domenica 29 aprile 2018

Il Sole Domenica 29.4.18
L’estratto
Dal prodotto all’essere umano
di Karl Marx


Supponiamo di avere prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe nella sua produzione affermato se stesso e l’altro due volte. Io avrei 1) oggettivato nella mia produzione la mia individualità, la sua peculiarità, e avrei quindi goduto, durante l’attività, di una manifestazione individuale della vita, così come nella contemplazione dell’oggetto avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come un potere oggettivo, sensibilmente visibile e quindi elevato al di sopra di ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento o nel tuo uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento della consapevolezza di avere soddisfatto nel mio lavoro un bisogno umano, quindi di avere oggettivato l’essenza umana e avere quindi procurato il suo oggetto corrispondente al bisogno di un altro essere umano, 3) di essere stato per te il mediatore tra te e la specie, quindi di venire inteso e sentito da te stesso come un completamento del tuo proprio essere, come una parte necessaria di te stesso, di sapermi quindi confermato nel tuo pensiero come nel tuo amore, 4) di avere procurato immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, dunque di avere confermato e realizzato immediatamente nella mia attività individuale la mia vera essenz a, la mia essenza comune, umana.
Le nostre produzioni sarebbero come altrettanti specchi dai quali la nostra essenza rilucerebbe a se stessa.
Questo rapporto sarebbe dunque reciproco, dalla tua parte accadrebbe quel che accade dalla mia.
Consideriamo i diversi momenti come compaiono nella supposizione:
Il mio lavoro sarebbe libera manifestazione della vita, quindi godimento della vita. Sotto il presupposto della proprietà privata esso è alienazione della vita, infatti io lavoro per vivere, per procurarmi mezzi per vivere. Il mio lavorare non è vita.
In secondo luogo: nel lavoro sarebbe perciò affermata la peculiarità della mia individualità, poiché mia vita individuale. Il lavoro sarebbe dunque proprietà vera, attiva. Ma sotto il presupposto della proprietà privata la mia individualità è alienata fino al punto in cui questa attività mi è detestabile, è un tormento e piuttosto soltanto la parvenza di un’attività, perciò anche un’attività soltanto imposta è soltanto da un accidentale bisogno esteriore, non da un necessario bisogno interiore.
Il mio lavoro può apparire nel mio oggetto solo come quel che è. Non può apparire come quel che non è per sua essenza. Quindi esso appare ancora soltanto come l’espressione oggettiva, sensibile, contemplata e perciò al di sopra di ogni dubbio, della mia perdita di me stesso e della mia impotenza.

Testo estratto dalle pagine 210-211 di: Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, e altre pagine su lavoro e alienazione , a cura di Enrico Donaggio e Peter Kammerer,
Feltrinelli, Milano, pagg. 272, in libreria dal 23 maggio

«Pochi spettacoli sono più avvincenti , per chi è sensibile al fascino delle idee, di un grande pensatore per la prima volta alle prese con problemi nuovi, in caccia di prospettive e soluzioni inedite» scrivono Enrico Donaggio e Peter Kammerer, in questa nuova edizione dei Manoscritti economico filosofici che Feltrinelli manderà in libreria il prossimo 23 maggio (un’edizione arricchita di molti inediti rispetto alla prima edizione, anch’essa pubblicata postuma nel 1932).
Qui riprendiamo il passaggio dove Marx formula per la prima volta la categoria di feticismo della merce. Una scoperta che cambia radicalmente i suoi interessi. Il concetto che motiva Marx, fino a quel momento immerso nei problemi della filosofia, a scegliere l’economia come disciplina chiave per spiegare l’essenza dell’agire umano. Una dinamica affascinante e terribile al tempo stesso dove l’economia si manifesta attraverso l’indicazione della sua patologia: sono le merci a impadronirsi degli uomini fino a ridurli a cose. Il compito dello studio critico dell’economia è farli tornare ad essere di nuovo persone.
David Bidussa

Il Sole Domenica 29.4.18
KARL MARX: il bicentenario
Intellettuale Capitale
A 200 anni dalla nascita, e dopo la rivoluzione dell’89, il pensiero del filosofo sembra lontano. Ma la sua critica dialoga con le teorie della giustizia di oggi
di Mario Ricciardi


