Il Sole 15.4.18
La lezione di Keynes sul pacifismo «pragmatico»
di Gianni Toniolo
Racconta
Robert Skidelsky che, dopo il settembre del 1938, John Maynard Keynes
visse un’angosciosa divisione «tra il suo indubbio pacifismo e il suo
desiderio di combattere il male e l’aggressione». Sono i mesi
dell’annessione tedesca della regione cecoslovacca dei Sudeti, avallata a
Monaco da Francia e Regno Unito. Keynes non si fa illusioni sulla
pericolosità di Adolf Hitler, tanto da non avere voluto mettere piede in
Germania dopo il 1933. Eppure, il dubbio continua ad agitarlo. Esso
deriva da due convinzioni: da un lato quella che non sia lecito iniziare
una guerra senza sapere che essa renderà la futura pace tanto migliore
di quella attuale da compensare i costi umani del conflitto e, d’altro
lato, quella che è quasi impossibile fare previsioni credibili circa
l’esito di una guerra. Il suo non è dunque, un pacifismo dogmatico,
dedotto da princìpi assoluti, privo di eccezioni. Si tratta invece di un
pacifismo pragmatico, nutrito dallo studio della storia e dalla teoria
che afferma l’impossibilità di assegnare probabilità attendibili agli
esiti di eventi complessi e rari.
Il pacifismo pragmatico di
Keynes è incredibilmente attuale. Le relazioni internazionali degli
ultimi due decenni, con la preoccupante escalation militare di questi
giorni, fanno tornare immagini del primo Novecento, come quella, evocata
da Franco Venturini (Corriere della Sera del 13 aprile), dei
«sonnambuli» che danzavano sull’orlo dell’abisso, secondo la fortunata
immagine di Christopher Clark.
L’affievolirsi della guida
americana dell’Occidente ricorda il lento tramonto del Regno Unito che,
sino al 1870, aveva garantito un’imperfetta, ma efficace Pax Britannica.
Oggi come allora, emergono nuovi protagonisti desiderosi di tradurre la
forza economica in influenza politica globale, mentre la Russia
assomiglia a quella di allora, stretta nella pericolosa contraddizione
del gigante militare con fragili piedi economici. L’azione collettiva
per lo sviluppo economico e la pace è più difficile in un mondo
multipolare, privo di quella «egemonia consensuale» degli Stati Uniti
che aveva permesso all’Occidente post-bellico di vivere una pacifica età
dell’oro.
Rispetto agli anni dieci e trenta del Novecento, la
pace può oggi trarre forza da tre condizioni che allora mancavano: una
vasta rete di organizzazioni multilaterali (politiche e tecniche); una
molto maggiore estensione della democrazia, formale e sostanziale (non
ci sono esempi rilevanti, negli ultimi due secoli, di guerre tra Paesi
democratici); lo stato sociale. Nessuna di queste tre “novità” del
nostro tempo gode di ottima salute: rafforzarle è il compito di
politiche ispirate a un pacifismo pragmatico privo di ingenue illusioni,
ma anche di quel pessimismo che tende ad auto realizzarsi.
Non è
utopia pensare a politiche di lungo andare per rafforzare la pace: gli
artefici della stabilità della seconda metà del Novecento cominciarono a
impostarle mentre ancora le bombe cadevano su Londra. Ma è anche
indispensabile, come diceva Keynes, «prolungare la pace giorno per
giorno, ora per ora», con tutti gli strumenti di cui dispongono la
diplomazia e la politica. Perché questi strumenti abbiano probabilità di
successo è importante che cresca la consapevolezza dei rischi.
Nel
1912-13 si susseguirono due guerre balcaniche, conflitti al margine
dell’Europa che si riuscì a stento a governare e contenere. Anche nel
1914 si pensò di poter gestire il rischio, ma non ci si seppe arrestare
un metro prima del baratro, anche perché i «sonnambuli» che
precipitarono il mondo nella Grande guerra condividevano una cultura
politica e militare, basata su esperienze passate, che riteneva
impossibile un conflitto totale di durata indefinita.
Se avessero
avuto anche una imperfetta capacità di previsione, nessuno di essi
avrebbe sparato il primo colpo. D’altronde, tranne forse la prima guerra
del Golfo, nessuno dei grandi conflitti della seconda metà del
Novecento è finito secondo le previsioni. Keynes farebbe un salto sulla
seggiola leggendo oggi comunicati ufficiali che parlano di rischi
attentamente conosciuti e contenuti.
L’Europa, oggi parzialmente
divisa sull’azione militare in Siria, ha nella propria storia e nella
collocazione geopolitica ed economica le radici sulle quali basare una
politica di rafforzamento della pace. Ha l’attendibilità derivante dal
non avere ambizioni o possibilità egemoniche, mentre ha molto, forse
tutto, da perdere se uno dei potenziali fulcri di conflitto – in Medio
Oriente, in Ucraina, nella Penisola coreana, nel Mare cinese meridionale
– scappasse di mano, anche contro la volontà dei singoli attori
coinvolti.
La lezione di questi mesi, di questi giorni, è che
l’Unione europea – o almeno una “cooperazione rafforzata” all’interno di
essa – può pesare sulla scena mondiale tanto quanto pesano la sua
civiltà, la sua economia, la sua demografia solo dotandosi di una
politica estera e di una difesa comuni. Il tempo dei “sovranismi” è
passato da decenni sul piano economico, lo è adesso anche su quello
della politica estera e di difesa.