il manifesto 5.4.18
La fattoria dorata dell’angelo della morte
Intervista.
Un incontro con lo scrittore e giornalista francese Olivier Guez, in
Italia per presentare il suo libro «La scomparsa di Josef Mengele»,
uscito con Neri Pozza
Twin dissection di Fortunio Liceti
di Guido Caldiron
In
fuga dalle sue responsabilità e da una Germania che non ha nessuna
voglia di guardarsi dentro, Helmut Gregor arriva a Buenos Aires mentre
l’eco della guerra ancora incendia l’Europa. Ha avuto però il tempo di
raccogliere i suoi preziosi appunti, stilati ad Auschwitz nei 16 mesi
passati come capitano medico delle SS a decidere della vita e della
morte di centinaia di migliaia di persone, certo che i terribili
esperimenti inflitti ai deportati gli avrebbero spianato la strada per
una brillante carriera accademica. All’epoca, prima di essere accolto
dalla folta comunità di criminali nazisti fiorita intorno alla corte di
Juan Domingo Perón, si chiamava ancora Josef Mengele.
Grazie a uno
stile secco, aspro e teso che non concede alcuna tregua ai lettori, lo
scrittore e giornalista francese Olivier Guez ricostruisce in La
scomparsa di Josef Mengele (Neri Pozza, pp. 204, euro 16,50, traduzione
di Margherita Botto), tra i finalisti del Goncourt e vincitore lo scorso
anno del Prix Renaudot, la seconda vita dell’«angelo della morte» di
Auschwitz. Quella trascorsa immerso negli agi del «nazismo dopo il
nazismo» dei regimi compiacenti del Sudamerica e quella che, dopo la
cattura di Adolf Eichmann da parte del Mossad nel 1960 a Buenos Aires,
si trasformerà invece in una fuga senza quartiere.
Con la
determinazione di un detective, Guez dà la caccia a Mengele e al suo
mito, accompagnato dall’amara consapevolezza che «ogni due o tre
generazioni, quando la memoria si affievolisce e gli ultimi testimoni
dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si eclissa e alcuni
uomini tornano a propagare il male».
Il percorso che conduce a
questo libro è iniziato con «L’Impossible Retour», un’inchiesta (inedita
in Italia) sul ritorno degli ebrei in Germania dopo il 1945 e con la
sceneggiatura del film «Lo Stato contro Fritz Bauer», dedicato al
magistrato che segnalò al Mossad la presenza di Eichmann in Argentina
non fidandosi dei colleghi di Francoforte. Quale il significato di
questo suo viaggio nel lungo dopoguerra europeo?
Sono più di dieci
anni che indago i temi legati al secondo dopoguerra, procedendo per
tappe. Lavorando sul ritorno degli ebrei mi sono imbattuto nella figura
di Bauer e in seguito il regista Lars Kraume mi ha chiesto di scrivere
la sceneggiatura del suo film. Tramite le inchieste di Bauer ho scoperto
i nazisti rifugiati in Argentina e da qui è nato l’interesse per
Mengele. Quanto al senso del mio itinerario, va ricercato nel fatto che
«i dopoguerra», al plurale, vale a dire il periodo compreso tra il 1914 e
il 1945, hanno plasmato la nostra Storia, ciò che siamo ancora oggi. In
quegli anni in Europa ci sono stati 85 milioni di morti. Nessun’altra
civiltà è stata attraversata da un tale istinto suicida. Un trauma che
non è stato superato e forse non lo sarà mai. Perciò, affrontare tali
vicende significa guardarsi ancora intorno.
Mengele era figlio di
un ricco industriale bavarese, che garantirà per decenni la fuga in
Sudamerica. Dopo aver applicato con esperimenti atroci sui prigionieri
di Auschwitz le tesi eugenetiche che andavano per la maggiore nelle
università europee, finirà per vendere tra Argentina e Paraguay le
macchine agricole di famiglia. La sua figura incarna una parabola
tragica delle contraddizioni della modernità?
I Mengele sono un
simbolo del successo industriale tedesco e non c’è dubbio che le
«fabbriche della morte» dei lager, legate al sistema economico e
imprenditoriale del paese, hanno avuto a che fare con l’affermarsi di
quella modernità omicida. Quando, dopo la cattura di Eichmann, Mengele
inizia a sentirsi braccato, maledirà il fatto che i suoi mentori, gli
scienziati dell’Istituto Kaiser Wilhelm di Berlino, che lo avevano
inviato ad Auschwitz «in missione», si stanno godendo indisturbati la
pensione. Mengele si pensa come un superuomo nietzschiano e come parte
di un sistema non solo ideologico, ma anche medico, tecnico e
scientifico che ha immaginato il futuro selezionando la specie umana
come se si trattasse di piante.