Nell’aprile del 1895, Antonio Labriola comincia a redigere quello che diventerà uno dei suoi scritti più famosi: In memoria del Manifesto dei comunisti. A spingerlo a intraprendere questo lavoro è l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario della pubblicazione dell’opuscolo di Marx ed Engels la cui «forza germinativa» – l’espressione è di Labriola – avrebbe dato un contributo decisivo alla trasformazione di uno dei tanti gruppuscoli rivoluzionari che davano filo da torcere alle autorità europee intorno alla metà del diciannovesimo secolo in una forza politica di straordinaria efficacia, che avrebbe segnato, nel bene e nel male, la storia del mondo per più di un secolo.
Rileggere le pagine del saggio di Labriola oggi, quando ci accingiamo a celebrare i duecento anni della nascita di Marx, e abbiamo da poco superato i centosettanta dalla pubblicazione dello stesso Manifesto, è di straordinario interesse. Labriola ci restituisce un mondo che per molti versi ricorda quello in cui viviamo, plasmato da una fase di globalizzazione dell’economia che stava trasformando profondamente i modi di produzione, i costumi sociali e le istituzioni. Lo scritto di Marx ed Engels era stato ispirato dall’esplosione dei moti del 1848, che avevano alimentato negli autori la speranza che la rivoluzione che avrebbe portato al crollo del Capitalismo, e all’instaurazione di una nuova società, fosse a portata di mano. La delusione provocata dal fallimento di quelle insurrezioni, che condussero invece al consolidarsi delle monarchie continentali e al trionfo della borghesia come nuova classe dominante, avrebbe spinto Marx ad approfondire lo studio dell’economia politica, che aveva intrapreso all’inizio degli anni Quaranta, e all’avvio del cantiere intellettuale che lo avrebbe tenuto impegnato per il resto della vita: lo studio del Capitale, e delle sue “leggi” di formazione e sviluppo. La discussione delle tesi del Marx maturo, e il dialogo con Engels, furono determinanti per la formazione degli intellettuali della generazione di Labriola. Consolidando in essi la convinzione che il 1848, come sarebbe stata più tardi la Comune di Parigi, fossero passaggi necessari di un lungo travaglio, le convulsioni finali della trasformazione che avrebbe alla fine vendicato la previsione di Marx relativa all’avvento inevitabile di una nuova era in cui lo sfruttamento sarebbe stato superato grazie all’avvento del comunismo. Pochi anni dopo la pubblicazione del saggio di Labriola, il successo della rivoluzione bolscevica sarebbe diventato il puntello di questa convinzione per la generazione successiva.
Quando, nel 1918, si celebrarono i primi cento anni dalla nascita di Marx, avvenuta a Treviri, in Renania, nel maggio del 1818, l’anniversario ebbe un carattere del tutto peculiare. Per i seguaci non si festeggiava semplicemente un intellettuale e un attivista politico, ma una figura di culto, il profeta di un nuovo mondo. Per gli avversari, il capo di una setta, l’untore che aveva messo in circolazione un virus che correva il rischio di erodere le fondamenta dell’ordine sociale. Difficile trovare un esempio migliore di come la prospettiva storica condiziona il nostro giudizio sugli eventi. Nel 1918 era quasi impossibile, anche per gli osservatori più lucidi, distinguere Marx dalla storia degli effetti delle sue azioni e delle sue opere. Intrecciati in modo inestricabile per amici e nemici. Oggi la situazione è cambiata in modo significativo. La stessa crisi che ha condotto, dopo un’altra rivoluzione europea, nel 1989, al crollo dei regimi sovietici, è sottoposta al giudizio della storia, come mostra il bel libro di Timothy Snyder pubblicato nelle scorse settimane, e questo ci restituisce la libertà di leggere e valutare Marx in modo nuovo, senza proiettare sulla sua straordinaria vicenda umana e intellettuale gli effetti di eventi politici che lui ha senza dubbio contribuito in modo decisivo a mettere in moto, ma di cui non può certo portare la piena responsabilità morale.
Un contributo prezioso a questa nuova lettura di Marx portano due lavori di recente pubblicazione, la splendida biografia di Gareth Stedman Jones (Karl Marx. Greatness and Illusion, Penguin, Londra 2017) e il saggio critico di Jonathan Wolff (Perché leggere Marx?, Il Mulino, Bologna 2018). L’autore del primo è uno storico delle idee, che è riuscito, forse per la prima volta, a scrivere una biografia di Marx che sfugge alle tentazioni opposte dell’agiografia e della requisitoria d’accusa, ricostruendo la genesi e lo sviluppo del pensiero di una figura che è molto difficile catalogare in base alle nostre categorie odierne. Marx è infatti filosofo, economista, attivista politico, ma ciascuna di queste attività aveva nel diciannovesimo secolo confini meno definiti di quelli che le attribuiremmo oggi in base alle nostre convenzioni accademiche.
La filosofia di Marx è quella di un “giovane hegeliano” che non si rivolge a un pubblico di professori, e non scrive per riviste con peer review. L’analisi sfuma nell’invettiva, la scienza non è una professione ma un complemento di una vita tumultuosa, che cerca di dar senso e direzione all’indignazione e alla rabbia suscitate dalle ingiustizie di un modo di produzione che sembra ridurre l’essere umano a una merce tra le altre. Le pagine più appassionanti del libro di Stedman Jones sono quelle che coprono gli anni giovanili di Marx, fino al 1848, il suo corpo a corpo con Hegel, la scoperta di Feuerbach, la prima formulazione del materialismo storico. Esse ci restituiscono in pieno la voce di un giovane poco più che ventenne, che esplora il mondo delle idee con la foga di chi non si accontenta di descrivere il mondo, perché vuole cambiarlo. Ciò che ne viene fuori è un pensiero pieno di intuizioni vitali – come quelle sull’alienazione dei manoscritti filosofici del 1844 – e di “sentieri interrotti” che lo condurranno a un confronto serrato con l’economia politica dei classici, in particolare Smith e Ricardo. Questo è forse l’aspetto del pensiero di Marx che meno ha retto l’usura del tempo. La rivoluzione intellettuale avviata dai marginalisti a partire dalla fine del diciannovesimo secolo ha eroso i pilastri su cui si ergeva, in equilibrio precario, l’edificio incompiuto del Capitale. La teoria del valore, come aveva visto con lucidità Vilfredo Pareto già al volgere del secolo, sembra resa obsoleta dal nuovo paradigma che finirà per dominare il Novecento. Anche se non sono mancati, anche di recente, come nel caso di Piketty, tentativi di riportare al centro della riflessione economica le idee di Marx, si fatica a credere che essi possano avere successo. Così come risulta arduo rivalutare il Marx politico, la sua fiducia nella rivoluzione, la sua disinvoltura – che va ben oltre quella di Hegel – nel considerare la violenza come la «levatrice della storia».
Riportandolo al suo contesto storico, Stedman Jones ci fa capire che Marx è inevitabilmente diverso da noi. La sua esperienza di agitatore, rifugiato, intellettuale impegnato porta in primo piano ciò che nella democrazia parlamentare è – per fortuna? – marginale. Ciò non vuol dire certo che il pensiero di Marx sia per noi privo di interesse. La critica del modo di produzione capitalistico che egli propone, liberata dalla pretesa di aver scoperto le leggi di sviluppo della storia, entra in dialogo fecondo con le teorie contemporanee della giustizia, come mostra il bel libro di Wolff, un filosofo di Oxford con un grande talento di divulgatore. Soprattutto, essa è un salutare antidoto all’autocompiacimento dei liberali, all’illusione che la storia sia finita negli anni novanta del Novecento. Anche oggi, come nel 1848, spettri si aggirano per l’Europa. Marx, che aveva un talento nel riconoscere i sintomi della crisi, non ne sarebbe stupito.
Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion , Penguin, Londra, pagg. 750, € 14,61
Jonathan Wolff, Perché leggere Marx? ,
il Mulino, Bologna, pagg. 118,
€ 10,20
Vilfredo Pareto, Il capitale , Aragno, Torino, pagg. 68, € 10
Timothy Snyder, Roads to Unfreedom: Russia, Europe, America , Tim Duggan Books, New York, pagg. 369,
€ 18,91

Il Sole Domenica 29.4.18
Le idee
Il nodo tra politica ed economia
di Sebastiano Maffettone


