Il Fatto 30.4.18
Non c’è festa per i dannati della “gig economy”
di Roberto Rotunno
Lavorare
con lentezza”, come cantava nel 1974 Enzo Del Re, non è un lusso che
possono permettersi Ali, Andrea, Bem, Cristina, Fabio e Lorella. Tra
loro c’è chi ogni giorno trasporta merci e pacchi pesanti, chi monta in
bici indossando uno zaino pieno di pizze, chi risponde a decine di
telefonate di clienti arrabbiati e chi accoglie gli avventori di fiere
ed eventi.
Devono tutti essere veloci, attenti, efficienti; alcuni
di loro anche gentili e sorridenti, perché il cliente deve restare
sempre soddisfatto. Se non ci si adegua, quella è la porta: tutti
sostituibili, quindi tutti ricattabili. Il mercato del lavoro è
cambiato, insieme con le nostre abitudini, e a farne le spese sono anche
loro, sei persone normali che hanno imparato a scoprire il lato oscuro
della gig economy, la cosiddetta “economia dei lavoretti”, ma anche del
commercio low cost e, più in generale, della frammentazione dei processi
produttivi che caratterizza il nostro momento storico. Domani Primo
maggio, festa dei lavoratori, sarà tutto un promanare a reti unificate
di retorica e buone intenzioni: credere a quelle parole sarà un altro
lusso che questi non potranno concedersi. Anche perché per alcuni di
loro la festa del lavoro sarà in realtà un giorno come gli altri.
200 ore dietro il basso prezzo di un abito Zara
Ali
(nome di fantasia) viene dal Pakistan e ha solo 25 anni, ma ne può
vantare già sette di esperienza come magazziniere della logistica di
Zara, il noto marchio di abbigliamento con negozi in tutto il mondo.
Oggi è dipendente di una cooperativa che ha sede a Reggello, vicino
Firenze, e per fortuna almeno domani potrà riposarsi. Ma non c’è da
stare allegri, perché da mercoledì tornerà alla vita di sempre, fatta di
turni molto duri e diritti concessi con il contagocce. “Sono pagato a
seconda di quanto tempo passo al lavoro – racconta sforzandosi di
parlare bene italiano – Prendo solo 6,50 all’ora, quindi per mettere su
uno stipendio decente sono costretto a fare anche più di 200 ore in un
mese. Non mi pagano le ferie e nemmeno le giornate di malattia”.
I
vestiti che vengono stoccati in quei capannoni finiscono poi sugli
scaffali dei punti vendita, dove vengono venduti per poche decine di
euro. Chi li compra è contento così, chi li ha trasportati molto meno.
Nel polo fiorentino sono quasi tutti pachistani e bengalesi e alcuni di
loro hanno chiesto aiuto al sindacato di base SiCobas, che la scorsa
settimana ha infatti organizzato uno sciopero per sostenerli.
Tuodì, la rivolta contro il turno 5-17
Un
altro marchio noto per i bassi prezzi è il Tuodì, la catena di
supermercati presenti soprattutto nell’Italia centrale. Il gruppo
proprietario del discount, tra l’altro in crisi dall’estate scorsa, ha
applicato il concetto di parsimonia anche verso i suoi fornitori. Anche
in questo caso, i servizi di logistica sono appaltati all’esterno a un
consorzio di cooperative. Nel magazzino presente nella periferia di Roma
lavorano quasi 200 persone, in netta maggioranza africani, che due mesi
fa si sono ribellati per le condizioni definite massacranti. “Fino a
febbraio – racconta Ben (nome di fantasia) – avevamo un’altra coop con
la quale in alcuni casi, arrivavamo a fare anche 11 o 12 ore in un solo
turno. In pratica dalle cinque di mattina alle cinque del pomeriggio”.
