lunedì 30 aprile 2018

Il Fatto 30.4.18
Non c’è festa per i dannati della “gig economy”
di Roberto Rotunno


Lavorare con lentezza”, come cantava nel 1974 Enzo Del Re, non è un lusso che possono permettersi Ali, Andrea, Bem, Cristina, Fabio e Lorella. Tra loro c’è chi ogni giorno trasporta merci e pacchi pesanti, chi monta in bici indossando uno zaino pieno di pizze, chi risponde a decine di telefonate di clienti arrabbiati e chi accoglie gli avventori di fiere ed eventi.
Devono tutti essere veloci, attenti, efficienti; alcuni di loro anche gentili e sorridenti, perché il cliente deve restare sempre soddisfatto. Se non ci si adegua, quella è la porta: tutti sostituibili, quindi tutti ricattabili. Il mercato del lavoro è cambiato, insieme con le nostre abitudini, e a farne le spese sono anche loro, sei persone normali che hanno imparato a scoprire il lato oscuro della gig economy, la cosiddetta “economia dei lavoretti”, ma anche del commercio low cost e, più in generale, della frammentazione dei processi produttivi che caratterizza il nostro momento storico. Domani Primo maggio, festa dei lavoratori, sarà tutto un promanare a reti unificate di retorica e buone intenzioni: credere a quelle parole sarà un altro lusso che questi non potranno concedersi. Anche perché per alcuni di loro la festa del lavoro sarà in realtà un giorno come gli altri.
200 ore dietro il basso prezzo di un abito Zara
Ali (nome di fantasia) viene dal Pakistan e ha solo 25 anni, ma ne può vantare già sette di esperienza come magazziniere della logistica di Zara, il noto marchio di abbigliamento con negozi in tutto il mondo. Oggi è dipendente di una cooperativa che ha sede a Reggello, vicino Firenze, e per fortuna almeno domani potrà riposarsi. Ma non c’è da stare allegri, perché da mercoledì tornerà alla vita di sempre, fatta di turni molto duri e diritti concessi con il contagocce. “Sono pagato a seconda di quanto tempo passo al lavoro – racconta sforzandosi di parlare bene italiano – Prendo solo 6,50 all’ora, quindi per mettere su uno stipendio decente sono costretto a fare anche più di 200 ore in un mese. Non mi pagano le ferie e nemmeno le giornate di malattia”.
I vestiti che vengono stoccati in quei capannoni finiscono poi sugli scaffali dei punti vendita, dove vengono venduti per poche decine di euro. Chi li compra è contento così, chi li ha trasportati molto meno. Nel polo fiorentino sono quasi tutti pachistani e bengalesi e alcuni di loro hanno chiesto aiuto al sindacato di base SiCobas, che la scorsa settimana ha infatti organizzato uno sciopero per sostenerli.
Tuodì, la rivolta contro il turno 5-17
Un altro marchio noto per i bassi prezzi è il Tuodì, la catena di supermercati presenti soprattutto nell’Italia centrale. Il gruppo proprietario del discount, tra l’altro in crisi dall’estate scorsa, ha applicato il concetto di parsimonia anche verso i suoi fornitori. Anche in questo caso, i servizi di logistica sono appaltati all’esterno a un consorzio di cooperative. Nel magazzino presente nella periferia di Roma lavorano quasi 200 persone, in netta maggioranza africani, che due mesi fa si sono ribellati per le condizioni definite massacranti. “Fino a febbraio – racconta Ben (nome di fantasia) – avevamo un’altra coop con la quale in alcuni casi, arrivavamo a fare anche 11 o 12 ore in un solo turno. In pratica dalle cinque di mattina alle cinque del pomeriggio”.
Anche in questo caso è intervenuto il SiCobas, che ha scritto all’Ispettorato del lavoro parlando di irregolarità nelle buste paga: “Non c’è un sistema di timbratura – si legge – quindi le ore di lavoro ordinario retribuite sono continuamente contestate”. Oggi l’appalto è cambiato – nella logistica i frequenti cambi di cooperative sono la regola – e le cose sembrano andare un po’ meglio. “Adesso facciamo otto ore – spiega – e ci stanno applicando il contratto nazionale di riferimento, ma prima di stare tranquilli aspettiamo di vedere le prime buste paga”.
Amazon, i “cartellini verdi” a chiamata
È la logistica, insomma, uno dei settori che più di tutti nasconde storie come queste. Alcune sono poco conosciute, altre invece sono riuscite a ottenere la ribalta nazionale. È l’esempio del grande centro Amazon di Città San Giovanni, in Provincia di Piacenza, dove lo scorso novembre si è tenuto lo sciopero del Black Friday per chiedere una migliore organizzazione dei turni.
In questo stabilimento lavorano 4 mila persone, la metà delle quali con contratti interinali. A quest’ultima categoria appartiene un ragazzo che noi chiameremo Andrea. Ha iniziato da più di un anno, ma ancora oggi vede il suo rapporto rinnovato a volte anche di mese in mese. Per otto ore al giorno, si occupa di caricare grossi scatoloni contenenti i pacchi che i clienti “Prime” potranno ricevere praticamente il giorno successivo alla data dell’ordine online. I ritmi di lavoro li detta un algoritmo, e allora bisogna essere svelti, perché così i responsabili saranno contenti e si potrà ottenere la proroga. “Noi precari siamo chiamati cartellini verdi – spiega Andrea – mentre quelli a tempo indeterminato sono blu. Io spero di ottenere la stabilizzazione, ma ancora non ho capito come fare a convincerli”.