Marx, letto e studiato a oltranza negli anni Sessanta, è stato messo da parte dopo il 1989. Può essere utile a 200 anni dalla sua nascita tentare un bilancio “anacronistico” -cioè, dal punto di vista di noi oggi- della sua opera: che cosa ci rimane di utile e attuale nel suo pensiero?
La prima cosa da chiarire in un bilancio siffatto è che Marx è più un profondo critico del capitalismo, e con esso della liberal-democrazia, che un profeta del comunismo. Sul comunismo in verità scrisse poco, mentre sul capitalismo scrisse più di 30mila pagine. La sua opera più importante dopotutto si chiama Il Capitale e non Il Socialismo o Il Comunismo. Marx ebbe come scopo principale quello di denunciare i guasti, spesso a suo avviso occulti, che il capitalismo come sistema sociale ed economico causava, e le conseguenze politiche che ne seguivano. Le crisi contemporanee di capitalismo e democrazia rendono assai interessanti queste critiche.
Un aspetto di Marx su cui è, invece, più arduo scommettere consiste nella filosofia della storia che eredita, modificandola, da alcune interpretazioni di Hegel. Che la storia si muova verso un fine predeterminato e progressivo che si può dedurre dall’analisi del passato è cosa difficile da credere. Lo stesso può dirsi per quanto riguarda il ruolo dell’individuo, che ipotesi fortemente strutturaliste come quella di Marx tendono a negare. L’idea che gli individui non possano scegliere nulla autenticamente perché tutto è pre-determinato dalla logica implicita nella storia sembra sbagliata e persino aberrante. La maggior parte di noi crede che ci siano decisioni alternative che possiamo prendere in contesti concreti, e che queste decisioni siano basilari per una teoria etica e una teoria economica ragionevoli. Inoltre, se Marx avesse ragione, la politica stessa – cui pure il grande rivoluzionario teneva assai! – non avrebbe molto senso.
Di pari passo, si può dire che il materialismo storico – dottrina che è spesso attribuita in parte sostanziale a Engels – sia tramontato. Marx sosteneva che «l’essere determina la coscienza». Ma non è facile comprendere ciò che questa frase voglia dire. Ancora una volta, l’idea centrale – oltre alla vaga suggestione che alcuni processi storici sono irreversibili – è quella che esistano spiegazioni socio-economiche che corrispondono a un qualche fine della storia. Ma dato che i fini della storia sono un’entità misteriosissima, anche in questo caso siamo avvolti da una fitta coltre di nebbia. Tutto ciò rende improbabile anche avere fiducia nella concezione materialistica della storia, che pure ha indubbi meriti intellettuali. Per questa ragione, la stessa tesi della corrispondenza necessaria tra forze produttive e relazioni di produzione, pur essendo non priva di fascino, resta difficile da argomentare. La stessa teoria economica complessiva di Marx può essere considerata nella sostanza un parziale fallimento, anche se vi sono alcune periferiche eccezioni e alcune intuizioni formidabili. In generale, è proprio la teoria del valore-lavoro – con gli addentellati della merce e del plusvalore – che non sembra al passo della scienza economica contemporanea. Senza una considerazione indipendente dei prezzi e dell’equilibrio economico generale non si può comprendere la realtà economica. Analoga cosa può dirsi per la tesi sul crollo del capitalismo, e non solo perché questo crollo non c’è stato nei termini di Marx, ma anche perché la ragioni addotte per giustificarlo non sembrano buone ragioni.
Infine, quello che rende più perplessi nel valutare l’opera complessiva di Marx è la sproporzione assoluta tra pars destruens e pars construens. Se, in sostanza, Marx è un critico illuminato dei principali difetti del capitalismo – la coazione a massimizzare l’utile, la reificazione dei rapporti umani etc. – la sua capacità di prospettare una soluzione alternativa – come il comunismo – lascia quantomeno perplessi. E, lo si noti, non solo perché per quanto ne possiamo sapere il comunismo si è rivelato una tragedia storica. Ma anche perché non è possibile capire come il comunismo in quanto «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» possa funzionare se stiamo a quanto Marx dice in proposito.
Proprio quanto detto nell’ultimo capoverso, fornisce qualche suggerimento su che cosa ci resta di vivo e fecondo di Marx. La prima cosa è proprio la mistura inimitabile di filosofia post-hegeliana e analisi economica - una sorta di umanesimo sui generis - che Marx riesce a concepire. La contraddizione che Marx scorge nel capitalismo è frutto di una visione dialettica della realtà che, tra i suoi meriti, ha quello di farci guardare allo sviluppo economico con uno sguardo più profondo. Lo scopo del sistema economico - Marx ci aiuta a capire - non può essere solo quello di produrre sempre di più. Deve essere anche quello di contribuire a realizzare una umanità migliore. In questo, è possibile credere che Marx avesse profondamente ragione. Proprio per ciò, parti vive e vere del suo lavoro sono quelle che riguardano l’alienazione e lo sfruttamento.
Un altro punto vivo e fecondo di Marx poggia sull’analisi del rapporto tra economia e politica. Se Marx è sicuramente eccessivo nel volere far dipendere la politica – e in genere tutto il sistema dei rapporti culturali e etico-legali – dalla struttura economica, tuttavia resta importante capire che la politica in un mondo capitalistico è fortemente influenzata dal sistema economico. I capitalisti influenzano la democrazia in maniera lecita e illecita, tramite il lobbismo e la corruzione. Contro questa vocazione disciplinante del capitalismo, che protegge i propri interessi comperando il consenso, Marx aiuta a costruire una resistenza intellettuale, morale e politica.
Ciò ammesso, va anche detto che – pur dando a Marx quel che è di Marx – bisogna ammettere che la sua condanna delle liberal-democrazia e con essa di ogni forma di socialismo liberale e democratico appare troppo drastica. Non è vero che le libertà costituzionali classiche e le procedure democratiche siano puramente formali, anche se è vero che bisogna proteggerle dalla tirannia di una minoranza ricca e potente. Per fare qualcosa del genere, è difficile non tenere conto di quanto suggeriscono le teorie liberal della giustizia, per cui la proprietà privata dei mezzi di produzione è consentita ma solo a patto che in questo modo si contribuisca a realizzare princìpi di giustizia liberali e egualitari. Al tempo stesso, una soluzione del genere garantisce la tutela degli interessi morali dei cittadini, e quindi resiste alla critica di Marx, secondo cui capitalismo e liberal-democrazia sarebbero l’altra faccia di una società civile in cui convivono individui egoisti chiusi gli uni rispetto agli altri. I princìpi di giustizia creano invece un clima di solidarietà diffusa che evita un effetto del genere. È chiaro che questo è quanto auspicherebbe la società comunista che Marx invoca. Ma proprio la società comunista in questione appare in tensione con quei vincoli che riguardano la scarsità moderata dei beni e la benevolenza limitata delle persone, vincoli che è impossibile trascurare nell’ambito di qualsivoglia visione normale della giustizia. È da questo punto di vista che la società comunista di Marx risulta utopica in senso negativo. In sostanza, la critica marxiana di capitalismo e liberal-democrazia non trova in un regime di socialismo centralistico una risposta adeguata, ma nulla esclude che possa trovarla nell’ambito di una visione della giustizia liberal e social-democratica.
Certo, ho finito con il presentare un Marx “migliore” senza comunismo e teoria del valore-lavoro nonché paladino della giustizia distributiva e della politica democratica. Non è esattamente quello che lui voleva. Ma se fosse comunque meglio leggerlo così?

Il Sole Domenica 29.4.18
pamphlet
Il capitalismo non sta tanto bene
Per Colin Crouch ha preso il sopravvento il neoliberismo aziendalista, cinico e indifferente alle disuguaglianze: aumentano gli egoismi identitari e le tendenze xenofobe
di Alberto Orioli


