domenica 29 aprile 2018

Corriere La Lettura 29.4.18
Il filosofo catalano Josep Maria Esquirol
La ribellione educata: ci salverà la fratellanza
di Elisabetta Rosaspina


La sua è una ribellione educata, silente, caparbia. Una rivolta che arriva da Barcellona, ma non s’indirizza contro Madrid. Può essere confusa con l’individualismo, eppure è l’esatto contrario. Si fonda sulla fratellanza, però non si riconosce in una fede religiosa. Semmai s’ispira a Theodor Adorno, Blaise Pascal, Walter Benjamin, soprattutto Emmanuel Lévinas e Jan Patocka. È l’opposizione garbata ed erudita a un immenso e sfuggente oppressore che il filosofo catalano Josep Maria Esquirol riassume nel termine actualidad. Ha a che vedere con l’egemonia di un mondo dove la tecnologia, portata all’eccesso, diventa alienante. Dove tutto invecchia in fretta. Dove la società, schiava della bulimica ansia di esibirsi e competere, ha perso il senso della vita e incassa massicce dosi di frustrazione.
Nel saggio La resistenza intima (Vita e Pensiero), Esquirol avverte: «Non esiste resistenza senza modestia o generosità. Per questo, la presunzione e l’egoismo sono sintomi della sua assenza. Narciso non è un resistente». Esquirol, personalmente, sfugge da tempo ai salotti e ai dibattiti televisivi, le ambitissime tertulias spagnole, e segue le indicazioni di Novalis: «Filosofia è la nostalgia di stare a casa». Anche evitando talk show e cenacoli, il filosofo catalano è ormai un punto di riferimento: il suo libro (a cui presto si aggiungerà un seguito) è uscito in Spagna per i tipi di Acantilado nel 2015, si è diffuso con il passaparola anche tra il pubblico non specializzato e gli ha portato il prestigioso Premio nazionale di saggistica, conferito dal ministero della Cultura. Fra poco Esquirol verrà in Italia: prima dell’incontro al Bergamo Festival Fare la Pace (vedi la scheda qui accanto), sarà a Milano il 10 maggio presso la Libreria Vita e Pensiero (Largo Agostino Gemelli 1, ore 17.30) per presentare il suo saggio.
Professor Esquirol, si può dire che questo libro parla delle debolezze umane: l’ansia di successo, il protagonismo...
«L’idea generale di questo saggio è che l’essere umano si trova sempre in situazioni dove agiscono forze disgregatrici. Sono molti gli elementi disgregatori che toccano la nostra società: sì, certamente, il successo è uno di questi. Così come la competizione, il consumismo. Diventa quindi un gesto umano fondamentale tentare di proteggerci, curarci, difenderci da ogni tipo di logoramento, di entropia. Si tratta di resistere di fronte a tutto ciò che ci disgrega».
Ed ecco l’antidoto, la «filosofia della prossimità»: un invito al recupero della semplicità quotidiana, alla riscoperta della solitudine. Quindi all’autonomia del singolo?
«No, in assoluto no. Non è una forma di individualismo. Anzi. Prossimità e prossimo hanno la stessa radice, giusto? Prossimità indica vicinanza, amicizia, cameratismo, affetto. È proprio l’opposto dell’individualismo, dell’isolamento. Distinguiamo fra isolamento e solitudine: il primo è tipico di una società consumista e massificata, formata da individui sempre più isolati. Mentre la seconda è propedeutica alla buona compagnia: chi sta bene con sé stesso riesce a stabilire anche buoni rapporti con gli altri».
Quando però parla di ritorno al focolare, al tepore della vita domestica, non rischia di escludere automaticamente i senza famiglia, i single, sempre più numerosi?
«Attenzione, io non sto difendendo la famiglia, ma le relazioni interpersonali significative. Tra le varie forme di legami del genere c’è sicuramente anche la famiglia. Ma non soltanto. Non sto portando a modello la famiglia tradizionale».
Il concetto di resistenza presuppone un avversario cui opporsi. Chi è il nemico?
«Resistenza, per me, ha due significati: uno, davanti a ciò che erode; due, davanti a ciò che domina, utilizzando in questo caso la definizione politica del termine, ma riferita all’aspetto antropologico».
In parole più semplici?
«Resistere al dominio della omogeneità. Questo porta naturalmente a situarsi ai margini della società, ma non significa disertare, quanto curare una forma di vita alternativa a quella dominante».
D’accordo, ma come, in pratica?
