lunedì 30 aprile 2018

Il Sole Domenica 29.4.18
I meccanismi del cervello
Un tempo molto personale
di Arnaldo Benini


Quando guardiamo l’orologio per sapere l’ora, a che cosa attribuiamo il valore numerico che il quadrante ci comunica? Un orologio non ha significato fin quando non diventa un dato dell’autocoscienza, cioè fin quando un cervello umano non lo guarda e non collega il suo segnale ad un processo che sente essere presente e costante, e della cui esistenza il cervello sano non dubita: il tempo. Il dato dell’orologio non coincide sempre con ciò che chi lo guarda prova dentro di sé circa il tempo, perché esso è una categoria variabile della vita. Nondimeno sentiamo che la vita scorre e che la natura cambia ciclicamente nel tempo, in modo regolare e ordinato.
La fisica nega la realtà del tempo, che altro non sarebbe che un’illusione tenace. A che cosa si attribuisce il valore numerico dell’orologio, se il tempo non esiste? Come si può misurare l’inesistente? L’irrealtà del tempo postulata dalla fisica è un modello matematico sostenuto sulla base di sole equazioni. Il senso che non solo gli esseri umani, ma tutti gli esseri viventi con sistema nervoso, hanno del tempo è uno dei tralicci coi quali è organizzata la vita nello spazio a tre dimensioni. Lo spazio tridimensionale è prodotto da meccanismi nervosi che il genoma trasmette da una generazione all’altra.
Il mondo tridimensionale non corrisponde alla realtà, ma è un prodotto della selezione naturale che ci fa vivere in un ambiente più gradevole, e quindi più favorevole alla conservazione della specie, di quello reale: non riusciamo nemmeno ad immaginare che cosa sarebbe la vita se percepissimo la terra su cui siamo che gira a velocità altissima su sé stessa e attorno al sole. Già Galileo, prima di Kant, aveva intuito la posizione centrale dell’essere umano nella fenomenologia della conoscenza. Kant sostiene che il senso dello spazio e del tempo sono categorie a priori rispetto all’esperienza del mondo.
Hermann von Helmholtz, a metà del XIX secolo, con esperimenti semplici di grande acutezza sull’elettricità animale, localizzò l’a-priori del tempo, con la sua flessibilità, in meccanismi del cervello. Benjamin Libet, nel secolo scorso, sulla scia di von Helmholtz, dimostrò quanto il rapporto dell’autocoscienza con la realtà e con la propria interiorità sia condizionato dalla neurofisiologia del senso innato del tempo. I lavori di Edward Moser, May-Britt Moser e John O’Keefe sul senso dello spazio, per i quali hanno ricevuto il premio Nobel nel 2014, hanno confermato l’intuizione kantiana che anch’esso è a priori, dovuto a meccanismi del lobo parietale, dell’ippocampo e di aree adiacenti. I meccanismi nervosi congeniti di tempo e spazio sono in parte comuni. Non sorprende che le metafore del tempo siano spesso spaziali (una lunga pausa, un corto intervallo, ecc.).
Con l’orologio si verifica il passare del tempo dal movimento della freccia: lo spostamento nello spazio corrisponde ad un intervallo, cioè ad uno spazio di tempo. Ciò vale, s’è visto, per tutti gli esseri viventi con sistema nervoso, anche se minuscolo come quello delle api e delle formiche. Delle api è noto il senso dello spazio. Il loro senso non numerico del tempo è più preciso di quello umano.
Esiste un tempo assoluto, fissato dagli orologi, che regola la vita sociale, e per questo è chiamato GT (government time). È il tempo proiettato nell’universo come tempo astronomico. Il tempo fenomenologico della vita, invece, è influenzato dai centri dell’emotività ed affettività del sistema limbico. È il PT (personal time), tempo individuale e personale, determinato da processi fisici e mentali. Esso varia secondo le circostanze e lo stato d’animo e non coincide sempre col GT. Il cervello è una time machine, attiva anche nell’incoscienza del sonno: quanta gente si sveglia all’ora voluta senza il trillo d’allarme? Se il cervello è la macchina che collega spazio e tempo, che cosa succede del senso del tempo quando la macchina é invecchiata o lesa? Per le persone avanti negli anni il tempo passato sembra che sia trascorso con grande rapidità: dieci o quindici anni sembrano, per un ottantenne, pochi mesi.
A questa deformazione sensoriale, di cui non si conosce il meccanismo, nessuno si sottrae. Ogni malattia di cui si è coscienti e che impedisce l’attività consueta, altera in qualche misura il PT. Il neurologo dell’università di Londra William Gooddy, che sui disturbi nervosi del tempo ha scritto le prime e insuperate considerazioni, rileva che la difficoltà ad ordinarli dipende dalla soggettività del PT, e dall’estrema complicazione dell’anatomia e fisiologia cerebrali. La diaschisi ne è l’esempio più vistoso: la lesione di un’area circoscritta del cervello può manifestarsi come se fosse colpita un’altra area lontana, il cui funzionamento dipende da lunghi collegamenti con la prima.
Malattie croniche come la depressione grave rallentano il PT al punto che gli ammalati chiedono spesso: «Quando finirà tutto questo?» Il senso del tempo nelle demenze avanzate è alterato per la debolezza della memoria e per la mancanza del senso del passato e del futuro. Alterazioni del PT si hanno nelle epilessie, come l’esperienza del déjà vu. Tumori al cervello, ictus, idrocefalo, infiammazioni, possono causare vistosi difetti del senso del tempo. Nel caso di lesioni benigne, la guarigione non comporta sempre il ritorno del normale senso del tempo.