È a un passo dall’autodistruzione, ma il capitalismo si può salvare. Però non il capitalismo che da una quarantina d’anni va sotto il nome di neoliberismo, ormai sottoprodotto degenerato di quello cominciato con la curva di Laffer e i tagli fiscali dell’edonismo reaganiano o con la falcidia thatcheriana alla spesa pubblica e il trionfo delle privatizzazioni “stile inglese”. Due forzature, allora, ma due azzardi di successo che hanno contaminato anche le agende della socialdemocrazia e della sinistra più moderna. Ma proprio quel mondo, o meglio ciò che ne è seguito, con la grande crisi finanziaria globale del 2007-8 come emblema della deriva ferina dell’homo oeconomicus, ora è alle corde.
È la tesi di Colin Crouch, il sociologo della London school of economics inventore della post-democrazia, affidata alla sua ultima fatica Salviamo il capitalismo da se stesso (il Mulino). Crouch da almeno una decina d’anni studia la «non morte» dell’ideologia del mercato e ora ci avverte come non tenga più il Pantheon filosofico dell’«ordine spontaneo» creato dal premio Nobel Friedrich von Hayek, e dall’entusiasmo dei seguaci della Mont Pelerin Society (in Italia tra i primi Antonio Martino che ne è stato presidente). Non ha più senso l’istanza libertaria dellaVirtù dell’egoismo di Ayn Rand, l’istrionica teorica dell’individuo da opporre all’idea di società.
Crouch demolisce pezzo per pezzo quel mondo. A cominciare dalle teorie della musa estremista del guru della Fed Alan Greenspan, il Maestro che Ayn Rand chiamava affettuosamente «il becchino» dopo averlo ammesso al suo ambitissimo circolo di adepti di una sorta di culto pagano dell’egolatria. «L’uomo è un fine in sé e deve esistere solo per amore di se stesso e mai sacrificarsi per gli altri» predicava la profetessa-filosofa secondo cui l’equilibrio naturale verso il bene comune passa attraverso il più sfrenato e sfacciato perseguimento dei tanti tornaconti personali e singoli. Per Crouch è tempo di correggere queste perversioni del neoliberismo, pur senza dovere necessariamente demonizzare il capitalismo. Il confine tra il perseguimento legittimo degli interessi e la religione dell’egoismo si è fatto troppo labile.
C’è un neoliberismo del mercato, che non vuole la presenza pubblica, allergico alle regole e alle cosiddette “esternalità” (sempre negative), come potrebbe essere ad esempio la cura dell’ambiente, ma comunque attento a diminuire le asimmetrie informative e l’imperfezione dello scambio tra domanda e offerta. Corollario importante: la riduzione delle diseguaglianze. Tiene conto un po’ del fattore di riequilibrio della spesa pubblica in chiave solidale, retaggio dell’ordoliberalismo della scuola di Friburgo, meno crudo della versione a stelle e strisce del dio mercato.
E c’è un neoliberismo aziendalista, una costola legata alla finanziarizzazione dell’economia e frutto di una rielaborazione operata dalle grandi imprese e, soprattutto, dalle grandi banche (bersaglio antico di Crouch, già oggetto di almeno un altro paio di volumi a cominciare da Il potere dei giganti) secondo cui ciò che conta è massimizzare i profitti degli azionisti e solo per quella via garantire anche il bene dei consumatori; non crede nell’idea del mercato perfetto e, soprattutto, non si cura dell’aumento delle diseguaglianze, danno collaterale di una concezione oligopolista degli interessi.
Per Crouch è questa seconda corrente radicale e cinica ad avere preso la leadership del pensiero capitalista. E ha quindi prodotto un mondo dove le disparità stanno crescendo: chi non ce la fa si indebita altrimenti l’economia non gira, e più gira e più i gruppi egemoni sono in grado di influire sulle politiche pubbliche per perpetuare le diseguaglianze e l’indebitamento come regola, fino a fare del mondo intero una comunità fondata sui “pagherò”. E la bolla dei derivati sarebbe stata solo il prologo per mercati finanziari non disponibili a imparare da quella tragica temperie.
Il neoliberismo di mercato ha portato con sé l’annacquamento delle identità nazionali in nome della globalizzazione e della libera circolazione di merci e persone; ma la prevalenza del ramo aziendalista ha cambiato la percezione di quelle conquiste e l’esigenza oligopolista sta ripristinando i confini delle nazioni, gli egoismi e le barriere identitarie, in un pericoloso crescendo di una nuova stagione xenofoba, frutto anche dell’aumento endemico delle diseguaglianze, avvertite soprattutto da quelle che Crouch chiama le «popolazioni in esubero».
Ed è proprio questa tenaglia debito-xenofobia, secondo l’autore, a stritolare ormai il capitalismo moderno. L’allarme sul debito ha trovato di recente più che una conferma nelle preoccupatissime parole di Christine Lagarde (Fmi): «Nelle economie avanzate è a livelli mai visti dalla Seconda Guerra mondiale». La storia ritorna severa per questo neoliberismo, sfibrato anche per la sua palese incapacità di guardare a orizzonti di lungo periodo.
Il pamphlet non segue sempre un’argomentazione articolata, ma con semplificazioni ardite arriva al punto che interessa Crouch: le contraddizioni tra i due neoliberismi ormai in palese conflitto tra loro. Posto che il mercato è incapace di autocorreggersi, occorre prendere atto che il solo compromesso possibile tra le due visioni ideologiche è «la minaccia alla loro egemonia rappresentata oggi dal populismo xenofobo».
La conclusione è che l’unica soluzione possibile sia cedere sovranità ad autorità sovranazionali in grado di interpretare meglio, qui e ora, la nuova idea di interesse collettivo e per farlo - questa è la parte più fragile del volume - occorre appoggiarsi alla «gente» rappresentata dalle Ong globali e dai movimenti attivi durante i G20.
«Il neoliberismo, oscillante tra l’irrealismo della versione del mercato puro e l’incoerenza della forma aziendalista, resta a metà strada» ci avverte Crouch e «lo si potrà riformare solo se e quando i principali gruppi di interesse del capitalismo mondiale capiranno che flirtare con le forze xenofobe significa mettere a rischio i propri interessi di lungo periodo». Il flirt è parte di una rappresentazione caricaturale degli esiti della Brexit e dell’era dell’«America first» di Trump che, invece, avrebbero meritato maggiore approfondimento. Perché in questo quadro non trovano posto, ad esempio, attori importanti come le Over the top della Silicon Valley, regine di Wall Street e grandi oppositrici della presidenza “populista”, o esponenti di punta del capitalismo globale come il multimiliardario George Soros, diventato il più fiero avversario della svolta xenofoba del leader ungherese Viktor Orban. E non sono dettagli.
Colin Crouch, Salviamo il capitalismo da se stesso , trad. di P. Palminiello,
il Mulino, Bologna, pagg. 110, € 12

Il Sole Domenica 29.4.18
Violenza sulle donne
Nella mente malata del carnefice
È la prima causa di morti femminili non naturali in Italia e in Europa. Dietro litigi e percosse, in un crescendo che può arrivare all’omicidio, ci sono fattori come l’intossicazione alcolica e la depressione psicotica. Si tratta di un fenomeno complesso non riducibile a un unico fattore
di Pietro Pietrini


