il manifesto 4.4.18
Un accordo voluto dall’italiano Filippo Grandi per mettere fine alle espulsioni
Unhcr-Israele. Il «rammarico» dell’Agenzia Onu. «Mesi di lavoro buttati via. Israele ci ripensi»
di Carlo Lania
Mesi
 di lavoro buttati al vento. Un sforzo diplomatico cesellato fino 
all’ultima parola e reso nullo dalla protesta di alcuni ministri del 
governo di Benjamin Netanyahu, ma anche dalle dichiarazioni, a dir poco 
intempestive, con cui il premier israeliano ha reso noto l’accordo 
firmato lunedì con l’Unhcr per il ricollocamento di 16 mila dei circa 40
 mila rifugiati sudanesi ed eritrei che Israele vuole espellere.
Da
 Ginevra, dove l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha la sua sede 
centrale, le vicende di queste ore vengono seguite con sbigottimento, 
quasi incredulità vedendo andare improvvisamente in fumo la possibilità 
per alcune migliaia di rifugiati di essere ricollocati, e quindi messi 
in sicurezza. Un lavoro seguito tra gli altri personalmente dall’Alto 
commissario per i rifugiati, l’italiano Filippo Grandi, che non ha mai 
risparmiato critiche alla scelta di Israele di espellere i profughi 
africani. «Le politiche di ricollocamento forzato sono sbagliate e 
controproducenti. Ci sono alternative possibili», aveva detto Grandi a 
gennaio scorso sollecitando il governo israeliano a non dare avvio alle 
partenze.
Dietro l’appello c’era la consapevolezza dei rischi che 
una simile politica comporta per la vita dei profughi. Quando la 
minaccia del carcere non basta, pur di «convincere» eritrei e sudanesi 
ad andare via Israele concede loro 3.500 dollari, soldi che anziché 
aiutare rischiano di diventare una fonte di pericolo per la vita stessa 
dei profughi, trasformati in bersaglio della criminalità una volta 
trasferiti in un Paese africano (tra quelli di cui in passato si è 
parlato come possibili destinazioni ci sono anche il Ruanda e l’Uganda).
 Prede di criminali disposti a tutto pur di riuscire a mettere le mani 
su quel piccolo tesoro. Motivo per cui una volta deportati i profughi 
vivono letteralmente nel terrore di essere aggrediti.
Come 
testimoniano i racconti fatti ai funzionari dell’Unhcr da 80 eritrei, 
alcuni dei quali con familiari ancora in Israele. «La maggior parte ha 
detto di essere stata inviata da Israele in un Paese africano con una 
somma di 3.500 dollari», è spiegato in un report dell’Agenzia. «Tuttavia
 la situazione all’arrivo è apparsa a tutti ben diversa dalle 
aspettative, al di là della sistemazione fornita per la prima notte. Gli
 uomini hanno raccontato di essersi sentiti a rischio, anche perché si 
sapeva che avevano con sé denaro». Molti di loro non hanno avuto altra 
scelta che affidarsi ai trafficanti che dopo un viaggio di centinaia di 
chilometri durante il quale non sono mancate torture e maltrattamenti, 
li hanno condotti in Libia e imbarcati su un gommone diretto in Europa.
C’era
 anche tutto questo dietro l’accordo incautamente bruciato da Netanyahu.
 Che quasi a caso ha citato Canada, Italia e Germania come tre dei Paesi
 disponibili ad accogliere i profughi ma che invece non figurano in 
alcun modo nell’accordo sottoscritto con l’Unhcr. In realtà il premier 
avrebbe citato i tre Paesi solo perché il Canada si è sempre dimostrato 
disponibile ad accogliere profughi, mentre un numero molto esiguo di 
rifugiati ha parenti stretti in Italia e Germania e quindi per loro 
sarebbe stato possibile attuare un ricongiungimento familiare.
Per
 quanto riguarda invece la reale destinazione dei profughi, all’Unhcr 
ricordano come all’inizio di ogni anno si tiene una conferenza 
internazionale sui ricollocamenti nella quale ogni Paese comunica quanti
 posti è disposto ad offrire per l’accoglienza di richiedenti asilo. 
Spesso si tratta solo di pledges, promesse che purtroppo sono destinate a
 rimanere tali. Ma comunque utili all’Agenzia dell’Onu per pianificare 
il proprio lavoro e cercare di portare in salvo il maggior numero 
possibile di disperati.
 
