il manifesto 7.4.18
Nel cuore orientale d’Europa il populismo si fa «Stato» e regime
Tempi
presenti. «L’Europa dell’Est e i nuovi nazional-populismi. I casi
polacco e ungherese», il libro di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu,
per Bonomo editore
Frans Masereel, da «La città, un viaggio appassionato»
di Tommaso Di Francesco
Se
il populismo si manifesta quando un popolo non si sente rappresentato,
che cosa è quando, raggiunto il potere nelle forme o del partito o del
movimento politico, diventa sistema e regime?
Un interrogativo
attuale, alla luce del risultato elettorale in Italia, al quale risponde
il saggio L’Europa dell’Est e i nuovi nazional-populismi. I casi
polacco e ungherese di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu (Bonomo
Editore, pp. 125, euro 15), che attraversa genesi e forme ormai
istituzionali di un populismo al potere in due società dell’Est Europa,
Polonia e Ungheria. Che mostrano perfino una articolazione delle loro
fondanti degenerazioni-ragioni «ideologiche», con elementi a comuni,
come la riscoperta dell’integralismo nazionalista e dall’autoritarismo,
la xenofobia contro il diverso e il migrante tanto da costituire l’anima
del Gruppo dei Paesi di Visegrad, ma anche con «ispirazioni» politiche
difformi.
TUTTE COMUNQUE SORRETTE da una profonda quanto
menzognera rilettura-revisione della storia del XX secolo, il «secolo
breve» , che spazia dal periodo tra le due guerre mondiali, comprende il
ruolo del nazismo – per il quale si rivendica la presunta innocenza
delle due nazioni – e arriva fino al periodo del socialismo realizzato.
Ungheria e Polonia vedono, dopo la caduta del Muro di Berlino,
nell’avvento al potere di forze finalmente nazionaliste una
«rivoluzione» realizzata – o controrivoluzione necessaria – rispetto ai
limiti e ai «tradimenti» che sarebbero stati rappresentati dai governi
democratici eredi diretti delle svolte dell’89. Fatto singolare, mentre
la leadership di destra di Budapest deriva da una trasformazione in
senso reazionario di una forza, il Fidesz, che alla nascita si
dichiarava «progressista» e contendeva questo spazio alla formazione
d’ispirazione socialdemocratica, in Polonia invece la continuità a
destra resta confermata ma certo con una sterzata nella voragine della
conservazione dell’integralismo cattolico del PiS al potere, che arriva
ormai a mettere all’indice anche le espressioni più sociali e storiche
di figure come Walesa, protagonista del fermento degli anni Ottanta che
fu Solidarnosc. Quando infatti nel giugno dell’89 vennero fatti i
funerali di Stato a Budapest all’ex segretario comunista Imre Nagy,
impiccato dopo i moti del ’56, era presente tra la folla l’attuale
presidente Viktor Orbán, un giovanotto con barba e capelli lunghi, un
contestatario qualsiasi che avrebbe dato vita ad una formazione
«progressista», la stessa che ora è autoritaria, revisionista storica e
razzista.
NEL PREZIOSO SAGGIO di Cristina Carpinelli e Massimo
Congiu emerge che entrambi i «sistemi» che si insediano per esplicita
«reazione», trovano legittimità in una nuova «volontà di nazione», come
programmaticamente dichiara il Pis, il partito di Jaroslav Kaczyinski,
per motivare la risposta autoctona alla sfida della crisi dei modelli
occidentali importati e «accettati»: il capitalismo finanziario, la
democrazia parlamentare e la difesa atlantica.
ALLA DERIVA delle
privatizzazione che a Est – e ovunque – hanno ricostituito vere e
proprie oligarchie economiche, si risponde con la riscoperta
dell’intervento dello Stato, dove in Ungheria si insiste sul rilancio
del «capitalismo ungherese» e del «lavoro ungherese» con una sorta di
Ungheria first, e con il welfare da difendere ma nella logica dell’Ordo
caritatis, un ordine della carità che sostiene «prima la tua famiglia,
poi la tua nazione, poi gli altri».
I migranti economici così sono
out, pena il declino della «civiltà occidentale, e quelli che in fuga
dalle guerre pure, visto che Polonia e Ungheria dichiarano di non aver
partecipato ai conflitti in corso, come in Siria. Un’altra menzogna,
perché al conflitto in Iraq – l’inizio della fine – si arruolarono
subito nella coalizione dei volenterosi nel 2003 al seguito di Bush.
E
si risponde alla crisi dei partiti democratici e socialdemocratici al
potere dopo l’89, con l’autoritarismo e la devastazione dello stato di
diritto, con la messa sotto controllo della stampa, della magistratura e
delle forme appena abbozzate della cosiddetta «società civile»,- così
fragile da poggiare l’esistenza sul sostegno esterno come fa l’odiato
magnate Soros con le Ong.
IL TERZO ELEMENTO, fondamentale è
l’adesione alla Nato come punto qualificante d’appartenenza. In
particolare per la Polonia, sia dal punto di vista interno, assicurando
sul territorio polacco basi militari decisive come quella del nuovo
sistema antimissile Usa a ridosso della frontiera russa, sia con il 2,5%
del Pil di spesa per gli armamenti; con incremento degli addetti alle
Forze armate e la creazione di una forza paramilitare su base volontaria
di 53mila unità, una guardia nazionale parallela su imitazione di
quella americana. Fatto significativo, nella Polonia che ha la memoria
del golpe di Jaruzelski del 1981 e che partecipò all’invasione dell’ex
Cecoslovacchia nel ’68, hanno fatto ingresso in pompa magna come fosse
un trionfo nel gennaio 2017 circa tremila militari della Nato
accompagnati da festosa sfilata di 80 carri armati. Come se non
bastasse, l’arrivo di Trump in Europa per il G20, ha visto come prima
tappa presidenziale proprio la Polonia: una apoteosi, con la
partecipazione al secondo summit dell’iniziativa «Tre mari» (Trimarium,
Baltico, Mar Nero e Adriatico) che schiera militarmente dodici paesi
dell’Europa centro-orientale, tutto l’ex Patto di Varsavia, tranne per
ora l’Ungheria) contro la Russia dopo l’eterodiretta crisi ucraina.
Mentre l’Ue sullo sfondo appare più come copertura ideologica e
fornitrice di assistenza monetaria; perché l’obiettivo per Budapest e
Varsavia è una «Europa delle patrie» e va rigettata ogni dimensione
sovranazionale che possa assomigliare alle unioni come l’Urss.
Nazional-populismi
dunque da paura. Avvisaglia di guerra in Europa, ma intanto si
consolidano come «Stato» e regime. Non più solo democrature come
denunciava Predrag Matvejevic.