Il Sole Domenica 29.4.18
Mettiamoli in castigo
C’è una generazione di bulli maleducati, ma la colpa è nostra. Perchè abbiamo paura di pronunciare una parola: autorità
di Paola Mastrocola
Scenetta n. 1
Siamo
in un bar molto elegante, un caffè storico nel centro di una grande
città. Divanetti e poltroncine di velluto, boiserie, specchi, tappeti, e
gran carrelli di dolci e salatini. Camerieri in livrea. Le cinque del
pomeriggio. Entra una giovane coppia con bambino, sui quattro anni.
Molto carino, riccioli biondi, camicia a quadri, jeans. Si siedono a un
tavolino, sorridenti. Loro, si siedono, i genitori. Il bambino no. Il
bambino si allunga, si sdraia, si divincola, si contorce, sul divanetto e
poi per terra, dove comincia a strisciare, va sotto le sedie, ne esce,
si mette a correre tra i carrelli, urla, saltella, sbraita. Mamma e papà
si alzano a turno, cercando di riprenderlo, domarlo, acquietarlo. Alla
fine, in due, lo riportano al tavolino, ma non riescono a farlo sedere.
Il bambino ricomincia a sdraiarsi, strisciarsi, scivolare…
La
scena è, per me, molto penosa. Credo anche per quei due ragazzi sulla
trentina, divenuti (loro malgrado, verrebbe da dire!) genitori. La pena
sta nel constatare che non ce la fanno. I due giovani genitori non
riescono proprio: pur tentando in ogni modo, tenero e violento,
mettendocela tutta, impegnandosi, falliscono. Alla fine accettano.
Subiscono. Sopportano. In breve, perdono la battaglia. Il bambino non si
siederà mai, e loro se lo terranno accanto alla bene e meglio,
trattenendolo per un braccio in modo che almeno non vada a correre tra i
tavoli.
Scenetta n. 2
Questa non la vedo con i miei occhi,
me la raccontano. Me la racconta una ragazza rumena che fa la babysitter
presso una famiglia e deve badare a due bambini, due e cinque anni.
Siamo sul pullman. Non so come, attacchiamo bottone e lei si sfoga. Mi
dice che non ne può più. Sta coi bimbi otto ore al giorno, i genitori
non ci sono mai perché lavorano entrambi. Lei fa tutto in casa, stira,
pulisce, fa da mangiare e sta con i piccoli, gioca, li mette a dormire,
dà loro da mangiare. Un inferno. Ma non per l’eccesso di lavoro. È che
mi picchiano, dice. Mi prendono a calci, mi tirano addosso sassi e mi
insultano. Me ne dicono di tutti i colori, il più grande soprattutto mi
urla sempre contro e mi dice Va’ via, brutta… (ometto la parola, perché
non riesco nemmeno a scriverla). Giocano, lo capisco. Ma io non ne posso
più. E ho paura, perché non mi obbediscono mai e ho paura che succeda
qualcosa, e poi ci vado di mezzo io.
Le chiedo se ha informato
della situazione i genitori. Mi dice che lo sanno come sono i loro figli
e le chiedono di aver pazienza; se lei raccontasse loro cosa succede
veramente ogni giorno in casa, potrebbero dire che non è in grado di
tenerli, e magari la licenzierebbero. E io non posso perdere questo
posto di otto ore, non posso proprio.
Scendo alla mia fermata. La
lascio lì, seduta su quel pullman, con la sua grossa sporta di tela in
braccio, le braccia robuste abbandonate in grembo, che scoppiano nella
camicetta troppo stretta, gli occhi persi lontano, credo al suo paese
rumeno dove ha lasciato marito e figlio per venire a lavorare qui da
noi.
Scenetta n. 3
In pizzeria una sera come tante. Tavolata
di amici quarantenni con figli, dai due ai dieci anni più o meno. Figli
che disturbano, urlano, si agitano, schiamazzano, si alzano, corrono
fuori, tornano dentro, si aggrappano alle vesti per chiedere, per avere,
per tormentare, interrompere i discorsi, accentrare l’attenzione.