«In pratica? La risposta è la stessa che si potrebbe dare a domande tipo: come si ha cura dei propri alunni? Come ci si fa degli amici? Le relazioni sono sempre feconde. Lo vedo nel mio ambito professionale: generazioni di studenti sono stati influenzati da questo modo di procedere e si è creata una rete di resistenza che coinvolge ormai anche allievi dei miei ex allievi. Non è stato un discorso astratto: sono laureati che adesso lavorano negli ospedali, nelle carceri...».
Nelle università…
«Esatto. L’università è un buon esempio. La tendenza dominante è trattare gli alunni come fossero clienti. Se dico che l’università è la comunità dei maestri e dei discepoli alla ricerca della verità, può suonare antiquato, vero? Ma anche solo connettendosi con i propri studenti si creano una ricchezza e una forza incredibile. Resistenza è connettersi con gli altri».
Nel mondo accademico è forse già più evidente: e in quello delle persone comuni? Come «resistono» una commessa o un muratore?
«Ci sono professioni che lo facilitano, è chiaro. Ma si possono incontrare persone altrettanto amabili e attente anche laddove il vincolo è basato soltanto su uno scambio commerciale. Basta manifestare gratitudine, generosità, gentilezza al prossimo. Interessarsi, parlare di qualcosa che esuli dalla ragione puramente tecnica o commerciale dell’interazione. Non sono richiesti atti eroici. Il mondo vive di gesti di riconoscenza quotidiana e di cortesia, senza i quali diventerebbe un pianeta inospitale. Non che non s’incontrino anche persone egoiste, competitive e distratte, ma ci sono anche quelle che ti augurano il buongiorno. Senza di loro il mondo non sarebbe sopportabile».
Ed è questo che mostrerebbe a un angelo caduto dal cielo, dovesse mai incontrarlo, come scrive nel suo «elogio della quotidianità»?
«Sì, immagino che, dovendo mostrare qualcosa di noi a una creatura angelica che non conosce la Terra, cercheremmo di impressionarla con racconti, luoghi straordinari o meravigliosi monumenti. Invece non c’è nulla che potrebbe sorprenderla di più delle piccole cose che compongono la nostra esistenza quotidiana e che a noi appaiono banali. Magari fossimo capaci di osservarle, ogni tanto, con gli occhi di un angelo che le scopre per la prima volta!».
Troveremmo anche noi più accogliente una capanna di un castello? È questo che intende quando scrive che un alloggio modesto è più casa di un palazzo enorme?
«Il sostantivo “casa” in sé non è importante. In spagnolo, il verbo casar significa riunire, completare, coordinare, combinare elementi che creano uno spazio caldo. La parte fondamentale non riguarda la struttura architettonica. Voglio dire che noi esseri umani viviamo sempre nelle intemperie, ma abbiamo un focolare. Se malati, un ospedale. Abbiamo una protezione. Una piccola casa in un villaggio è più accogliente di un castello solitario in cima a una montagna».
Viviamo troppo di apparenze?
«Sì, c’è un’enorme voglia di apparire. L’eccessiva esposizione toglie spazio al raccoglimento. Un filosofo tedesco del XX secolo, Walter Benjamin, diceva che la trasparenza è nemica del mistero. Con internet e i social i giovani comunicano di più, e questo va bene, ma un eccesso è controproducente, perché impedisce di prendersi cura di sé stessi. Porta a perdersi».
La formazione cattolica incide sulle sue convinzioni filosofiche?
«Siamo tutti figli di Atene e di Gerusalemme», ride, «ma il mio discorso non è subordinato ad alcun tipo di credo: piuttosto è antropologico, tratta della condizione umana. Qualche riferimento, sì, c’è, ma è normale. La Bibbia fa parte della nostra cultura».
Per esempio, quando afferma che la morte è un ritorno a casa, non si riferisce a quella del Padre?
«No. Anzi, nel prossimo libro criticherò l’idea della ricerca del paradiso perduto. Ci fa più male che bene».
E quando evoca l’importanza dello «stare insieme a tavola», di condividere pane, parole e gesti, non si richiama all’Eucarestia?
«Quel che conta per me è la fraternità. Che nessuno si ponga al di sopra dell’altro, ma al suo fianco. Che le persone si scambino sguardi laterali e non dall’alto in basso. Siamo tutti allo stesso livello».
Vale anche per i rapporti tra Madrid e Barcellona?
«Non so come andrà a finire per la Catalogna. Ma mi auguro che si possa trovare una sintonia e che si arrivi al dialogo. Alla pari, però, riconoscendo il proprio interlocutore. Se una parte si sente superiore all’altra, non c’è soluzione possibile».