il manifesto 7.4.18
Un’aggressione giudiziaria alla democrazia brasiliana
Lula.
Siamo di fronte a quello che Cesare Beccaria, in «Dei delitti e delle
pene», chiamò «processo offensivo» dove «il giudice», anziché
«indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo»
di Luigi Ferrajoli
Il
4 aprile è stata una giornata nera per la democrazia brasiliana. Con un
solo voto di maggioranza, il Supremo Tribunal Federal ha deciso
l’arresto di Inacio Lula nel corso di un processo disseminato di
violazioni delle garanzie processali. Ma non sono solo i diritti del
cittadino Lula che sono state violati.
L’intera vicenda
giudiziaria e le innumerevoli lesioni dei principi del corretto processo
di cui Lula è stato vittima, unitamente all’impeachment assolutamente
infondato sul piano costituzionale che ha destituito la presidente Dilma
Rousseff, non sono spiegabili se non con la finalità politica di porre
fine al processo riformatore che è stato realizzato in Brasile negli
anni delle loro presidenze. E che ha portato fuori della miseria 50
milioni di brasiliani. L’intero assetto costituzionale è stato così
aggredito dalla suprema giurisdizione brasiliana, che quell’assetto
aveva invece il compito di difendere.
Il senso non giudiziario ma
politico di tutta questa vicenda è rivelato dalla totale mancanza di
imparzialità dei magistrati che hanno promosso e celebrato il processo
contro Lula. Certamente questa partigianeria è stata favorita da un
singolare e incredibile tratto inquisitorio del processo penale
brasiliano: la mancata distinzione e separazione tra giudice e accusa, e
perciò la figura del giudice inquisitore, che istruisce il processo,
emette mandati e poi pronuncia la condanna di primo grado: nel caso Lula
la condanna pronunciata il 12 luglio 2017 dal giudice Sergio Moro a 9
anni e 6 mesi di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici per 19
anni, aggravata in appello con la condanna a 12 anni e un mese. Ma
questo assurdo impianto, istituzionalmente inquisitorio, non è bastato a
contenere lo zelo e l’arbitrio dei giudici. Segnalerò tre aspetti di
questo arbitrio partigiano.
Il primo aspetto è la campagna di
stampa orchestrata fin dall’inizio del processo contro Lula e alimentata
dal protagonismo del giudice di primo grado, il quale ha diffuso atti
coperti dal segreto istruttorio e ha rilasciato interviste nelle quali
si è pronunciato, prima del giudizio, contro il suo imputato, alla
ricerca di un’impropria legittimazione: non la soggezione alla legge, ma
il consenso popolare.
L’anticipazione del giudizio ha inquinato
anche l’appello. Il 6 agosto dell’anno scorso, in un’intervista al
giornale Estado de Sao Paulo, il Presidente del Tribunale Regionale
Superiore della 4^ regione (TRF-4) di fronte al quale la sentenza di
primo grado era stata impugnata ha dichiarato, prima del giudizio, che
tale sentenza era «tecnicamente irreprensibile».
Simili
anticipazioni di giudizio, secondo i codici di procedura di tutti i
paesi civili, sono motivi ovvi e indiscutibili di astensione o di
ricusazione, dato che segnalano un’ostilità e un pregiudizio
incompatibili con la giurisdizione. Siamo qui di fronte a quello che
Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, chiamò «processo
offensivo», dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del
vero», «diviene nemico del reo», e «non cerca la verità del fatto, ma
cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia e crede di perdere se non
vi riesce».
Il secondo aspetto della parzialità dei giudici e,
insieme, il tratto tipicamente inquisitorio di questo processo
consistono nella petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi
accusatoria da provare, che dovrebbe essere la conclusione di
un’argomentazione induttiva suffragata da prove e non smentita da
controprove, forma invece la premessa di un procedimento deduttivo che
assume come vere solo le prove che la confermano e come false quelle che
la contraddicono.
Di qui l’andamento tautologico del ragionamento
probatorio, nel quale la tesi accusatoria funziona da criterio di
orientamento delle indagini, da filtro selettivo della credibilità delle
prove e da chiave interpretati va dell’intero materia le processuale. I
giornali brasiliano hanno riferito, per esempio, che l’ex ministro
Antonio Pallocci, in stato di custodia preventiva, aveva tentato nel
maggio scorso una «confessione premiata» per ottenere la liberazione, ma
la sua richiesta era stata respinta perché egli non aveva formulato
nessuna accusa contro Lula e la Rousseff ma solo contro il sistema
bancario.
Ebbene, questo stesso imputato, il 6 settembre, di
fronte ai procuratori, ha fornito la versione gradita dall’accusa per
ottenere la libertà. Totalmente ignorata è stata al contrario la
deposizione di Emilio Olbrecht, che il 12 giugno aveva dichiarato al
giudice Moro di non aver mai donato alcun immobile all’Istituto Lula,
secondo quanto invece ipotizzato nell’accusa di corruzione.
Il
terzo aspetto della mancanza di imparzialità è costituito dal fatto che i
giudici hanno affrettato i tempi del processo per giungere quanto prima
alla condanna definitiva e così, in base alla legge «Ficha limpia»,
impedire a Lula, che è ancora la figura più popolare del Brasile, di
candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre. Anche
questa è una pesante interferenza della giurisdizione nella sfera della
politica, che mina alla radice la credibilità della giurisdizione.
E’
infine innegabile il nesso che lega gli attacchi ai due presidenti
artefici dello straordinario progresso sociale ed economico del Brasile –
l’infondatezza giuridica della destituzione di Dilma Rousseff e la
campagna giudiziaria contro Lula – e che fa della loro convergenza
un’unica operazione di restaurazione antidemocratica. E’ un’operazione
alla quale i militari hanno dato in questi giorni un minaccioso appoggio
e che sta spaccando il paese, come una ferita difficilmente
rimarginabile.
L’indignazione popolare si è espressa e continuerà
ad esprimersi in manifestazioni di massa. Ci sarà ancora un ultimo
passaggio giudiziario, davanti al Superior Tribunal de Justicia, prima
dell’esecuzione dell’incarcerazione. Ma è difficile, a questo punto,
essere ottimisti.