il manifesto 5.4.18
Una Siria unita e via libera alla caccia ai curdi
Vertice
ad Ankara. Erdogan, Putin e Rouhani decidono il futuro di Assad. E
mettono fine alle speranze di autonomia curde. Intanto Trump vorrebbe
ritirare i soldati Usa dalla regione, ma il Pentagono non la pensa così
di Dimitri Bettoni
ISTANBUL
Russia, Turchia e Iran si sono incontrate ieri ad Ankara per un nuovo
round di colloqui sulla guerra in Siria, conclusi all’insegna di un
riavvicinamento tra paesi che cercano così di coniugare le diverse
visioni e strategie.
Nel comunicato rilasciato, il presidente
russo Putin, quello turco Erdogan e quello iraniano Rouhani hanno
ribadito il rispettivo impegno come «garanti del raggiungimento di un
cessate il fuoco duraturo, in linea con il processo politico indicato
dalla risoluzione n. 2254 del Consiglio di sicurezza della Nazioni
unite». Di fatto, da tempo i tre paesi hanno trasformato il dramma
siriano in una faccenda da gestire a tre, con l’esclusione del resto
della comunità internazionale e soprattutto gli Stati Uniti. I tre
presidenti hanno anche «rigettato ogni tentativo di creare nuove realtà
sul territorio con il pretesto di combattere il terrorismo e contro ogni
sostegno a un’agenda separatista che violi la sovranità e l’integrità
territoriale della Siria».
Una dichiarazione che, ad uno sguardo
attento, stride fortemente con le ambizioni sia turche che iraniane, ma
che soprattutto cozza con l’evidente incapacità di Damasco di riprendere
nelle proprie mani le redini del paese.
Oltre la facciata, al
sostanziale raggiungimento di una linea comune, fanno da contraltare una
serie di frizioni che rischiano di mandare all’aria mesi di trattative
tutt’altro che semplici.
L’evoluzione sul campo, in particolare a
partire dal 2015 con il massiccio intervento militare russo, ha spinto
Ankara ad abbandonare le velleità di destituzione di Assad, obiettivo
condiviso con Washington all’inizio della guerra, e a virare verso una
politica di rappacificamento con il vicinato che fissa due obiettivi
primari: sopprimere qualsivoglia politica curda autonoma o indipendente,
soprattutto se ideologicamente affine al confederalismo democratico, e
piantare saldamente un piede nel futuro della nazione siriana e, più in
generale, dell’intera regione.
Obiettivi che il Cremlino sembra in
questo frangente voler assecondare. Il sostanziale via libera
all’invasione turca del nordovest siriano ha concesso ad Ankara di
giocarsi un ruolo militare che aveva perduto. Erdogan ha ribadito più
volte che gli accordi assicurano alla Turchia un posto al tavolo
decisionale sul futuro siriano, un processo che richiederà anni e
altrettanto a lungo consentirà ad Ankara di far valere il suo peso nella
regione.
Mosca si presta anche a far da paciere tra Turchia e
Iran, che vede di malocchio l’espansionismo turco. In questi giorni
Ankara sta installando la sua ottava base d’osservazione nella zona di
Idlib e consolidando il blocco sunnita, mentre Teheran cerca invece di
preservare il corridoio sciita che, passando per il nord Iraq, raggiunge
la Siria e le coste del Mediterraneo.
In cambio del controllo
turco su Idlib, la Russia si aspetta da Ankara la completa sottomissione
della variegata galassia gruppi ribelli anti-regime, che include anche
quelle frange salafite e quaediste che Damasco e Mosca vorrebbero
isolare, per poi condurre le rimanenti fazioni ad un tavolo negoziale
dove Assad possa dettare le condizioni.
Per ora Ankara tira quindi
i fili di questa galassia: cerca di garantirle un’area sicura e voce in
capitolo in Siria in cambio di una cooperazione anti-curda nel nord.
Erdogan ha ribadito di aver messo nel mirino le restanti regioni sotto
il controllo dei cantoni autonomi curdi, sia che gli Stati Uniti
abbandonino la regione, come sembra preferire la presidenza Trump, sia
che decidano per la permanenza, come vorrebbero invece sia il Pentagono
che gli ufficiali schierati in loco.