Per contratto, deve lavorare tre giorni alla settimana, mentre negli altri due è a disposizione e può essere chiamato. In questo modo, Amazon ha ottenuto la flessibilità di cui ha bisogno stipulando un rapporto che di fatto è a chiamata: nei periodi di picco – per esempio attorno alle feste natalizie – chiede più giornate, negli altri mesi lascia a casa i suoi dipendenti.
Tutta la vita davanti, dieci anni dopo
Lo stress, l’ansia, la fatica non sono concetti conosciuti solo da chi svolge mansioni manuali. Lorella lo sa bene, avendo lavorato per sedici anni in un call center, fino a quando anche lei, insieme ad altri 1.665 colleghi, è stata travolta dal grande licenziamento di Almaviva a Roma. Oggi è disoccupata da un anno e mezzo, la sua storia è un assurdo percorso a ostacoli. “Ho iniziato nel 2001 con un co.co.co. – dice – e solo nel 2007 sono stata stabilizzata come part-time a quattro ore. Ho dovuto lavorare duro per passare a sei ore”.
Ogni giorno con le cuffie indossate a rispondere a decine di chiamate di clienti scontenti: “Il nostro compito è lasciarli soddisfatti e fare in modo di chiudere la telefonata in soli quattro minuti. Un’impresa impossibile, io lavoravo sulla commessa Eni, se dall’altra parte c’era un signore anziano, in quattro minuti non riuscivo nemmeno a fargli leggere il codice cliente sulla bolletta”. Le prestazioni, però, dovevano essere alte, perché da quello dipendeva la promozione. Nel 2012, poi, sono iniziati i guai: la crisi, con annesso inizio degli ammortizzatori sociali che hanno ridotto gli stipendi già bassi. Un limbo durato fino a fine 2016, quando è arrivato il licenziamento. Ora Lorella è inserita da un anno e mezzo in un progetto di ricollocazione previsto dal governo e dalla Regione Lazio, ma i primi corsi di riqualificazione inizieranno solo in questo mese. “Mi hanno proposto di formarmi nel settore della comunicazione – aggiunge – ma a 53 anni non me la sento di concorrere con i trentenni laureati in questa materia. Adesso preferirei un corso di giardinaggio”.
Arcipelago hostess, professioniste fantasma
Il mondo delle hostess, degli steward e dei promoter è poco esplorato, ma anche questo è fatto di precarietà estrema, di contratti brevi che espongono a un ricatto velato. Qui c’è un’alta percentuale femminile, le troveremo anche domani ad accoglierci nelle fiere o a promuovere prodotti nei centri commerciali.
Per candidarsi bisogna passare tramite agenzie che selezionano le ragazze e le “forniscono” alle aziende. Cristina è una mamma che vive a Como; dopo la maternità, per rimettersi in gioco, ha risposto a un annuncio. “Sono quattro anni che un giorno mi ritrovo a promuovere i biscotti di un’azienda, un altro giorno i giocattoli di un’altra”. Un contratto vero e proprio per queste figure non c’è, così le agenzie ci mettono un po’ di fantasia. “A volte ci inquadrano come prestatrici di lavoro autonomo, altre con contratti da dipendenti per pochi giorni o al massimo pochi mesi”. Rapporti interinali, intermittenti, ritenuta d’acconto e chi più ne ha più ne metta, insomma. Sui compensi vige il libero mercato: “Non c’è un minimo di riferimento. Io mi propongo sempre di non accettare mai meno di 50 euro a giornata. Ma magari le studentesse che lo fanno giusto per guadagnare qualcosina ne accettano anche 38, meno di cinque euro all’ora. Non puoi trattare sulla paga, rischi di non essere più richiamata”. Ferie e malattie retribuite neanche a nominarle, e a volta si rischia anche la beffa: “Alcune agenzie – sottolinea Cristina – ti costringono a pagare penali se disdici la tua presenza a un evento meno di sette giorni prima. Però se sono loro a dirti all’ultimo che non servi più, non ti indennizzano”. Pagamenti a volte tre mesi dopo l’evento, in alcuni casi anche di più: è per questo che le ragazze si sono organizzate con un gruppo Facebook, per condividere le esperienze e segnalare le agenzie poco serie.
Una vita sui pedali a rischio della vita
I social network come forma di condivisione e organizzazione di lavoratori è una formula sperimentata anche dai rider che consegnano il cibo a domicilio per aziende come Foodora, Just Eat, Moovenda, Glovo e Deliveroo. È per quest’ultima che ha lavorato Fabio, nome inventato, che ha trent’anni e vive a Milano. “Mi pagavano 5,60 euro come fisso orario e 1,20 euro a consegna. Quindi era a fortuna, se ne riuscivi a fare tante, guadagnavi di più. Dovevi sperare che il ristorante al quale eri assegnato non facesse ritardo nella preparazione”. Turni e retribuzioni decise dall’azienda, peccato che questi lavoratori risultano lavoratori autonomi sul piano formale. Se il cliente esprime un giudizio negativo, la responsabilità ricade sul rider che su questo viene valutato in una classifica. Dunque bisogna andare come un Girardengo, ma stare anche attento a far arrivare il cibo intatto alla meta. “A Milano – aggiunge Fabio – c’è quasi un incidente al giorno, ma questi non vengono catalogati come infortuni sul lavoro, non interviene l’Inail. È una zona grigia, l’azienda ha fatto un’assicurazione sanitaria integrativa che riconosce rimborsi entro i massimali, ma nemmeno i ragazzi sanno a quanto ammontano”.
Anche domani, Primo Maggio, sarà per loro un giorno lavorativo, ma i movimenti Deliverance Milano e Strike Raiders hanno deciso di scioperare e sfilare in corteo dalle 14:30 partendo dalla stazione di Milano Centrale. Almeno durante la manifestazione, potranno concedersi il piacere di pedalare senza fretta.

