il manifesto 8.4.18
L’eredità scomoda dell’Azionismo nella crisi italiana
di Davide Conti
Il
profilo politico-culturale dell’eredità storica del Partito d’Azione,
incarnato da figure come Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Duccio
Galimberti, Giorgio Agosti, ha sempre rappresentato in Italia un
elemento di rara quanto manifesta incompatibilità con gli esiti
conclusivi della transizione avviatasi con la fine della guerra, la
sconfitta del nazifascismo e la nascita della Repubblica democratica.
Per
lungo tempo la riflessione pubblica sul lascito dell’esperienza del
Partito d’Azione, ovvero della seconda forza politico-militare della
Resistenza, è stata circoscritta al perimetro dell’immediato dopoguerra,
coincidente invero con la parabola del PdA, e sintetizzata con
l’immagine della «occasione mancata» di rinnovare nel profondo la
struttura dello Stato e la società nonché per avviare un processo
pedagogico di nazionalizzazione antifascista delle masse.
Tuttavia
proprio il nesso conflittuale tra rottura e continuità, che segna la
composizione di ogni «crisi organica», è rimasto al centro della vita
pubblica del Paese anche nei decenni successivi riemergendo in modo
visibile durante il cosiddetto «boom economico» degli anni ’50-’60 e poi
nel corso della crisi 1989-1994 che ha ridefinito assetti nazionali ed
internazionali.
Alla ricostruzione d’insieme di questi decisivi
passaggi della storia d’Italia ed all’interpretazione-comparazione dei
suoi termini fondamentali con l’eredità dell’azionismo è dedicata la 14°
edizione «Cantieri dell’Azionismo», che prenderà avvio sotto la
direzione di Giovanni De Luna il 10 aprile presso la Sala Atti
parlamentari della Biblioteca del Senato, promossa dall’Istituto
piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea
di Torino, dalla Fondazione Dalmazzo e dall’Archivio Storico del Senato.
Rileggere
i nodi essenziali delle più importanti trasformazioni manifestatesi nel
corso della vicenda dell’Italia repubblicana richiama la necessità di
ragionare attorno alle «cesure», intese come linee di faglia dietro le
quali è impossibile ritornare; alle «presenze», in termini di
stratificazione delle eredità del passato come base del contemporaneo,
ed ai «ritorni» intesi come riemersione di fenomeni figli della fase
storica attuale.
Posto all’interno di una lettura di lunga durata,
in dichiarata controtendenza rispetto alle odierne logiche
«istantanee», il recupero dell’eredità scomoda del PdA può senz’altro
divenire un utile strumento d’interpretazione degli anni 1958-1968 che
cambiarono l’Italia e soprattutto del quinquennio successivo alla caduta
del muro di Berlino che nel nostro Paese determinò l’avvio di una nuova
fase storico-politica che proprio ai giorni nostri volge al termine
avviando una nuova transizione dai contorni quanto mai indefiniti e che
tuttavia richiama in modo brusco e diretto alla necessità di ridefinire i
termini della relazione politica tra memoria pubblica, democrazia e
impianto valoriale della Repubblica di matrice resistenziale.
Il
punto nodale alla base della riflessione proposta dai «Cantieri
dell’Azionismo» risiede nel tentativo di non esaurire l’antifascismo e
la Lotta di Liberazione entro il perimetro alto e nobile della
Resistenza e di non vincolarlo in modo esclusivo all’individuazione, sia
chiaro indispensabile, della Costituzione come traduzione di sistema
della lotta 1943-1945.
I termini dell’esercizio plurale della
democrazia, il rapporto tra le classi, i diritti di cittadinanza ed i
suoi istituti di garanzia segnano una linea d’indirizzo concreta ed
interamente antiretorica in grado di «parlare» di nuovo, come nei primi
decenni della Repubblica, a quella massa di persone e di nuovi cittadini
provenienti dal mondo, che cercano quelle fondamentali forme di
protezione ed emancipazione sociale, d’identità solidale e indipendenza
culturale che l’assetto elitario della modernità ha loro violentemente
sottratto.
Questa appare ad oggi la natura profonda dell’esercizio
della politica, individuare i tratti profondi della caratterizzazione
democratica con l’obiettivo di rompere, proprio in tempi assai confusi,
con l’eterno ritorno di quella che Piero Gobetti chiamava
l’autobiografia della Nazione.