La violenza maschile è la prima causa di morte non naturale per le donne in gran parte del pianeta, Italia ed Europa compresi, come testimonia la cronaca quotidiana. Le donne uccise, tuttavia, non sono che la punta dell’iceberg di un fenomeno che comprende una moltitudine di comportamenti brutali e inumani: dalle aggressioni fisiche alla segregazione, dalle molestie sessuali alla discriminazione, dal controllo della libertà individuale alla sottomissione. Atti, tutti questi, di vera e propria violenza psicologica e morale ancor prima che fisica, non per questo meno gravi e lesivi.
Una gran parte della violenza contro la donna nasce e cresce tra le mura domestiche. Litigio dopo litigio, percossa dopo percossa, in un crescendo che può arrivare fino al tragico epilogo dell’omicidio: una donna ogni tre giorni nel nostro Paese, recitano le statistiche. La metà di tutte le donne uccise lo è per mano del proprio partner, che spesso non si ferma neppure di fronte ai figli. Come è possibile tutto questo? Come è possibile che la stessa persona che un tempo ha promesso di “amarti e rispettarti per tutta la vita” si tramuti in un carnefice?
«La brava moglie afflitta e senza desideri, spesso già entrata da tempo in climaterio, viene fantasiosamente trasformata con orrore, cupidigia e odio nella grande e brillante mondana d’alto bordo. Essa ha iniziato i figli nei rapporti sessuali; si concede in cantina all’esattore del gas o allo stagnaro [...]. Non c’è alcun dubbio, basta guardarla, le brillano gli occhi, ha le mani umide ed è arrossata come la donna che ha appena fatto all’amore. Molte mogli sono costrette a sottoporsi, sotto pena di maltrattamenti, a controlli ed inquisizioni. I gelosi vanno in cerca di tracce di sperma altrui sulla biancheria intima, cercano se i genitali siano stranamente arrossati, se sulle cosce ci siano tracce di graffi della barba ruvida di quell’ipocrita dell’appartamento di fronte, che è certamente anche il padre dell’ultimo nato...». Le parole di Hans Jörg Weitbrecht, psichiatra tedesco vissuto nel secolo scorso, magistralmente descrivono il delirio di gelosia nell’alcolista, pronto a cogliere in ogni gesto della moglie il segno inequivocabile della sua infedeltà. Abbruttito nel fisico e nella mente dagli effetti dell’abuso, annebbiato dai fumi dell’alcol quotidiano, ancor prima di cadere preda del delirio, l’alcolista fa della violenza fisica e verbale la modalità di interazione con chi ne divide la sorte.
Secondo il National Institute on Alcoholism and Alcohol Abuse americano, l’intossicazione alcolica è un fattore rilevante nel25% dei reati violenti in generale e in oltre la metà degli episodi di violenza che si consumano tra le pareti domestiche. Violenza domestica che ha conseguenze devastanti, basti pensare che un ambiente negativo e abusante nel corso dell’infanzia può letteralmente imprimere una traccia nelle connessioni cerebrali del bambino e aumentare il rischio che a sua volta possa diventare un adulto violento o possa ammalarsi di un disturbo depressivo o di altre patologie psichiatriche. Violenza genera violenza, lo sappiamo dalle tragedie greche.
Come per l’alcolismo, comportamenti violenti, inclusi atti estremi, possono essere conseguenza di patologie psichiche. Alimentata dalla forza sfrenata della acuzie della follia, la mano dello psicotico delirante arriva a compiere gesta atroci, troppo spesso frettolosamente liquidate come raptus - termine che la psichiatria non contempla - ma che nella sua etimologia latina ben rende l’immagine di una volontà rapita dalla veemenza della malattia e permette così all’osservatore attonito di farsi una ragione di ciò che la ragione non riesce a comprendere. I meandri dell’animo umano rimangono sovente impenetrabili anche alle persone più vicine, persino a coloro che condividono la quotidianietà dell’esistenza. È quello che accade nella depressione psicotica, quando il futuro si dissolve come neve al sole e il presente si fa insopportabilmente opprimente. L’élan vital, quell’impulso alla vita senza il quale verrebbe meno la perpetuazione stessa della specie, lascia il passo alla tristezza più cupa, alla depressione più profonda, all’angoscia più devastante. È allora che l’umore patibolare prende il sopravvento e quell’uomo magari un po’ schivo e riservato, quel padre di famiglia sempre gentile ed educato con tutti - diranno poi i vicini e conoscenti - diviene freddo regista di una tragedia che non risparmia nessuno. I figli, la moglie, persino gli animali di casa lo accompagnano in quel tragico atto che chiamiamo omicidio-suicidio. Un raptus, ripeteranno i notiziari. Nessun raptus. In un certo senso, siamo di fronte ad un estremo “atto di amore” di colui che porta con sè le persone che ama, drammatico epilogo di un male oscuro, la depressione dell’umore, che ancora oggi purtroppo rimane poco conosciuto e sovente stigmatizzato.
Ma la psichiatria, o perlomeno le gravi patologie mentali, certo non rendono conto di tutto. Come per qualsiasi fenomeno complesso, anche in questo caso non si può ricondurre ad un’unica causa una moltitudine di comportamenti che hanno origini diverse e spesso lontane ma che condividono una caratteristica centrale: il venire meno del rispetto della persona, dell’altro. Uccidere la donna vuol dire annientare la sua libera scelta: la giovane figlia uccisa dal padre per aver volto lo sguardo e il cuore ad una cultura diversa, la donna ammazzata dal compagno per aver mosso il passo oltre i confini di una relazione ormai spenta. In molti casi di uxoricidio, l’uccisione della donna rappresenta l’ultimo atto di una tragedia della vita a due, che affonda le sue radici in una malata e perversa relazione di coppia. In queste relazioni non esiste condivisione ma solo contrasto, non progettualità di coppia ma prevaricazione dell’uno sull’altro, non amore e rispetto reciproco ma possesso e controllo.
È necessario educare i nostri figli, maschi e femmine, al rispetto dei valori fondanti del vivere civile. Il riconoscimento della dignità della persona non ha confini di genere, di orientamento sessuale, geografici, religiosi o di costume. In un mondo che va incontro a rapidi e inesorabili mutamenti nella composizione dei tessuti sociali, che vede la convivenza tra persone di culture e tradizione distanti più nel tempo che nello spazio, il rispetto incondizionato della donna quale essere umano dotato del diritto/dovere di autideterminarsi è condizione imprescindibile.

Il Sole Domenica 29.4.18
I meccanismi del cervello
Un tempo molto personale
di Arnaldo Benini


Quando guardiamo l’orologio per sapere l’ora, a che cosa attribuiamo il valore numerico che il quadrante ci comunica? Un orologio non ha significato fin quando non diventa un dato dell’autocoscienza, cioè fin quando un cervello umano non lo guarda e non collega il suo segnale ad un processo che sente essere presente e costante, e della cui esistenza il cervello sano non dubita: il tempo. Il dato dell’orologio non coincide sempre con ciò che chi lo guarda prova dentro di sé circa il tempo, perché esso è una categoria variabile della vita. Nondimeno sentiamo che la vita scorre e che la natura cambia ciclicamente nel tempo, in modo regolare e ordinato.
La fisica nega la realtà del tempo, che altro non sarebbe che un’illusione tenace. A che cosa si attribuisce il valore numerico dell’orologio, se il tempo non esiste? Come si può misurare l’inesistente? L’irrealtà del tempo postulata dalla fisica è un modello matematico sostenuto sulla base di sole equazioni. Il senso che non solo gli esseri umani, ma tutti gli esseri viventi con sistema nervoso, hanno del tempo è uno dei tralicci coi quali è organizzata la vita nello spazio a tre dimensioni. Lo spazio tridimensionale è prodotto da meccanismi nervosi che il genoma trasmette da una generazione all’altra.
Il mondo tridimensionale non corrisponde alla realtà, ma è un prodotto della selezione naturale che ci fa vivere in un ambiente più gradevole, e quindi più favorevole alla conservazione della specie, di quello reale: non riusciamo nemmeno ad immaginare che cosa sarebbe la vita se percepissimo la terra su cui siamo che gira a velocità altissima su sé stessa e attorno al sole. Già Galileo, prima di Kant, aveva intuito la posizione centrale dell’essere umano nella fenomenologia della conoscenza. Kant sostiene che il senso dello spazio e del tempo sono categorie a priori rispetto all’esperienza del mondo.
Hermann von Helmholtz, a metà del XIX secolo, con esperimenti semplici di grande acutezza sull’elettricità animale, localizzò l’a-priori del tempo, con la sua flessibilità, in meccanismi del cervello. Benjamin Libet, nel secolo scorso, sulla scia di von Helmholtz, dimostrò quanto il rapporto dell’autocoscienza con la realtà e con la propria interiorità sia condizionato dalla neurofisiologia del senso innato del tempo. I lavori di Edward Moser, May-Britt Moser e John O’Keefe sul senso dello spazio, per i quali hanno ricevuto il premio Nobel nel 2014, hanno confermato l’intuizione kantiana che anch’esso è a priori, dovuto a meccanismi del lobo parietale, dell’ippocampo e di aree adiacenti. I meccanismi nervosi congeniti di tempo e spazio sono in parte comuni. Non sorprende che le metafore del tempo siano spesso spaziali (una lunga pausa, un corto intervallo, ecc.).
Con l’orologio si verifica il passare del tempo dal movimento della freccia: lo spostamento nello spazio corrisponde ad un intervallo, cioè ad uno spazio di tempo. Ciò vale, s’è visto, per tutti gli esseri viventi con sistema nervoso, anche se minuscolo come quello delle api e delle formiche. Delle api è noto il senso dello spazio. Il loro senso non numerico del tempo è più preciso di quello umano.
Esiste un tempo assoluto, fissato dagli orologi, che regola la vita sociale, e per questo è chiamato GT (government time). È il tempo proiettato nell’universo come tempo astronomico. Il tempo fenomenologico della vita, invece, è influenzato dai centri dell’emotività ed affettività del sistema limbico. È il PT (personal time), tempo individuale e personale, determinato da processi fisici e mentali. Esso varia secondo le circostanze e lo stato d’animo e non coincide sempre col GT. Il cervello è una time machine, attiva anche nell’incoscienza del sonno: quanta gente si sveglia all’ora voluta senza il trillo d’allarme? Se il cervello è la macchina che collega spazio e tempo, che cosa succede del senso del tempo quando la macchina é invecchiata o lesa? Per le persone avanti negli anni il tempo passato sembra che sia trascorso con grande rapidità: dieci o quindici anni sembrano, per un ottantenne, pochi mesi.
A questa deformazione sensoriale, di cui non si conosce il meccanismo, nessuno si sottrae. Ogni malattia di cui si è coscienti e che impedisce l’attività consueta, altera in qualche misura il PT. Il neurologo dell’università di Londra William Gooddy, che sui disturbi nervosi del tempo ha scritto le prime e insuperate considerazioni, rileva che la difficoltà ad ordinarli dipende dalla soggettività del PT, e dall’estrema complicazione dell’anatomia e fisiologia cerebrali. La diaschisi ne è l’esempio più vistoso: la lesione di un’area circoscritta del cervello può manifestarsi come se fosse colpita un’altra area lontana, il cui funzionamento dipende da lunghi collegamenti con la prima.
Malattie croniche come la depressione grave rallentano il PT al punto che gli ammalati chiedono spesso: «Quando finirà tutto questo?» Il senso del tempo nelle demenze avanzate è alterato per la debolezza della memoria e per la mancanza del senso del passato e del futuro. Alterazioni del PT si hanno nelle epilessie, come l’esperienza del déjà vu. Tumori al cervello, ictus, idrocefalo, infiammazioni, possono causare vistosi difetti del senso del tempo. Nel caso di lesioni benigne, la guarigione non comporta sempre il ritorno del normale senso del tempo.