Il Fatto 30.4.18
Gianfranco Pasquino
“Preferisce l’Italia giù nel baratro. Ma contento lui…”
di Ste. Ca.


“Prendiamo atto che il signor Renzi non è capace di nessuna elaborazione. Annuncia di mantenere un potere politico e che lo eserciterà”. Gianfranco Pasquino non sorride, anzi.
Si aspettava questa performance?
Mi aspettavo che almeno la smettesse di manipolare il sistema francese, che non è un ballottaggio tra partiti ma un doppio turno tra candidati. Se a Renzi piace tanto la Francia si ricordi che è una Repubblica presidenziale con un sistema elettorale adeguato. Che il referendum del 4 dicembre avrebbe rafforzato la possibilità di formazione di un governo è una balla che sarebbe meglio non sentire più.
Nessuna possibilità di un accordo Pd-M5S dunque…
Renzi ha deciso di stare all’opposizione, si augura che gli altri falliscano o che addirittura non riescano a formare un governo. Tutto costituzionalmente corretto ma politicamente evanescente.
Renzi dice: “Noi abbiamo perso, loro hanno vinto. Quindi tocca a loro”. Sbaglia?
Come ho detto, la sua posizione è costituzionalmente corretta, tuttavia avrei voluto domandargli che cosa effettivamente augura al popolo italiano. A me pare evidente che lui si auguri un governo Lega-5Stelle o addirittura un governo di centrodestra. Come a dire, facciamo quattro passi nel baratro, così gli elettori capiranno in quale guaio siamo finiti e torneranno da me… Ecco, questa non è la mia opzione. Bisogna evitare il baratro, anche perché è falso che tra le due forze politiche ci sia più incompatibilità di quanta non ce ne sia tra Lega e 5S.
Renzi ha ancora in mano il Pd secondo lei?
Se non ha in mano il partito, sicuramente ha in mano i parlamentari, grazie al Rosatellum. E poi, questa storia che la sua azione è stata impedita dall’opposizione interna ha stufato. Non capisce che perdere un pezzo del tuo partito è un suo fallimento personale.
Cosa accadrà ora?
Ci vorrebbe un astrologo. È evidente che il presidente della repubblica voglia un governo e tenterà in ogni modo di far decantare le tensioni. Il Movimento 5 Stelle o rilancia con la Lega oppure si passa inevitabilmente a un premier incaricato di centrodestra. Il tempo delle esplorazioni è finito. E poi vorrei dire un’ultima cosa…
Dica.
Renzi ha citato Roberto Ruffili (senatore Dc ucciso dalle Brigate rosse nel 1988, ndr) ricordando correttamente le sue parole, secondo cui il cittadino deve essere arbitro. Ma quelle parole erano indirizzate alla creazione di una cultura della coalizione. Io credo che sarebbe un bene andare a vedere le carte, cercare i punti di accordo. Ma questo a quanto pare difficilmente accadrà.

