il manifesto 5.4.18
Il ritrattista forzato di Pol Pot
Memoir. «Il pittore dei khmer rossi» di Vann Nath, per Add editore
di Simone Pieranni
Una
 testimonianza storica raccontata attraverso immagini e parole può 
diventare anche ispirazione per una sentenza giudiziaria. Il pittore dei
 khmer rossi di Vann Nath pubblicato da Add Editore (pp.155, euro 18) 
nella collana «Asia» rende giustizia a tanti elementi: alla storia, 
perché narra la vita di un uomo all’interno di uno dei carceri più 
violenti del breve ma terribile regno dei khmer rossi.
POI, RENDE 
GIUSTIZIA al memoir, genere letterario che talvolta affoga nel mare 
dell’ombelico individuale. Infine all’epica, accompagnata dalle 
coincidenze della vita e dalla forza di vite che – evidentemente – 
dovevano diventare rilevanti nella storia del proprio paese.
Quella
 Cambogia tra l’«Anno Zero» del 1975 e la caduta dei khmer rossi nel 
1979 che Vann Nath raffigura, era contrassegnata da alcuni incubi 
ricorrenti.
A COMINCIARE DALLE PAROLE; come scrive l’autore del 
volume, i khmer rossi «non provavano alcuna pietà per gli altri esseri 
umani. La loro accusa di essere kmang, un nemico, era davvero potente. 
Separava tra loro padri e madri, figli e fratelli. Questa parola, kmang,
 spaventava la gente di ogni livello sociale». E poi la volontà 
distruttrice. Non dimentichiamo che con «Anno Zero» i khmer intendevano 
molto più di un nuovo corso storico: avevano in mente – per la 
precisione – uno sterminio necessario. Come ricorda Vann Nath, gli 
slogan trasmessi ogni giorno alla radio erano i seguenti: «Bisogna 
distruggere tutto del regime precedente. Costruite una nuova Kampuchea 
florida, progressista, sempre più evoluta».
RIPERCORRIAMO 
rapidamente i fatti: nel 1975 il capo di governo Lon Nol rovescia 
Sihanouk – il figlio dell’ex monarca – ma nel 1975 è a sua volta 
rovesciato dai khmer rossi che proclamano la nascita della Kampuchea. 
Non esiste più denaro, religione e libertà: centinaia di migliaia di 
persone sono spostate dalle città (che rimangono deserte) alle campagne.
 Moltissimi di loro – tra un milione e mezzo e tre milioni – sono 
uccisi. Nel 1976 Pol Pot diventa primo ministro, nel 1977 la Kampuchea è
 in guerra con i vietnamiti. Nel 1979 i soldati vietnamiti entrano a 
Phnom Penh e i khmer rossi scappano al confine con la Thailandia. Via 
via il paese torna a una quasi normalità (e anche oggi non è esente da 
involuzioni autoritarie).
VANN NATH viene arrestato nel 1978. 
Quando esce dall’incubo (e dalla prigione) ha troppo da raccontare e 
troppo da selezionare; la sensazione sua e degli altri sopravvissuti a 
quella prigione (la S-21) deve essere stata simile a quella dei pochi 
usciti vivi dall’Olocausto: una percezione di orrore associata alla 
paura di non essere creduti. Dietro ogni sopravvissuto a un massacro, 
c’è sempre lo scetticismo del resto del mondo. E allora Vann Nath si 
mette lì e piano piano, mattoncino dopo mattoncino, costruisce di fronte
 ai nostri occhi il palazzo degli orrori che lui e tanti come lui hanno 
vissuto.
Vann Nath è perfino uno dei più fortunati: arrestato 
senza un motivo, accusato senza accuse, imprigionato senza una colpa, 
viene salvato dalla sua arte. Sa dipingere e i «fratelli» alla guida del
 carcere hanno bisogno di artisti capaci di celebrare l’«Anno Zero» 
della Kampuchea, il «fratello numero uno» su tutti. E così giorno dopo 
giorno, sempre imprigionato e all’ascolto di torture e brutalità, Vann 
cerca di mangiare e dormire quel che basta per trovare le forze 
necessarie a dipingere il ritratto niente meno che di Pol Pot. Deve 
farlo bene, con precisione, con passione, con dovizia di particolari: se
 così non accade, è morta certa. La sua seconda fortuna è quella di 
essere arrestato e di finire in carcere negli ultimi lunghi mesi prima 
della fine, almeno istituzionale, del dominio di Pol Pot e compagnia. 
Siamo in Cambogia, un paese raso al suolo umanamente: Vann e pochi altri
 sopravvissuti decidono che tra le mura del carcere deve nascere un 
museo per testimoniare le sofferenze proprie e altrui.
LA SUA ARTE
 lo aveva mantenuto vivo in prigione; fuori la sua pittura deve 
mantenere vivo il ricordo di quanto è successo al suo paese. Quando 
viene aperto il museo, in fila tra la gente in attesa di entrare, Vann 
Nath trova perfino un suo vecchio carceriere. Vann Nath non ha volontà 
di vendetta, non con i pesci piccoli almeno: il capo, invece, sarà 
condannato proprio grazie alle testimonianze dei sopravvissuti. Vann 
muore nel 2011 e non vede la condanna a vita del 2014 ai danni dei 
dirigenti khmer rimasti in vita. Ma può andare bene così: l’arte 
suggerisce, puntualizza, apre spiragli. Sentenziare è compito della 
giustizia.
 