Mengele è stato descritto come un
essere demoniaco. Questo libro lo riporta tra gli uomini, rendendo i
suoi crimini e la sua personalità forse ancor più terribili.
Io
volevo dimostrare che era un uomo. Non ho mai sopportato la
rappresentazione del nazismo come mostruosità, quasi si trattasse di
qualcosa che, in fondo, come esseri umani non ci riguardasse. Ho
raccontato chi si celava dietro al mito dell’«angelo della morte». E ciò
che ho scoperto, più che con la banalità del male di cui parlava Hannah
Arendt a proposito di Eichmann, ha a che fare con una sorta di
mediocrità del male. Mengele si era iscritto tardi al partito, perché
gli serviva per fare carriera all’università e allo stesso modo aveva
accettato il trasferimento ad Auschwitz perché in ballo ci sarebbe
potuta essere una cattedra a Berlino. Il suo odio per gli ebrei era
assoluto, ma per lui uccidere e torturare anche i bambini costituiva
solo una tappa per la propria realizzazione professionale, per quel
successo personale cui continuerà a pensare anche in seguito.
Grazie
alla protezione di Perón e dei militari locali, Mengele conduce una
vita agiata a Buenos Aires. La «caccia ai nazisti» è stata poco più che
una leggenda?
La verità è che per oltre un decennio nessuno ha
cercato davvero di arrestarli, anche se si sapeva dove si trovavano.
Addirittura, nel 1956, Mengele ottenne dal consolato della Rft a Buenos
Aires documenti con la sua vera identità con i quali rientrare per
qualche tempo in Baviera. Soltanto dopo il caso Eichmann, anche in
Germania ricominceranno i processi e, alla fine degli anni Sessanta, una
nuova generazione chiederà finalmente ai propri padri conto del loro
recente passato hitleriano. Solo allora, Mengele compreso, i nazisti
capiranno di essere stati sconfitti.
Per lui, la sconfitta avrà il
volto di suo figlio Rolf che lo raggiunge in Sudamerica per dirgli che
non intende vederlo mai più. È questa la sua vera e unica condanna?
Dopo
il processo Eichmann, Mengele sarà preda di una paranoia crescente che
gli farà vedere agenti pronti ad arrestarlo ovunque. Passerà così più di
15 anni, fuggendo prima in Paraguay, poi in Brasile, vivendo in piccole
fattorie, in luoghi sempre più isolati. L’incontro con il figlio
arriverà nel 1977, due anni prima della sua morte, al culmine di questa
fuga, direi quasi di questa follia che può essere considerata la sua
sola condanna. In quell’occasione cercherà di difendere il proprio
operato. Ovviamente, invano. A Rolf che gli chiede conto delle sue
azioni ad Auschwitz, replica con i toni di un tempo, rivendica quanto
fatto e ammonisce, «sappi che la coscienza è un’istanza malata,
inventata da individui morbosi per ostacolare l’azione e paralizzare chi
agisce». Il figlio se ne andrà senza nemmeno replicare.
Ricostruendo
l’intimità di Mengele lei è entrato nel territorio della fiction,
colmando i vuoti e le pagine bianche della storiografia. Non ha avuto
paura di scivolare in quella sorta di morbosità che circonda le cronache
della vita dei nazisti?
A guidarmi verso la forma del romanzo è
stata la stessa vita condotta da Mengele in Sudamerica che appare così
incredibile da avere un aspetto profondamente romanzesco. Non a caso non
è il Mengele di Auschwitz che ho rivisto attraverso questo libro, non
avrebbe avuto senso. Mi interessava descrivere «Mengele dopo Mengele»,
la sua fuga dorata e quindi la sua caduta. Per questo ho fatto ricorso a
un romanzo di non-fiction. Vale a dire ricostruire vicende reali in una
forma narrativa. Il mio modello è stato A sangue freddo di Truman
Capote che racconta una storia vera, ma è considerato come un punto di
congiunzione tra il giornalismo e la letteratura.
Nessun’altra
vicenda, come la fuga dei nazisti ha alimentato la cultura popolare più
della ricerca storica. Lo stesso Simon Wiesenthal si è mosso al confine
tra questi elementi. La battaglia per la memoria se ne è giovata?
È
solo grazie alla cultura popolare se il nome di Mengele è giunto sino a
noi. E se, per questa via, i crimini del nazismo sono impressi nelle
coscienze a ogni latitudine. Wiesenthal ha fatto ricorso a qualunque
strumento perché il capitolo della ricerca dei colpevoli e
dell’individuazione delle loro responsabilità non si chiudesse. Film
come Il maratoneta e I ragazzi venuti dal Brasile, che alle sue azioni
si sono ispirati, hanno mantenuto desta l’attenzione su questi temi.
Mentre progredivano le indagini sul piano storiografico, tutto ciò ha
contribuito senza dubbio a salvarci dall’oblio.