Il Fatto 30.4.18
Lucia Annunziata
“Non digerisce mai le sue sconfitte, è sempre lo stesso”
di Stefano Caselli


“Ho visto un Renzi doc, nel senso che è ancora fermo all sconfitta del referendum del 4 dicembre. È evidente che le sconfitte le digerisce molto male…”. Lucia Annunziata sorride dopo lo show di quello che lei chiama “il ritorno dell’ammazzatutti”.
Lucia Annunziata, dunque è delusa dal Renzi visto da Fazio?
No, mi limito a constatare che siamo ancora lì alle stesse tematiche, è quello è il problema. Non c’è evoluzione nel suo discorso, proprio non è ancora entrato nel clima.
Quante probabilità ha il Pd di dialogare davvero con i 5 stelle dopo ieri sera? Pochino a occhio…
Zero. Direi che le possibilità stanno a zero. E tutta questa disponibilità a scrivere le regole insieme è abbastanza fuorviante, perché per scrivere le regole bisogna che un governo ci sia, ma se non c’è…
Insomma, altro che segretario dimissionario del partito democratico…
Renzi non è mai andato via, questo è evidente dal giorno in cui ha posticipato l’assemblea del partito. Da Fazio abbiamo visto il Renzi di sempre, che un po’ attacca, un po’ ironizza e un po’ si difende. È fermo, le ferite delle sconfitte non gli passano mai, è ancora al dicembre 2016, vuole ancora una rivincita…
Ma poteva andare diversamente?
Avrebbe potuto seguire una strategia più sottile, giocare di specchi, questo governo lo facciamo nascere, non lo facciamo nascere. Invece ha subito sottolineato che qualsiasi alleanza è irrealistica.
Secondo lei tra i due elettorati di Movimento 5Stelle e Pd ci siano punti di contatto?
La mia opinione è che Renzi su questo ha ragione, i due elettorati non sono pronti, c’è stata per anni una divisione forte e sanguinosa. Per l’elettorato del M5S Renzi e il Pd sono peggio di Berlusconi, anche banalmente per una questione di età. Per i più giovani – e sono tanti – berlusconi è il pleistocene.
L’altro forno Lega-5Stelle – considerando però sempre la variante Berlusconi – è ancora praticabile? Che poi è quello che sembra desiderare da matti proprio Renzi…
C’è sicuramente ancora più di una possibilità. Sono elettorati più omogenei, almeno secondo la mia opinione. Gli italiani li hanno votati, provino a governare insieme e vediamo cosa accade. Questo Paese è sopravvissuto a vicende assai peggiori.
Quindi Renzi ha ragione?
Non vedo male il fatto che non si butti, sarebbe una finzione. Io in politica amo i processi chiari. Queste consultazioni lo sono state.

Il Fatto 30.4.18
Buon compleanno Marx, libertario letto molto male
Nell’anniversario della nascita, l’autore de “Il Capitale” e de “Il Manifesto del partito comunista” mantiene una attualità e una vitalità innegabili. La mole sterminata dei suoi scritti rende l’opera fresca e vitale
di Salvatore Cannavò