Il Sole Domenica 29.4.18
Cultura visuale
Indisciplinati modi di vedere
La recente scoperta, in Spagna, di alcune pitture rupestri eseguite da uomini di Neanderthal
di Anna Li Vigni


La recente scoperta, in Spagna, di alcune pitture rupestri eseguite da uomini di Neanderthal ha rivoluzionato molte nostre supposizioni sulle origini culturali della specie Homo. Non soltanto Sapiens sapiens ha testimoniato la propria presenza sul pianeta ricorrendo a immagini, ma anche il neanderthaliensis ha assecondato questa necessità. Nel corso dell’evoluzione, l’uomo ha prodotto e sviluppato al contempo forme sia linguistiche sia figurative che, senza alcuna gerarchia in termini di importanza, rispondono entrambe a esigenze cognitive fondamentali per la sopravvivenza della specie.
La cultura occidentale, però, tradizionalmente portata a sopravvalutare il linguaggio, ci ha abituati a leggere la visione in termini linguistici, a interpretare le immagini come “testi” da descrivere verbalmente – dall’antica tecnica retorica dell’ékphrasis, la descrizione di opere d’arte, fino alla moderna semiotica dell’arte visiva -, un atteggiamento che si è definitivamente radicato con la «svolta linguistica» novecentesca (il Linguistic Turn di Rorty), che ha fatto del linguaggio un paradigma universale.
Da tutto questo Tom Mitchell, padre del Pictorial Turn, ha ben preso le distanze ormai un paio di decenni fa. Il suo rivoluzionario approccio alle immagini ha decretato la nascita della Cultura Visuale che, a detta dello stesso Mitchell, più che una disciplina è un’«indisciplina», in quanto ripensa radicalmente molti approcci tradizionali al vedere come quelli dell’estetica e della storia dell’arte.
Le principali questioni concernenti la Visual Culture sono esposte in una raccolta di saggi fondamentali di Mitchell, intitolata appunto Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, per la cura di Michele Cometa e Valeria Cammarata. Il pensatore americano fonda la propria “svolta” epistemologica sulla convinzione che il visivo e il verbale siano assolutamente irriducibili l’uno all’altro, ed è da ricusare ogni possibile comparazione tra di essi, dal momento che le immagini vanno guardate secondo una prospettiva rigorosamente visuale, che possiede leggi sue proprie.
Per immagini, però, la cultura visuale intende ogni tipo di raffigurazione e immagine possibile – dal dipinto alla pubblicità, dal reportage giornalistico al film, ai prodotti della tecnologia digitale – allargando la sfera dell’esperienza della visione a ogni ambito del vivere, anche e soprattutto quello quotidiano, all’interno del quale, però, spesso è rintracciabile una forte condensazione culturale: si prenda a esempio la tremenda fotografia dell’Hooded Man di Abu Ghraib, che rinvia alle radici iconografiche dell’Ecce Homo.
Rileggendo criticamente lo strabordante fenomeno dell’odierno «terrorismo delle immagini», potenziato a dismisura dalla tecnologia web con esiti evidentemente più che drammatici, Mitchell sottolinea l’assoluta necessità nonché l’urgenza di un nuovo approccio al vedere, che sia fondamentalmente antropologico. La domanda non è, dunque, «che cosa sono le immagini», ma come funzionano, ovvero «che cosa vogliono da noi», visto che – come dimostrato pure dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze – esse possiedono un’intrinseca “capacità di agire”, provocando reazioni significative negli spettatori. È opportuna la distinzione tra immagini mentali (Images) e materiali (Pictures), le quali ultime sono veicolate da supporti che ne diffondono il potere nel contesto sociale e da pratiche mediatiche che ne amplificano la pervasività.
Ciò che emerge è l’eccezionalità delle condizioni cui è soggetta la pratica del vedere nel mondo contemporaneo, laddove le reazioni sociali al visuale sono macroscopiche: «Il nostro Pictorial Turn è solo uno degli innumerevoli Pictorial Turn della storia, un momento di addensamento culturale e sociale che scaturisce da un nuovo rapporto tra l’uomo e l’immagine, rapporto profondamente condizionato dalle nuove tecnologie». Si tratta di costruire una scienza dell’immagine che vada più a fondo nella comprensione delle dinamiche umane del vedere - dai graffiti preistorici ai new media -, di elaborare quindi un’archeologia dell’immagine che si possa risolvere pure in un’«archeologia del presente» alla luce della quale, come scrive Cometa nella splendida introduzione, si «cominci a riconoscere che la contemporaneità è forse più misteriosa per noi del passato più distante».
Tom Mitchell, Pictorial turn. Saggi
di cultura visuale , a cura di Michele Cometa e Valeria Cammarata, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 243, € 24