Solita scena di una sera al ristorante, oggi. Poi, di colpo, tutti i
genitori tacitamente e “naturalmente” concordi piazzano un tablet ai
loro pargoli. E tutto miracolosamente tace e s’acquieta. Regna di colpo
una grande pace.
Scenetta n. 4
Mi è capitato, qualche volta,
di incontrare la… “maleducazione scolastica” (o bullismo?). Anche di
recente, tre anni fa. Era il mio ultimo anno di insegnamento. Ero, si
può dire, un’insegnante quasi anziana; in ogni caso una signora di una
certa età, non più così agile e scattante, ecco. Mi danno un’ora di
supplenza. In una quarta liceo, una classe non mia. Le supplenze sono il
martirio del nostro lavoro: ti sbattono in una classe sconosciuta
davanti a ragazzi sconosciuti a supplire una materia sconosciuta. E tu
non sai che fare. Hai parecchie opzioni: puoi inventarti una lezione
tua, puoi dir loro di lavorare alle loro cose, puoi interrogarli,
sederti con loro a parlare o startene seduta a leggerti un libro. Ognuno
decide quel che vuole, basta che “tenga” la classe. Qual è il problema?
È che tu entri e nessuno ti vede. È come se non fosse entrato nessuno. E
tu sei quel nessuno. Gli studenti continuano a fare quel che stavano
facendo: giocano a carte, chiacchierano seduti sul banco, chattano,
mangiano il panino. Così tu hai la sensazione davvero di non essere
entrato, anzi, di non essere. Ti siedi. Parli. Saluti, fai l’appello,
dici qualcosa, chi sei, cosa insegni. Nulla. Il nulla. Allora ti
innervosisci. Ti sale una collera. Provi a fare la voce grossa, ti parte
qualche ordine, qualche divieto. Niente. Qualcuno si volta e ti fa
cadere addosso uno sguardo tra pietoso e sprezzante. Mi è capitato così,
tre anni fa. Allora mi è partito un discorso veemente, edificante,
moraleggiante, sul rispetto, l’autorità, la gentilezza, il ruolo,
l’educazione, il dovere…. Un disastro. Poi, l’ora è passata. Perché alla
fine le ore passano.
Chiaro, chi fa supplenza non ha potere. E
chi non ha potere non viene rispettato, perché dovrebbe? Il rispetto in
sé, gratuito, non esiste più. Io ti rispetto per paura, per convenienza.
Ti rispetto se sei il mio insegnante titolare, che alla fine dell’anno
mi darà il voto. Se no niente, perché tu sei niente.
Scenetta n. 5
Facevo
terza media in una scuola di periferia. Era il 1969. Avevamo il
grembiulino nero noi bambine, e i maschi la giacca e i calzoni di
vigogna corti al ginocchio. C’è un’ora di supplenza. Entra un professore
che non sappiamo chi sia e cosa insegni. Fa lezione. Ci parla di Konrad
Lorenz e dei suoi esperimenti con le anatre, ci spiega che cos’è la
scienza che si chiama etologia. Nessuno di noi ne sapeva niente. Siamo
stati tutti ad ascoltare per un’ora, in totale silenzio.
Trentasei
anni dopo, nel 2005, scrivo un libro su una piccola anatra che appena
nata non sa chi è, e scambia una pantofola per sua madre. Quella lezione
me la sono ricordata tutta la vita e di sicuro, magari inconsciamente,
deve aver ispirato quella mia storia.
Ancora oggi provo
gratitudine per quel professore, di cui ricordo che indossava un
cappotto blu scuro. Se lo tenne addosso per tutta la lezione.
Cosa voglio dire? Che i tempi sono cambiati? No. Volevo solo parlare della gratitudine.