Marx è vivo e lotta insieme a noi. Lo slogan è un po’ scontato e forse abusato. Ma sorprendentemente vero. Nel duecentenario della nascita l’autore de Il Capitale e de Il Manifesto del partito comunista mantiene una attualità e una vitalità innegabili.
La scorsa settimana il quotidiano francese Le Monde gli ha dedicato un grande servizio che racconta la diffusione del marxismo negli Stati Uniti. Il Corriere della Sera gli dedica uno dei primi libri della nuova casa editrice, Solferino, curato da Antonio Carioti e in cui, nella prefazione di Ernesto Galli della Loggia si legge che “non bisogna sottovalutare la forza anche camaleontica delle idee, la loro capacità di adattarsi ai tempi, di trovare nuovi motivi per tornare prepotentemente sulla scena. Specie se si tratta di idee forti, forti in particolare nell’indicare quale sia il nemico da combattere (che poi sia quello giusto è tutt’altro discorso)”.
Quello che è stato “un rabbino mancato”, come scrive un rigoroso studioso di Marx, Marcello Musto, docente presso la York university di Toronto, si impone sulla scena più da morto che da vivo. Sicuramente grazie a uno studio talmente intenso da averlo fatto ammalare.
Marx studiò sempre e senza pausa, nonostante gli stenti, i figli che gli morivano in casa, nonostante “la quintessenza della merda” che dovette ingoiare. In vita pubblicò relativamente poco, accumulando appunti e quaderni, alla continua ricerca della perfezione con l’opera omnia, Il Capitale, completato solo nel capitolo primo e poi ricostruito da Engels dopo la morte dell’autore. Questa incompiutezza e la mole sterminata dei suoi scritti rende l’opera marxiana fresca e vitale nonostante il santino del socialismo reale che gli è stato cucito addosso.
A essere convinto che invece Marx faccia rima con libertà è lo stesso Musto che respinge l’idea di una linea di congiunzione tra il pensatore di Treviri e il totalitarismo (tesi coltivata, sia pure con prudenza, da Hannah Arendt): “Marx assegnò un valore fondamentale alla libertà individuale” dice Musto al Fatto quotidiano. “Il suo comunismo è radicalmente diverso dal livellamento delle classi auspicato da tanti suoi predecessori e dalla grigia uniformità politica ed economica realizzata da molti suoi seguaci. Marx fu contrario a ogni tipo di socialismo di Stato e considerò essenziale, per ogni processo rivoluzionario, l’autoemancipazione dei lavoratori. La sua idea di società è, dunque, agli antipodi dei totalitarismi sorti in suo nome nel XX secolo. Marx fu il teorico dell’autogoverno dei produttori”.
Su questa ipotesi c’è un filone di pensiero che è rimasto minoritario nella storia del marxismo occidentale, battuto dal comunismo reale, ma che ha poi trovato nuovi spazi nella Marx Renaissance di inizio 2000 e che può essere sintetizzata nelle parole del filosofo francese Jacques Derrida: “Sarà sempre un errore non leggere, rileggere e discutere Marx”.
Come invitava Immanuel Wallerstein sulle pagine domenicali de La Lettura, leggere Marx significa leggere le sue opere. Da quali cominciare? “Partirei dai documenti più importanti redatti per l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, compresa La guerra civile in Francia, dice Musto, ai quali farei immediatamente seguire i capitoli più storici del Libro Primo de Il Capitale, che resta il testo principale per comprendere la teoria di Marx. La Critica del programma di Gotha è un testo breve quanto prezioso. Una buona selezione dai Grundrisse, soprattutto delle pagine sulla società post-capitalistica, potrebbe precedere alcuni articoli giornalistici pubblicati sul New York Tribune, in particolare quelli sulla crisi economica del 1857. Il Manifesto del Partito Comunista e i Manoscritti economico-filosofici del 1844 restano delle letture molto affascinanti, ma andrebbero affrontate con la consapevolezza che Marx sviluppò ulteriormente le proprie concezioni, dopo la loro stesura”.
Ma, al dunque, perché Marx resta attuale, cosa funziona di quel pensiero? Come scriveva il filosofo francese Daniel Bensaid “il rapporto tra capitale e lavoro resta un rapporto asimmetrico; il primo non potrà mai fare a meno del secondo, mentre il secondo può fare benissimo a meno del primo”.
Musto fa la stessa osservazione: “In un’epoca nella quale la classe capitalista torna ad appropriarsi, senza quasi alcuna opposizione, di enormi quantità di lavoro non pagato, Marx mostra, meglio di chiunque altro, che i lavoratori non ricevono l’equivalente di quello che producono. Ne Il Capitale, egli affermò che la ricchezza della borghesia è possibile solo mediate la ‘trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse’. Questa dinamica si manifesta ancora di più su scala globale”.
Nonostante il lavoro non sia più non solo quello dell’800 ma nemmeno quello del 900 e nonostante il camaleontismo del capitale, quel rapporto ineguale è tutt’ora vigente. Si può pensare che la soluzione risieda in un nuovo compromesso tra capitale e lavoro, ipotesi riformista forte, alla Sanders; oppure che il capitalismo vada abbattuto, ipotesi rivoluzionaria. Ma l’analisi di quella disparità resta tutt’ora in piedi. La storia recente ha dimostrato che non esiste “terza via”. Anche per questo Marx non sente il peso dei suoi duecento anni.