Il Sole Domenica 29.4.18
Mettiamoli in castigo
C’è una generazione di bulli maleducati, ma la colpa è nostra. Perchè abbiamo paura di pronunciare una parola: autorità
di Paola Mastrocola


Scenetta n. 1
Siamo in un bar molto elegante, un caffè storico nel centro di una grande città. Divanetti e poltroncine di velluto, boiserie, specchi, tappeti, e gran carrelli di dolci e salatini. Camerieri in livrea. Le cinque del pomeriggio. Entra una giovane coppia con bambino, sui quattro anni. Molto carino, riccioli biondi, camicia a quadri, jeans. Si siedono a un tavolino, sorridenti. Loro, si siedono, i genitori. Il bambino no. Il bambino si allunga, si sdraia, si divincola, si contorce, sul divanetto e poi per terra, dove comincia a strisciare, va sotto le sedie, ne esce, si mette a correre tra i carrelli, urla, saltella, sbraita. Mamma e papà si alzano a turno, cercando di riprenderlo, domarlo, acquietarlo. Alla fine, in due, lo riportano al tavolino, ma non riescono a farlo sedere. Il bambino ricomincia a sdraiarsi, strisciarsi, scivolare…
La scena è, per me, molto penosa. Credo anche per quei due ragazzi sulla trentina, divenuti (loro malgrado, verrebbe da dire!) genitori. La pena sta nel constatare che non ce la fanno. I due giovani genitori non riescono proprio: pur tentando in ogni modo, tenero e violento, mettendocela tutta, impegnandosi, falliscono. Alla fine accettano. Subiscono. Sopportano. In breve, perdono la battaglia. Il bambino non si siederà mai, e loro se lo terranno accanto alla bene e meglio, trattenendolo per un braccio in modo che almeno non vada a correre tra i tavoli.
Scenetta n. 2
Questa non la vedo con i miei occhi, me la raccontano. Me la racconta una ragazza rumena che fa la babysitter presso una famiglia e deve badare a due bambini, due e cinque anni. Siamo sul pullman. Non so come, attacchiamo bottone e lei si sfoga. Mi dice che non ne può più. Sta coi bimbi otto ore al giorno, i genitori non ci sono mai perché lavorano entrambi. Lei fa tutto in casa, stira, pulisce, fa da mangiare e sta con i piccoli, gioca, li mette a dormire, dà loro da mangiare. Un inferno. Ma non per l’eccesso di lavoro. È che mi picchiano, dice. Mi prendono a calci, mi tirano addosso sassi e mi insultano. Me ne dicono di tutti i colori, il più grande soprattutto mi urla sempre contro e mi dice Va’ via, brutta… (ometto la parola, perché non riesco nemmeno a scriverla). Giocano, lo capisco. Ma io non ne posso più. E ho paura, perché non mi obbediscono mai e ho paura che succeda qualcosa, e poi ci vado di mezzo io.
Le chiedo se ha informato della situazione i genitori. Mi dice che lo sanno come sono i loro figli e le chiedono di aver pazienza; se lei raccontasse loro cosa succede veramente ogni giorno in casa, potrebbero dire che non è in grado di tenerli, e magari la licenzierebbero. E io non posso perdere questo posto di otto ore, non posso proprio.
Scendo alla mia fermata. La lascio lì, seduta su quel pullman, con la sua grossa sporta di tela in braccio, le braccia robuste abbandonate in grembo, che scoppiano nella camicetta troppo stretta, gli occhi persi lontano, credo al suo paese rumeno dove ha lasciato marito e figlio per venire a lavorare qui da noi.
Scenetta n. 3
In pizzeria una sera come tante. Tavolata di amici quarantenni con figli, dai due ai dieci anni più o meno. Figli che disturbano, urlano, si agitano, schiamazzano, si alzano, corrono fuori, tornano dentro, si aggrappano alle vesti per chiedere, per avere, per tormentare, interrompere i discorsi, accentrare l’attenzione. Solita scena di una sera al ristorante, oggi. Poi, di colpo, tutti i genitori tacitamente e “naturalmente” concordi piazzano un tablet ai loro pargoli. E tutto miracolosamente tace e s’acquieta. Regna di colpo una grande pace.
Scenetta n. 4
Mi è capitato, qualche volta, di incontrare la… “maleducazione scolastica” (o bullismo?). Anche di recente, tre anni fa. Era il mio ultimo anno di insegnamento. Ero, si può dire, un’insegnante quasi anziana; in ogni caso una signora di una certa età, non più così agile e scattante, ecco. Mi danno un’ora di supplenza. In una quarta liceo, una classe non mia. Le supplenze sono il martirio del nostro lavoro: ti sbattono in una classe sconosciuta davanti a ragazzi sconosciuti a supplire una materia sconosciuta. E tu non sai che fare. Hai parecchie opzioni: puoi inventarti una lezione tua, puoi dir loro di lavorare alle loro cose, puoi interrogarli, sederti con loro a parlare o startene seduta a leggerti un libro. Ognuno decide quel che vuole, basta che “tenga” la classe. Qual è il problema? È che tu entri e nessuno ti vede. È come se non fosse entrato nessuno. E tu sei quel nessuno. Gli studenti continuano a fare quel che stavano facendo: giocano a carte, chiacchierano seduti sul banco, chattano, mangiano il panino. Così tu hai la sensazione davvero di non essere entrato, anzi, di non essere. Ti siedi. Parli. Saluti, fai l’appello, dici qualcosa, chi sei, cosa insegni. Nulla. Il nulla. Allora ti innervosisci. Ti sale una collera. Provi a fare la voce grossa, ti parte qualche ordine, qualche divieto. Niente. Qualcuno si volta e ti fa cadere addosso uno sguardo tra pietoso e sprezzante. Mi è capitato così, tre anni fa. Allora mi è partito un discorso veemente, edificante, moraleggiante, sul rispetto, l’autorità, la gentilezza, il ruolo, l’educazione, il dovere…. Un disastro. Poi, l’ora è passata. Perché alla fine le ore passano.
Chiaro, chi fa supplenza non ha potere. E chi non ha potere non viene rispettato, perché dovrebbe? Il rispetto in sé, gratuito, non esiste più. Io ti rispetto per paura, per convenienza. Ti rispetto se sei il mio insegnante titolare, che alla fine dell’anno mi darà il voto. Se no niente, perché tu sei niente.
Scenetta n. 5
Facevo terza media in una scuola di periferia. Era il 1969. Avevamo il grembiulino nero noi bambine, e i maschi la giacca e i calzoni di vigogna corti al ginocchio. C’è un’ora di supplenza. Entra un professore che non sappiamo chi sia e cosa insegni. Fa lezione. Ci parla di Konrad Lorenz e dei suoi esperimenti con le anatre, ci spiega che cos’è la scienza che si chiama etologia. Nessuno di noi ne sapeva niente. Siamo stati tutti ad ascoltare per un’ora, in totale silenzio.
Trentasei anni dopo, nel 2005, scrivo un libro su una piccola anatra che appena nata non sa chi è, e scambia una pantofola per sua madre. Quella lezione me la sono ricordata tutta la vita e di sicuro, magari inconsciamente, deve aver ispirato quella mia storia.
Ancora oggi provo gratitudine per quel professore, di cui ricordo che indossava un cappotto blu scuro. Se lo tenne addosso per tutta la lezione.
Cosa voglio dire? Che i tempi sono cambiati? No. Volevo solo parlare della gratitudine.
Scenetta n. 6, 7, 8, 9…….