Scenetta n. 6, 7, 8, 9…….
E
veniamo all’oggi. Al caso ormai noto del professore di Lucca, umiliato
dal suo allievo che gli impone di mettergli sei e di inginocchiarsi. A
cui se ne aggiungono infiniti altri: studente che minaccia la prof di
scioglierla nell’acido, studentessa che scaraventa il banco in testa
alla prof, padre che molla un pugno all’insegnante del figlio. E altro,
linguacce, insulti, gomme forate, sfregi…
Ho inanellato questa
serie di scenette, così diverse e lontane tra di loro, perché credo che
siano invece straordinariamente legate, e unite da una parola cruciale:
autorità.
È questa parola che non tolleriamo più, da una
sessantina d’anni. Per ragioni ideologiche (l’autorità non è
democratica, discrimina, colloca qualcuno in basso e qualcuno in alto),
ma anche per ragioni più esterne che attengono a quel che chiamiamo
progresso: perché viviamo immersi nei social, in questo universo della
rete che ci attrae in modo esorbitante e morboso, e in cui nessuno ha ed
è un’autorità, tutti possono dire la loro, sparare ognuno il loro
pensiero, anche delirante, ignorante, volgare, offensivo, stupido. Tutti
possono parlare, insegnare, scrivere, governare l’Italia. Tutti, di
qualsiasi ceto, età, provenienza, etnia, ruolo, professione, cultura. A
nessuno è riconosciuta alcuna superiorità: culturale, morale. Non
occorre un titolo, né aver dimostrato di saper fare o di sapere qualcosa
più degli altri. Occorre soltanto esserci. Farsi notare, apparire in
video, essere citato, cliccato, condiviso, likato. Azzerata qualsiasi
competenza. Se arrivi a essere in un video, sei. Se no, non esisti.
Visto
che abbiamo in odio qualsiasi forma di autorità, abbiamo smesso di
educare. Nesso causale molto stretto. Educazione e autorità, per quanto
molti fatichino ad ammetterlo, sono piuttosto legate.
Abbiamo
smesso di educare quando abbiamo rifiutato, consapevolmente e
deliberatamente, il concetto di autorità. E l’abbiamo fermamente voluta,
decisa, e perseguita con grande determinazione, questa dismissione
dell’autorità. A partire dagli auctores in senso letterale: via gli
autori grandi del passato, i classici e ogni ipse dixit, conta l’ultimo
libro pubblicato, l’ultimo messaggino su twitter. Uno vale uno.
Certo,
nei casi di bullismo tra ragazzi emerge anche il non rispetto
dell’altro, l’assenza di ogni limite, il narcisistico parossismo
dell’apparire e dell’occupare la scena del mondo ad ogni costo. Ma il
bullismo verso gli insegnanti è altro. È disprezzo per l’autorità.
C’è
un verbo che ho sentito pronunciare da un ragazzo, intervistato a
proposito dell’episodio di Lucca: Non bisognerebbe permettersi, io non
mi sarei permesso. Mi viene in mente che un tempo dicevamo: Ma come ti
permetti? Ecco, il verbo permettere. Noi abbiamo permesso.
Abbiamo
permesso che i nostri figli non obbediscano. Che i nostri studenti non
studino (anzi, abbiamo persino smesso di dare ordini e di imporre
doveri, così il problema nemmeno esiste).
Ma non basta. Non solo non educhiamo. Abbiamo anche permesso che i media e i social dominino le nostre vite.
E
tutto questo inizia dall’inizio, questo è il punto: inizia quando un
bambino nasce. Il punto cruciale è la famiglia, siamo noi, che oggi
siamo gli adulti. Siamo noi genitori che decidiamo, di fronte al figlio
appena nato, se lasciarlo piangere o no, se dargli o no uno scapaccione,
se ficcargli in mano a due anni un telefonino, se rabbonirlo e placarlo
con un filmato, un cartone, un videogioco, per essere lasciati in pace.