Anche
in questo caso è intervenuto il SiCobas, che ha scritto all’Ispettorato
del lavoro parlando di irregolarità nelle buste paga: “Non c’è un
sistema di timbratura – si legge – quindi le ore di lavoro ordinario
retribuite sono continuamente contestate”. Oggi l’appalto è cambiato –
nella logistica i frequenti cambi di cooperative sono la regola – e le
cose sembrano andare un po’ meglio. “Adesso facciamo otto ore – spiega –
e ci stanno applicando il contratto nazionale di riferimento, ma prima
di stare tranquilli aspettiamo di vedere le prime buste paga”.
Amazon, i “cartellini verdi” a chiamata
È
la logistica, insomma, uno dei settori che più di tutti nasconde storie
come queste. Alcune sono poco conosciute, altre invece sono riuscite a
ottenere la ribalta nazionale. È l’esempio del grande centro Amazon di
Città San Giovanni, in Provincia di Piacenza, dove lo scorso novembre si
è tenuto lo sciopero del Black Friday per chiedere una migliore
organizzazione dei turni.
In questo stabilimento lavorano 4 mila
persone, la metà delle quali con contratti interinali. A quest’ultima
categoria appartiene un ragazzo che noi chiameremo Andrea. Ha iniziato
da più di un anno, ma ancora oggi vede il suo rapporto rinnovato a volte
anche di mese in mese. Per otto ore al giorno, si occupa di caricare
grossi scatoloni contenenti i pacchi che i clienti “Prime” potranno
ricevere praticamente il giorno successivo alla data dell’ordine online.
I ritmi di lavoro li detta un algoritmo, e allora bisogna essere
svelti, perché così i responsabili saranno contenti e si potrà ottenere
la proroga. “Noi precari siamo chiamati cartellini verdi – spiega Andrea
– mentre quelli a tempo indeterminato sono blu. Io spero di ottenere la
stabilizzazione, ma ancora non ho capito come fare a convincerli”.
Per
contratto, deve lavorare tre giorni alla settimana, mentre negli altri
due è a disposizione e può essere chiamato. In questo modo, Amazon ha
ottenuto la flessibilità di cui ha bisogno stipulando un rapporto che di
fatto è a chiamata: nei periodi di picco – per esempio attorno alle
feste natalizie – chiede più giornate, negli altri mesi lascia a casa i
suoi dipendenti.
Tutta la vita davanti, dieci anni dopo
Lo
stress, l’ansia, la fatica non sono concetti conosciuti solo da chi
svolge mansioni manuali. Lorella lo sa bene, avendo lavorato per sedici
anni in un call center, fino a quando anche lei, insieme ad altri 1.665
colleghi, è stata travolta dal grande licenziamento di Almaviva a Roma.
Oggi è disoccupata da un anno e mezzo, la sua storia è un assurdo
percorso a ostacoli. “Ho iniziato nel 2001 con un co.co.co. – dice – e
solo nel 2007 sono stata stabilizzata come part-time a quattro ore. Ho
dovuto lavorare duro per passare a sei ore”.
Ogni giorno con le
cuffie indossate a rispondere a decine di chiamate di clienti scontenti:
“Il nostro compito è lasciarli soddisfatti e fare in modo di chiudere
la telefonata in soli quattro minuti. Un’impresa impossibile, io
lavoravo sulla commessa Eni, se dall’altra parte c’era un signore
anziano, in quattro minuti non riuscivo nemmeno a fargli leggere il
codice cliente sulla bolletta”. Le prestazioni, però, dovevano essere
alte, perché da quello dipendeva la promozione. Nel 2012, poi, sono
iniziati i guai: la crisi, con annesso inizio degli ammortizzatori
sociali che hanno ridotto gli stipendi già bassi. Un limbo durato fino a
fine 2016, quando è arrivato il licenziamento. Ora Lorella è inserita
da un anno e mezzo in un progetto di ricollocazione previsto dal governo
e dalla Regione Lazio, ma i primi corsi di riqualificazione inizieranno
solo in questo mese. “Mi hanno proposto di formarmi nel settore della
comunicazione – aggiunge – ma a 53 anni non me la sento di concorrere
con i trentenni laureati in questa materia. Adesso preferirei un corso
di giardinaggio”.
