha conseguenze devastanti, basti pensare che un ambiente negativo e abusante nel corso dell’infanzia può letteralmente imprimere una traccia nelle connessioni cerebrali del bambino e aumentare il rischio che a sua volta possa diventare un adulto violento o possa ammalarsi di un disturbo depressivo o di altre patologie psichiatriche. Violenza genera violenza, lo sappiamo dalle tragedie greche.
Come per l’alcolismo, comportamenti violenti, inclusi atti estremi, possono essere conseguenza di patologie psichiche. Alimentata dalla forza sfrenata della acuzie della follia, la mano dello psicotico delirante arriva a compiere gesta atroci, troppo spesso frettolosamente liquidate come raptus - termine che la psichiatria non contempla - ma che nella sua etimologia latina ben rende l’immagine di una volontà rapita dalla veemenza della malattia e permette così all’osservatore attonito di farsi una ragione di ciò che la ragione non riesce a comprendere. I meandri dell’animo umano rimangono sovente impenetrabili anche alle persone più vicine, persino a coloro che condividono la quotidianietà dell’esistenza. È quello che accade nella depressione psicotica, quando il futuro si dissolve come neve al sole e il presente si fa insopportabilmente opprimente. L’élan vital, quell’impulso alla vita senza il quale verrebbe meno la perpetuazione stessa della specie, lascia il passo alla tristezza più cupa, alla depressione più profonda, all’angoscia più devastante. È allora che l’umore patibolare prende il sopravvento e quell’uomo magari un po’ schivo e riservato, quel padre di famiglia sempre gentile ed educato con tutti - diranno poi i vicini e conoscenti - diviene freddo regista di una tragedia che non risparmia nessuno. I figli, la moglie, persino gli animali di casa lo accompagnano in quel tragico atto che chiamiamo omicidio-suicidio. Un raptus, ripeteranno i notiziari. Nessun raptus. In un certo senso, siamo di fronte ad un estremo “atto di amore” di colui che porta con sè le persone che ama, drammatico epilogo di un male oscuro, la depressione dell’umore, che ancora oggi purtroppo rimane poco conosciuto e sovente stigmatizzato.
Ma la psichiatria, o perlomeno le gravi patologie mentali, certo non rendono conto di tutto. Come per qualsiasi fenomeno complesso, anche in questo caso non si può ricondurre ad un’unica causa una moltitudine di comportamenti che hanno origini diverse e spesso lontane ma che condividono una caratteristica centrale: il venire meno del rispetto della persona, dell’altro. Uccidere la donna vuol dire annientare la sua libera scelta: la giovane figlia uccisa dal padre per aver volto lo sguardo e il cuore ad una cultura diversa, la donna ammazzata dal compagno per aver mosso il passo oltre i confini di una relazione ormai spenta. In molti casi di uxoricidio, l’uccisione della donna rappresenta l’ultimo atto di una tragedia della vita a due, che affonda le sue radici in una malata e perversa relazione di coppia. In queste relazioni non esiste condivisione ma solo contrasto, non progettualità di coppia ma prevaricazione dell’uno sull’altro, non amore e rispetto reciproco ma possesso e controllo.
È necessario educare i nostri figli, maschi e femmine, al rispetto dei valori fondanti del vivere civile. Il riconoscimento della dignità della persona non ha confini di genere, di orientamento sessuale, geografici, religiosi o di costume. In un mondo che va incontro a rapidi e inesorabili mutamenti nella composizione dei tessuti sociali, che vede la convivenza tra persone di culture e tradizione distanti più nel tempo che nello spazio, il rispetto incondizionato della donna quale essere umano dotato del diritto/dovere di autideterminarsi è condizione imprescindibile.