Siamo noi che decidiamo di rimproverare o lasciar correre, punire o
premiare o non fare nessuna delle due cose. Siamo noi che permettiamo
che i figli ci saltino in testa mentre ceniamo, parlino mentre stiamo
parlando noi, urlino, distruggano oggetti, insultino la madre, il padre e
la babysitter, non facciano i compiti, copino dai compagni, non aprano
un libro, non si alzino per far sedere un anziano, non salutino il
vicino di casa in ascensore. Siamo noi che li promuoviamo anche se non
studiano, che permettiamo che facciano il chiasso più inverosimile in
classe mentre stiamo facendo lezione. Noi siamo i primi a non essere
rispettosi di noi stessi.
Perché abbiamo permesso tutto questo?
Credo
che sia perché ci fa comodo. Per quieto vivere. Ma ancor di più per
lieto vivere: goderci la vita, prenderci i nostri piaceri in santa pace.
Edonismo. Troppa fatica educare, pretendere, rimproverare, punire. Poco
gratificante e autolesionista. Meglio lasciar perdere. Va bene, abbiamo
di conseguenza figli e allievi ormai ingestibili. Selvaggi senza
regole, cavalli imbizzarriti (Susanna Tamaro ha scritto proprio pochi
giorni fa un articolo stupendo su questo tema: «I ragazzi selvaggi e il
tramonto dell’educazione»). Ma pazienza, gli somministriamo lo
zuccherino: un video, un cartone, gli mettiamo in mano un tablet, uno
smartphone, e tutto si risolve. Loro si placano, scende il silenzio e
noi possiamo cenare, guardarci un film, parlare con gli amici, berci una
birra, farci un aperitivo in piazza, chattare in rete.
Le
conseguenze di tutto ciò le abbiamo chiamate «bullismo». Non dovremmo
stupirci se uno studente prende a testate con tanto di casco da moto
indosso un prof. Quel che sta succedendo è molto semplice: quei ragazzi
non educati ora rivolgono la loro non-educazione contro di noi. Siamo
noi le vittime. Ma siamo stai noi la causa, noi che li abbiamo privati
di regole e principi, limiti e divieti. E ora non possiamo che tacere.
Il professore di Lucca che non dice, non denuncia e occulta il fatto di
cui è vittima, la dice lunga. Silenzio. E non è nemmeno il silenzio
degli innocenti, perché noi non siamo innocenti.
Siamo noi che
abbiamo creato il «bullismo». E ora ci inventiamo i modi per
combatterlo. Geniale! Corsi. Convegni. Petizioni. Piattaforme dove
lanciamo s.o.s. Centri anti-bullismo, associazioni, portali. Parliamo,
discutiamo nei talk show. Auspichiamo leggi, provvedimenti ministeriali
(da una ministra che sta rendendo obbligatorio l’uso dei telefonini in
classe come strumento didattico?).
E non basta, facciamo ancora di
più: ne parliamo a iosa! Occupiamo i giornali e i telegiornali, i siti,
twittiamo e condividiamo, moltiplicando così a dismisura la notizia.
Per esempio, a ogni edizione e riedizione di un tg, mandiamo in onda il
video del prof oltraggiato. Così, se per caso qualcuno si fosse perso il
video sul cellulare, se per disgrazia non fosse stato raggiunto dal
solerte popolo del web, ecco che ci pensano i giornalisti, gli
opinionisti, i signori del talk show.
Ma allora vorrei esagerare:
già che tutto è video, vorrei vedere non solo il video dei ragazzi che
oltraggiano il professore, ma anche il video in cui si prendono le loro
responsabilità, rendono conto, chiedono scusa. E pagano per quel che
hanno commesso. Pubblicamente, davanti a tutti. Se ogni cosa dev’essere
mediatica, lo sia anche la sanzione, non solo l’ingiuria.
Non occhio per occhio, dente per dente. Ma video per video