Repubblica 30.4.18
Baviera, il dilemma di Söder
Non piace a Marx (il vescovo) il crocefisso in uffici pubblici
di Roberto Brunelli


Parole inequivocabili, quelle di Marx. Il suo è un “no” forte e vibrante al crocefisso appeso d’obbligo negli uffici pubblici: «Non spetta allo Stato spiegare quale sia il significato della croce», tuona. Solo che non è di Karl Marx, l’autore del Capitale, che stiamo parlando, ma di Reinhard Marx, arcivescovo e cardinale nonché presidente della Conferenza episcopale tedesca. Che in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung ha frontalmente attaccato il governatore della Baviera Markus Söder, il cui gabinetto martedì scorso ha varato una direttiva per cui in ogni locale pubblico del Land dovrà essere appeso il simbolo della cristianità.
Iniziativa che ha scatenato, in un paese a forte impronta laica come la Germania, un dibattito furioso che è andato ben oltre i confini della Baviera: i Verdi e la Linke definiscono di natura «populista e anticostituzionale» la sortita del cristiano-sociale Söder, mentre i liberali di Christian Lindner non esitano a parlare di «profanazione della croce». Pure diversi importanti esponenti della Chiesa bavarese reagiscono con nervosismo: «La croce non è mica il logo di una campagna elettorale». I sondaggi non aiutano: secondo un rilevamento dell’istituto Emnid per la Bild, è contrario all’affissione del crocefisso il 64% dei tedeschi.
Ma il vero colpo al cuore per il povero Söder - che aveva tentato di difendersi tirando in ballo «l’identità bavarese» - è la sortita senza se e senza ma del cardinale Marx. La decisione di procedere all’affissione del crocefisso negli uffici del Land crea «divisione e inquietudine», scandisce il capo dei vescovi: «E chi vede il crocefisso solo come un simbolo culturale non ne ha compreso il significato». Parole come pietre, che sottintendono la natura strumentale della decisione del governo bavarese: «La croce viene espropriata in nome dello Stato», attacca Marx, secondo cui «essa è un simbolo del rifiuto della violenza, dell’ingiustizia e del peccato, ma non un simbolo rivolto contro altri esseri umani».
Marx sottolinea che, sì, è opportuno un dibattito sul crocefisso, ma in termini che certo non sono quelli intesi da Söder: «Cosa significa vivere in un paese caratterizzato cristianamente?», si chiede il presidente della conferenza episcopale, secondo cui la definizione comprende «i cristiani, ma anche i musulmani, gli ebrei e coloro che non credono affatto». Marx non ha dubbi: lo Stato deve far sì che possano «articolarsi» le diverse confessioni, ma non può decidere quale debba essere il contenuto di una convinzione religiosa.
Insomma, il Vangelo non si lascia tradurre in politica in una scala “uno ad uno”: «La croce dovrebbe essere un modello per la politica affinché sia rispettata la dignità di ogni persona, soprattutto dei più deboli. Sono questi i parametri su cui misurarsi».
Insomma, Marx e crocefisso non è un ossimoro, in Germania. Altro che oppio dei popoli.

La Stampa 30.4.18
Incubo antisemitismo in Germania
di Walter Rauhe


«Non mi meraviglia se in seguito alla recente ondata di attacchi di stampo antisemita un numero crescente di ebrei stia pensando di lasciare di nuovo la Germania». Ancor prima della sua nomina ufficiale a Incaricato del governo federale tedesco per l’antisemitismo prevista per domani, Felix Klein appare già rassegnato. In un’intervista all’agenzia di stampa Dpa, Klein ha ammesso che per le forze dell’ordine sarà impossibile proteggere tutti i 100mila fedeli di religione ebraica che vivono nel Paese. Soprattutto quelli «che mostrano e vivono apertamente la loro religione indossando ad esempio per strada la tradizionale kippah» corrono il pericolo di subire offese e anche attacchi fisici, ha dichiarato nell’intervista il futuro incaricato del governo.
In Germania il problema dell’antisemitismo è tornato di attualità dopo l’enorme scandalo provocato dal conferimento dei prestigiosi Echo Awards (i più importanti premi musicali del Paese) ai due rapper Kollegah e Farid Bang che in un loro brano avevano minimizzato i crimini nazisti, promesso un nuovo Olocausto e canzonato i deportati nei campi di sterminio tedeschi.
Se già l’illustre giuria degli Echo Awards, composta da critici musicali e rappresentanti delle case discografiche, non ha nessun problema a consegnare il principale premio del settore a due musicisti apertamente antisemiti, come sono diffusi intolleranza, xenofobia e antisemitismo nel resto della popolazione? La risposta è arrivata due settimane fa, dopo la cerimonia di consegna degli Echo Awards. Nel quartiere alla moda di Berlino Prenzlauer Berg due giovani ebrei che indossavano la kippah sono stati aggrediti da due immigrati musulmani che dopo averli offesi e insultati li hanno malmenati con pugni e colpi di cintura.
Secondo un recente sondaggio, anche a oltre 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale il 20% dei tedeschi nutre sentimenti antisemiti. Una percentuale stabile ormai da decenni e questo nonostante l’ampio e anche sofferto processo di rielaborazione storica condotto negli ultimi decenni in Germania. Secondo i dati forniti da un’Ong berlinese nel 2017, solo nella capitale tedesca gli attacchi di stampo antisemita sono stati 947. Molti di questi non vengono però nemmeno registrati o denunciati alle autorità e non appaiono nelle statistiche ufficiali del Ministero degli interni che a livello nazionale ha contato nel corso dello scorso anno “solo” 1.453 episodi.
Le statistiche inoltre non distinguono i tipi e moventi degli aggressori e se questi appartengono all’estrema destra o al radicalismo islamico. Tra le prime iniziative Klein ha promesso di dar vita a una nuova statistica per registrare a livello nazionali tutti gli episodi di carattere antisemita, sia quelli vengono denunciati alle autorità sia quelli non punibili per legge e definiti erroneamente come «innocui» e quindi trascurabili.