Arcipelago hostess, professioniste fantasma
Il
mondo delle hostess, degli steward e dei promoter è poco esplorato, ma
anche questo è fatto di precarietà estrema, di contratti brevi che
espongono a un ricatto velato. Qui c’è un’alta percentuale femminile, le
troveremo anche domani ad accoglierci nelle fiere o a promuovere
prodotti nei centri commerciali.
Per candidarsi bisogna passare
tramite agenzie che selezionano le ragazze e le “forniscono” alle
aziende. Cristina è una mamma che vive a Como; dopo la maternità, per
rimettersi in gioco, ha risposto a un annuncio. “Sono quattro anni che
un giorno mi ritrovo a promuovere i biscotti di un’azienda, un altro
giorno i giocattoli di un’altra”. Un contratto vero e proprio per queste
figure non c’è, così le agenzie ci mettono un po’ di fantasia. “A volte
ci inquadrano come prestatrici di lavoro autonomo, altre con contratti
da dipendenti per pochi giorni o al massimo pochi mesi”. Rapporti
interinali, intermittenti, ritenuta d’acconto e chi più ne ha più ne
metta, insomma. Sui compensi vige il libero mercato: “Non c’è un minimo
di riferimento. Io mi propongo sempre di non accettare mai meno di 50
euro a giornata. Ma magari le studentesse che lo fanno giusto per
guadagnare qualcosina ne accettano anche 38, meno di cinque euro
all’ora. Non puoi trattare sulla paga, rischi di non essere più
richiamata”. Ferie e malattie retribuite neanche a nominarle, e a volta
si rischia anche la beffa: “Alcune agenzie – sottolinea Cristina – ti
costringono a pagare penali se disdici la tua presenza a un evento meno
di sette giorni prima. Però se sono loro a dirti all’ultimo che non
servi più, non ti indennizzano”. Pagamenti a volte tre mesi dopo
l’evento, in alcuni casi anche di più: è per questo che le ragazze si
sono organizzate con un gruppo Facebook, per condividere le esperienze e
segnalare le agenzie poco serie.
Una vita sui pedali a rischio della vita
I
social network come forma di condivisione e organizzazione di
lavoratori è una formula sperimentata anche dai rider che consegnano il
cibo a domicilio per aziende come Foodora, Just Eat, Moovenda, Glovo e
Deliveroo. È per quest’ultima che ha lavorato Fabio, nome inventato, che
ha trent’anni e vive a Milano. “Mi pagavano 5,60 euro come fisso orario
e 1,20 euro a consegna. Quindi era a fortuna, se ne riuscivi a fare
tante, guadagnavi di più. Dovevi sperare che il ristorante al quale eri
assegnato non facesse ritardo nella preparazione”. Turni e retribuzioni
decise dall’azienda, peccato che questi lavoratori risultano lavoratori
autonomi sul piano formale. Se il cliente esprime un giudizio negativo,
la responsabilità ricade sul rider che su questo viene valutato in una
classifica. Dunque bisogna andare come un Girardengo, ma stare anche
attento a far arrivare il cibo intatto alla meta. “A Milano – aggiunge
Fabio – c’è quasi un incidente al giorno, ma questi non vengono
catalogati come infortuni sul lavoro, non interviene l’Inail. È una zona
grigia, l’azienda ha fatto un’assicurazione sanitaria integrativa che
riconosce rimborsi entro i massimali, ma nemmeno i ragazzi sanno a
quanto ammontano”.
Anche domani, Primo Maggio, sarà per loro un
giorno lavorativo, ma i movimenti Deliverance Milano e Strike Raiders
hanno deciso di scioperare e sfilare in corteo dalle 14:30 partendo
dalla stazione di Milano Centrale. Almeno durante la manifestazione,
potranno concedersi il piacere di pedalare senza fretta.