E veniamo all’oggi. Al caso ormai noto del professore di Lucca, umiliato dal suo allievo che gli impone di mettergli sei e di inginocchiarsi. A cui se ne aggiungono infiniti altri: studente che minaccia la prof di scioglierla nell’acido, studentessa che scaraventa il banco in testa alla prof, padre che molla un pugno all’insegnante del figlio. E altro, linguacce, insulti, gomme forate, sfregi…
Ho inanellato questa serie di scenette, così diverse e lontane tra di loro, perché credo che siano invece straordinariamente legate, e unite da una parola cruciale: autorità.
È questa parola che non tolleriamo più, da una sessantina d’anni. Per ragioni ideologiche (l’autorità non è democratica, discrimina, colloca qualcuno in basso e qualcuno in alto), ma anche per ragioni più esterne che attengono a quel che chiamiamo progresso: perché viviamo immersi nei social, in questo universo della rete che ci attrae in modo esorbitante e morboso, e in cui nessuno ha ed è un’autorità, tutti possono dire la loro, sparare ognuno il loro pensiero, anche delirante, ignorante, volgare, offensivo, stupido. Tutti possono parlare, insegnare, scrivere, governare l’Italia. Tutti, di qualsiasi ceto, età, provenienza, etnia, ruolo, professione, cultura. A nessuno è riconosciuta alcuna superiorità: culturale, morale. Non occorre un titolo, né aver dimostrato di saper fare o di sapere qualcosa più degli altri. Occorre soltanto esserci. Farsi notare, apparire in video, essere citato, cliccato, condiviso, likato. Azzerata qualsiasi competenza. Se arrivi a essere in un video, sei. Se no, non esisti.
Visto che abbiamo in odio qualsiasi forma di autorità, abbiamo smesso di educare. Nesso causale molto stretto. Educazione e autorità, per quanto molti fatichino ad ammetterlo, sono piuttosto legate.
Abbiamo smesso di educare quando abbiamo rifiutato, consapevolmente e deliberatamente, il concetto di autorità. E l’abbiamo fermamente voluta, decisa, e perseguita con grande determinazione, questa dismissione dell’autorità. A partire dagli auctores in senso letterale: via gli autori grandi del passato, i classici e ogni ipse dixit, conta l’ultimo libro pubblicato, l’ultimo messaggino su twitter. Uno vale uno.
Certo, nei casi di bullismo tra ragazzi emerge anche il non rispetto dell’altro, l’assenza di ogni limite, il narcisistico parossismo dell’apparire e dell’occupare la scena del mondo ad ogni costo. Ma il bullismo verso gli insegnanti è altro. È disprezzo per l’autorità.
C’è un verbo che ho sentito pronunciare da un ragazzo, intervistato a proposito dell’episodio di Lucca: Non bisognerebbe permettersi, io non mi sarei permesso. Mi viene in mente che un tempo dicevamo: Ma come ti permetti? Ecco, il verbo permettere. Noi abbiamo permesso.
Abbiamo permesso che i nostri figli non obbediscano. Che i nostri studenti non studino (anzi, abbiamo persino smesso di dare ordini e di imporre doveri, così il problema nemmeno esiste).
Ma non basta. Non solo non educhiamo. Abbiamo anche permesso che i media e i social dominino le nostre vite.
E tutto questo inizia dall’inizio, questo è il punto: inizia quando un bambino nasce. Il punto cruciale è la famiglia, siamo noi, che oggi siamo gli adulti. Siamo noi genitori che decidiamo, di fronte al figlio appena nato, se lasciarlo piangere o no, se dargli o no uno scapaccione, se ficcargli in mano a due anni un telefonino, se rabbonirlo e placarlo con un filmato, un cartone, un videogioco, per essere lasciati in pace. Siamo noi che decidiamo di rimproverare o lasciar correre, punire o premiare o non fare nessuna delle due cose. Siamo noi che permettiamo che i figli ci saltino in testa mentre ceniamo, parlino mentre stiamo parlando noi, urlino, distruggano oggetti, insultino la madre, il padre e la babysitter, non facciano i compiti, copino dai compagni, non aprano un libro, non si alzino per far sedere un anziano, non salutino il vicino di casa in ascensore. Siamo noi che li promuoviamo anche se non studiano, che permettiamo che facciano il chiasso più inverosimile in classe mentre stiamo facendo lezione. Noi siamo i primi a non essere rispettosi di noi stessi.
Perché abbiamo permesso tutto questo?
Credo che sia perché ci fa comodo. Per quieto vivere. Ma ancor di più per lieto vivere: goderci la vita, prenderci i nostri piaceri in santa pace. Edonismo. Troppa fatica educare, pretendere, rimproverare, punire. Poco gratificante e autolesionista. Meglio lasciar perdere. Va bene, abbiamo di conseguenza figli e allievi ormai ingestibili. Selvaggi senza regole, cavalli imbizzarriti (Susanna Tamaro ha scritto proprio pochi giorni fa un articolo stupendo su questo tema: «I ragazzi selvaggi e il tramonto dell’educazione»). Ma pazienza, gli somministriamo lo zuccherino: un video, un cartone, gli mettiamo in mano un tablet, uno smartphone, e tutto si risolve. Loro si placano, scende il silenzio e noi possiamo cenare, guardarci un film, parlare con gli amici, berci una birra, farci un aperitivo in piazza, chattare in rete.
Le conseguenze di tutto ciò le abbiamo chiamate «bullismo». Non dovremmo stupirci se uno studente prende a testate con tanto di casco da moto indosso un prof. Quel che sta succedendo è molto semplice: quei ragazzi non educati ora rivolgono la loro non-educazione contro di noi. Siamo noi le vittime. Ma siamo stai noi la causa, noi che li abbiamo privati di regole e principi, limiti e divieti. E ora non possiamo che tacere. Il professore di Lucca che non dice, non denuncia e occulta il fatto di cui è vittima, la dice lunga. Silenzio. E non è nemmeno il silenzio degli innocenti, perché noi non siamo innocenti.
Siamo noi che abbiamo creato il «bullismo». E ora ci inventiamo i modi per combatterlo. Geniale! Corsi. Convegni. Petizioni. Piattaforme dove lanciamo s.o.s. Centri anti-bullismo, associazioni, portali. Parliamo, discutiamo nei talk show. Auspichiamo leggi, provvedimenti ministeriali (da una ministra che sta rendendo obbligatorio l’uso dei telefonini in classe come strumento didattico?).
E non basta, facciamo ancora di più: ne parliamo a iosa! Occupiamo i giornali e i telegiornali, i siti, twittiamo e condividiamo, moltiplicando così a dismisura la notizia. Per esempio, a ogni edizione e riedizione di un tg, mandiamo in onda il video del prof oltraggiato. Così, se per caso qualcuno si fosse perso il video sul cellulare, se per disgrazia non fosse stato raggiunto dal solerte popolo del web, ecco che ci pensano i giornalisti, gli opinionisti, i signori del talk show.
Ma allora vorrei esagerare: già che tutto è video, vorrei vedere non solo il video dei ragazzi che oltraggiano il professore, ma anche il video in cui si prendono le loro responsabilità, rendono conto, chiedono scusa. E pagano per quel che hanno commesso. Pubblicamente, davanti a tutti. Se ogni cosa dev’essere mediatica, lo sia anche la sanzione, non solo l’ingiuria.
Non occhio per occhio, dente per dente. Ma video per video