Repubblica 30.4.18
La storia
Documenti ritrovati
Strage di Bologna, il dolore del mondo nelle lettere alla città ferita
Quei messaggi di Mitterrand, Simone Veil, e Berlinguer, di studenti e operai, dall’Europa agli Usa. Tanti vergati a penna
A migliaia scrissero al sindaco dopo il 2 agosto 1980: leader politici e gente comune Ora gli archivi svelano quel fiume di solidarietà. E i vaglia con le offerte alle famiglie dei morti
di Ilaria Venturi


BOLOGNA L’indignazione dei democratici francesi nel telegramma di François Mitterand in veste di segretario del partito socialista. E lo sdegno nel biglietto in bella calligrafia della signora Paola, impiegata statale. Il cordoglio del parlamento europeo a firma di Simone Veil, quello di Amintore Fanfani e Nilde Iotti. E lo sgomento di Maria che scrive in nome del padre martire della Resistenza veronese. La preoccupazione di Enrico Berlinguer («stiamo seguendo gli sviluppi di questa immane tragedia minuto per minuto»). E le firme raccolte di tenda in tenda dai campeggiatori di Lido degli Scacchi contro il «vile attentato fascista». I dieci milioni di lire inviati da Carmelo Bene e i 326 dollari raccolti con uno Spaghetti’s dinner dalla settantenne Rose di Los Angeles.
Missive e vaglia. Parole e contributi in denaro. Big di Stato e gente comune. Solidarietà e partecipazione nell’era ante-Facebook. Dagli archivi del Comune di Bologna esce la reazione che scattò, via posta, subito dopo la strage alla stazione, l’atto terroristico di stampo neofascista che provocò 85 morti e 200 feriti. Migliaia di lettere e telegrammi — istituzionali ma anche e soprattutto di pensionati, operai, studenti, emigrati e militanti — indirizzati all’allora sindaco Renato Zangheri nei giorni successivi al 2 agosto 1980: fogli vergati a mano e scritti a macchina, dolore e rabbia fissati sulla carta intestata degli alberghi, perché era estate e si era in vacanza. Ma c’era l’urgenza di spedire sostegno alle vittime, mettere in buchetta la condanna di una strage. È la storica Cinzia Venturoli ad aver aperto questi inediti faldoni della coscienza civile. Gilberto che ricambia l’abbraccio ricevuto dai bolognesi quando entrò col suo plotone per liberare la città il 21 aprile del 1945. Il messaggio dei medici statunitensi laureati all’Alma Mater, le parole della scuola di Manuela Gallon, vittima a 11 anni: «Addio bimba». Scritti che diventeranno uno spettacolo teatrale (regia di Matteo Belli), per la prossima commemorazione: “Sinfonia di soccorsi”. Un progetto dell’assemblea legislativa regionale con l’associazione dei famigliari delle vittime per narrare la reazione sociale e non ancora social di «chi si sentiva parte di un tutto e voleva esserci, non per presenzialismo: era una necessità collettiva», osserva la storica. Lettere che arrivano sotto le torri dall’Urss e dagli Usa, da Yalta, da tutta Europa. Si mobilitano i carcerati: pronti a donare il sangue. I villeggianti a Pieve di Cadore inviano una sottoscrizione contro quella «mostruosità eversiva», i lavoratori della Rinascente mettono nero su bianco la loro «inquietudine», scrivono i militanti del Pci, anche della sezione australiana, gli ex combattenti, i profughi cileni, l’Unione contro il nazismo di Tel Aviv. Bologna diventa il mondo di tutti. Susan da Buffalo ammira «il modo umano» con cui ha reagito la città. «Bisogna continuare a cercare le verità mancanti sulla strage e a ricordare le vittime — spiega Cinzia Venturoli — Queste carte aggiungono un tassello in un momento in cui è così difficile tenere coesa la società.
Rispondono cioè a una domanda che spesso mi fanno gli studenti: come si reagisce a una strage?».
Al sindaco di un piccolo comune reggiano sembrano poche quelle 825mila lire inviate, «invece il dolore della mia gente è grande».
Dopo tre mesi, annuncia il giornalino del Comune conservato tra le carte, il fondo per le vittime arriva a un miliardo di lire. «Il paese ha in sé le forze per schiacciare i nemici della convivenza civile», scriveva Nilde Iotti. Lo dice altrimenti chi si firma “una ragazza qualsiasi”: «Non è tutto finito, nelle persone ci sono ancora tante cose belle e buone: la migliore difesa contro qualsiasi rigurgito reazionario».

