Il Sole Domenica 29.4.18
I meccanismi del cervello
Un tempo molto personale
di Arnaldo Benini
Quando
guardiamo l’orologio per sapere l’ora, a che cosa attribuiamo il valore
numerico che il quadrante ci comunica? Un orologio non ha significato
fin quando non diventa un dato dell’autocoscienza, cioè fin quando un
cervello umano non lo guarda e non collega il suo segnale ad un processo
che sente essere presente e costante, e della cui esistenza il cervello
sano non dubita: il tempo. Il dato dell’orologio non coincide sempre
con ciò che chi lo guarda prova dentro di sé circa il tempo, perché esso
è una categoria variabile della vita. Nondimeno sentiamo che la vita
scorre e che la natura cambia ciclicamente nel tempo, in modo regolare e
ordinato.
La fisica nega la realtà del tempo, che altro non
sarebbe che un’illusione tenace. A che cosa si attribuisce il valore
numerico dell’orologio, se il tempo non esiste? Come si può misurare
l’inesistente? L’irrealtà del tempo postulata dalla fisica è un modello
matematico sostenuto sulla base di sole equazioni. Il senso che non solo
gli esseri umani, ma tutti gli esseri viventi con sistema nervoso,
hanno del tempo è uno dei tralicci coi quali è organizzata la vita nello
spazio a tre dimensioni. Lo spazio tridimensionale è prodotto da
meccanismi nervosi che il genoma trasmette da una generazione all’altra.
Il
mondo tridimensionale non corrisponde alla realtà, ma è un prodotto
della selezione naturale che ci fa vivere in un ambiente più gradevole, e
quindi più favorevole alla conservazione della specie, di quello reale:
non riusciamo nemmeno ad immaginare che cosa sarebbe la vita se
percepissimo la terra su cui siamo che gira a velocità altissima su sé
stessa e attorno al sole. Già Galileo, prima di Kant, aveva intuito la
posizione centrale dell’essere umano nella fenomenologia della
conoscenza. Kant sostiene che il senso dello spazio e del tempo sono
categorie a priori rispetto all’esperienza del mondo.
Hermann von
Helmholtz, a metà del XIX secolo, con esperimenti semplici di grande
acutezza sull’elettricità animale, localizzò l’a-priori del tempo, con
la sua flessibilità, in meccanismi del cervello. Benjamin Libet, nel
secolo scorso, sulla scia di von Helmholtz, dimostrò quanto il rapporto
dell’autocoscienza con la realtà e con la propria interiorità sia
condizionato dalla neurofisiologia del senso innato del tempo. I lavori
di Edward Moser, May-Britt Moser e John O’Keefe sul senso dello spazio,
per i quali hanno ricevuto il premio Nobel nel 2014, hanno confermato
l’intuizione kantiana che anch’esso è a priori, dovuto a meccanismi del
lobo parietale, dell’ippocampo e di aree adiacenti. I meccanismi nervosi
congeniti di tempo e spazio sono in parte comuni. Non sorprende che le
metafore del tempo siano spesso spaziali (una lunga pausa, un corto
intervallo, ecc.).
Con l’orologio si verifica il passare del tempo
dal movimento della freccia: lo spostamento nello spazio corrisponde ad
un intervallo, cioè ad uno spazio di tempo. Ciò vale, s’è visto, per
tutti gli esseri viventi con sistema nervoso, anche se minuscolo come
quello delle api e delle formiche. Delle api è noto il senso dello
spazio. Il loro senso non numerico del tempo è più preciso di quello
umano.
Esiste un tempo assoluto, fissato dagli orologi, che regola
la vita sociale, e per questo è chiamato GT (government time). È il
tempo proiettato nell’universo come tempo astronomico. Il tempo
fenomenologico della vita, invece, è influenzato dai centri
dell’emotività ed affettività del sistema limbico. È il PT (personal
time), tempo individuale e personale, determinato da processi fisici e
mentali. Esso varia secondo le circostanze e lo stato d’animo e non
coincide sempre col GT. Il cervello è una time machine, attiva anche
nell’incoscienza del sonno: quanta gente si sveglia all’ora voluta senza
il trillo d’allarme? Se il cervello è la macchina che collega spazio e
tempo, che cosa succede del senso del tempo quando la macchina é
invecchiata o lesa? Per le persone avanti negli anni il tempo passato
sembra che sia trascorso con grande rapidità: dieci o quindici anni
sembrano, per un ottantenne, pochi mesi.
A questa deformazione
sensoriale, di cui non si conosce il meccanismo, nessuno si sottrae.
Ogni malattia di cui si è coscienti e che impedisce l’attività consueta,
altera in qualche misura il PT. Il neurologo dell’università di Londra
William Gooddy, che sui disturbi nervosi del tempo ha scritto le prime e
insuperate considerazioni, rileva che la difficoltà ad ordinarli
dipende dalla soggettività del PT, e dall’estrema complicazione
dell’anatomia e fisiologia cerebrali. La diaschisi ne è l’esempio più
vistoso: la lesione di un’area circoscritta del cervello può
manifestarsi come se fosse colpita un’altra area lontana, il cui
funzionamento dipende da lunghi collegamenti con la prima.
Malattie
croniche come la depressione grave rallentano il PT al punto che gli
ammalati chiedono spesso: «Quando finirà tutto questo?» Il senso del
tempo nelle demenze avanzate è alterato per la debolezza della memoria e
per la mancanza del senso del passato e del futuro. Alterazioni del PT
si hanno nelle epilessie, come l’esperienza del déjà vu. Tumori al
cervello, ictus, idrocefalo, infiammazioni, possono causare vistosi
difetti del senso del tempo. Nel caso di lesioni benigne, la guarigione
non comporta sempre il ritorno del normale senso del tempo.