Corriere 30.4.18
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Disagio, aiuto e reinserimento: 40 anni dalla legge Basaglia
di Fausta Chiesa


Quaranta anni fa, il 13 maggio 1978, entrava in vigore la Legge Basaglia, una riforma che ha abolito i manicomi restituendo i diritti civili ai malati psichiatrici. La legge prende il nome dall’uomo — lo psichiatra Franco Basaglia — che dedicò tutta la sua vita alla cura delle persone sofferenti e lottò per ridare loro dignità. Il primo «atto di forza» della battaglia accade nel 1973 a Trieste: Marco Cavallo — una scultura azzurra alta tre metri — e altri 600 «matti» escono dal manicomio e arrivano fino a Piazza Unità. Basaglia, direttore della struttura, con una panchina di ghisa aveva sfondato il cancello che sanciva il confine tra chi sta dentro e chi sta fuori.
Oggi, 40 anni dopo, abbiamo capito che aveva ragione anzitutto su una cosa: anche chi soffre di un disagio mentale ha diritto al rispetto della propria dignità di persona. «Buone Notizie», domani in edicola gratis con il Corriere, dedica un’intera sezione alla rivoluzione di Basaglia. In 20 pagine speciali celebra l’anniversario spiegando che cosa ha cambiato la legge e come funzionano oggi le strutture, lasciando spazio a esperti e a chi ha vissuto da vicino quel cambiamento per cercare di far capire che cosa è successo e che cosa è mutato nella cura di chi ha un disagio o una malattia mentale. Una realtà lontana dalla vita di tutti i giorni? Non proprio: l’Organizzazione mondiale della sanità stima che una persona su quattro, nel corso della vita, attraversi un problema di salute mentale. Nel nostro Paese circa due milioni di individui presentano disturbi psichiatrici e altri quattro milioni e mezzo sono a rischio di disturbi ansiosi e/o depressivi.
La riforma è rimasta a metà. In assenza o carenza di personale adeguato, i malati sono a carico dei familiari e per i casi più gravi è ancora diffusa una pratica ereditata dai manicomi, la «contenzione meccanica»: legare i pazienti. Ma molto è stato fatto e continua a essere fatto. Per questo, «Buone Notizie» dedica ampio spazio al racconto di alcune realtà diffuse in Italia che sono state capaci di reinserire, nella società ma anche nel mondo del lavoro, le persone malate. Una selezione (obbligata anche se difficile) di alcune delle tantissime proposte arrivate alla redazione, segno che anche in tale campo il Terzo settore è riuscito a essere efficace e innovativo: per esempio nelle tantissime esperienze di riqualificazione degli ex manicomi (a Collegno, in provincia di Torino, è nato un centro internazionale di balletto mentre ad Aversa, fuori Caserta, è attiva una fattoria sociale) e nelle iniziative a sostegno delle persone che soffrono di un disagio psichico e dei loro familiari.
«Il problema oggi — dice Alberta Basaglia, la figlia di Franco in un’intervista che uscirà sul giornale di domani — non è la riforma o la controriforma, è che ogni occasione è buona per rifiutare il diverso da noi».

Corriere 30.4.18
L’anniversario
Da Marco Cavallo a oggi: i 40 anni della legge Basaglia
Nel 1973 l’uscita della scultura dal manicomio di Trieste accompagnata da 600 «matti». Che cosa è cambiato dalla riforma del 1978 nella cura del disagio mentale?
di Elena Tebano

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