il manifesto 28.4.18
La seduzione fatale del narcisismo
Intervista.
 Parla il filosofo marxista Brian Leiter dell’università di Chicago. 
Come la «politica dell’identità» nella società americana fa dimenticare 
le disuguaglianze economiche. «Trump ha vinto perché 100mila operai 
hanno lasciato i Democratici. La sinistra è ostaggio di aspiranti 
borghesi in cerca di riconoscimento»
di Roberto Veneziani
Negli
 ultimi decenni, gli Stati Uniti sono stati caratterizzati da una 
crescente polarizzazione nella società e da forti oscillazioni 
elettorali. Da un lato, l’elezione del primo Presidente afro-americano e
 i movimenti di massa con piattaforme radicali (Occupy Wall Street, 
Black Lives Matter, e la campagna #metoo); dall’altro lato, l’elezione 
di Donald Trump e l’ascesa dell’estrema destra. Diverse nazioni sembrano
 convivere all’interno degli stessi confini, e la distanza tra esse 
cresce a vista d’occhio.
Due sono le spiegazioni ricorrenti di 
questa polarizzazione: il ritorno delle classi sociali al centro 
dell’arena politica (dimostrato dalla vittoria di Trump negli stati 
deindustrializzati della «Rust Belt») e i limiti della cosiddetta 
identity politics. La «politica dell’identità» è una strategia di 
definizione delle posizioni politiche e di costruzione dei blocchi 
sociali basata su elementi identitari quali etnia, genere, età, 
religione, orientamento sessuale. Nel tentativo di costruire una 
coalizione basata sulla politica dell’identità, il Partito democratico –
 e la sinistra Usa in generale – avrebbe perso di vista i problemi 
economici, consegnando il tema delle divisioni di classe alla destra.
Il
 ruolo delle classi sociali e dell’ideologia, e la relazione fra 
religione, etica e politica, sono al centro della ricerca di Brian 
Leiter. Filosofo della morale, della politica e del diritto, Leiter è 
professore ordinario alla Facoltà di giurisprudenza dell’università di 
Chicago. È anche un intellettuale pubblico e interviene regolarmente nei
 dibattiti accademici e politici, sui principali mezzi di comunicazione 
Usa e nella blogosfera. Il suo nuovo libro su Marx sta per essere 
pubblicato da Routledge.
Come definirebbe la politica 
dell’identità e quanto è centrale nella sinistra (mainstream e radicale)
 e nella società statunitense?
La politica dell’identità consiste 
nella richiesta di vari gruppi storicamente marginalizzati negli Usa – 
neri, donne, omosessuali – di essere «riconosciuti» e di ottenere 
rispetto per le proprie identità costruite su etnia/genere/sesso anche 
all’interno di relazioni di produzione di tipo capitalistico. La 
politica dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, che 
desiderano sedersi alla tavola della società capitalista e ottenere la 
propria quota di riconoscimento nel linguaggio e nella cultura. (Si 
pensi alle controversie grottesche sul numero di artisti neri che hanno 
ricevuto l’Oscar.) Nella misura in cui è ostaggio della politica 
dell’identità, la cosiddetta sinistra negli Usa è impotente contro i 
veri ostacoli al progresso umano.
L’enfasi posta sulla politica 
dell’identità ha spesso portato a spostare l’attenzione dalle 
disuguaglianze economiche alla sfera culturale e linguistica. Quali sono
 i limiti di questo slittamento da un punto di vista politico? E possono
 spiegare, almeno in parte, il fenomeno Trump e la sconfitta della 
sinistra mainstream Usa?
La sinistra statunitense è defunta da 
decenni, a cominciare dalla caccia ai comunisti negli anni Cinquanta per
 continuare con la rivoluzione neoliberale e la guerra al movimento 
sindacale degli anni Ottanta. Trump è il sintomo e non la causa 
dell’assenza della sinistra negli Usa. Non c’è un’unica causa che 
spieghi la sua vittoria, ma un fattore determinante è stato la diffusa 
insicurezza economica delle vittime della globalizzazione – per lo più 
membri della classe operaia. Trump ha vinto perché circa 100mila operai 
hanno abbandonato i Democratici in tre stati industriali. Trump ha 
offerto una «spiegazione» dell’insicurezza economica: i posti di lavoro 
sono andati a migranti, minoranze, e lavoratori di altri paesi. Aveva 
ragione su questi ultimi, ma è troppo stupido per capire che nel 
capitalismo è inevitabile: se la manodopera costa meno in altri paesi, 
le imprese delocalizzano. Puntando il dito contro migranti e minoranze, 
ha giocato anche sulla retorica a volte ottusa dei sostenitori della 
politica dell’identità, ma non è stato un fattore determinante in questa
 elezione, al confronto con le ampie sacche di razzismo che ancora 
persistono. Bisogna ricordare che negli Stati uniti sono passate solo 
due generazioni da quello che era un vero e proprio regime di apartheid.
La
 politica dell’identità ha svolto un ruolo anche in recenti dibattiti 
all’interno della sinistra, generando controversie su temi come l’etica 
nella ricerca e la libertà di opinione. La tendenza è quella di 
sorvegliare i confini disciplinari e gli argomenti di discussione 
considerati legittimi…
Se si tiene a mente che la politica 
dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, questo fenomeno è
 meno sorprendente. Negli Usa la stragrande maggioranza degli accademici
 proviene da famiglie benestanti, e, da un punto di vista economico, le 
loro vite sono molto diverse da quelle della classe lavoratrice; alcuni 
accademici poi sono membri, o aspiranti tali, delle classi dominanti. 
Come altri componenti della loro classe sociale fuori dall’accademia – 
nel mondo degli affari, per esempio, – vogliono la loro quota del 
capitale culturale, di rispetto e riconoscimento. La tragedia è che in 
America l’unico posto in cui posizioni di dissenso radicale sono 
possibili è proprio l’università. I narcisisti della politica 
dell’identità conducono una guerra sulla lingua e contro le idee che 
urtano la loro sensibilità nell’accademia. Non si rendono conto che 
questo semplicemente legittimerà l’esclusione delle idee che non si 
limitano a urtare le suscettibilità ma minacciano realmente lo status 
quo e il sistema economico dominante. Come diceva Marcuse, le università
 devono essere luoghi di «tolleranza indiscriminata» di tutte le idee 
che sono parte di una scienza (Wissenschaft).
Ma se un appello a 
concetti normativi, quali uguaglianza, solidarietà e libertà, non può 
spingere gli oppressi a ribellarsi contro il sistema capitalista, allora
 cosa può farlo?
Gli ideali politici e morali sono molto 
importanti per gli esseri umani, ma non c’è alcuna prova che gli scritti
 teorici (spesso incomprensibili) degli accademici su questi temi 
facciano alcuna differenza. Marx, che era un ottimo scrittore (a 
differenza di Habermas), catturò l’immaginazione dei rivoluzionari del 
XIX secolo perché spiegò loro le cause di fenomeni a loro visibili e 
indicò una strada da seguire; non dovette convincerli che stavano 
soffrendo. Nessuno che legga Marx può confonderlo con Habermas. Ma 
tornando alla sua domanda: cosa può motivare una resistenza al 
capitalismo? Su questo concordo con Marx: la miseria. E tuttavia Marx 
sottovalutò i capitalisti in un aspetto cruciale: essi riconobbero 
presto la necessità di evitare che la ricerca del profitto spingesse 
troppe persone in miseria, almeno non nei loro paesi (da questo punto di
 vista, Trump è in piena continuità). Ovviamente, la miseria da sola non
 basta: la gente deve comprendere le cause reali della propria 
situazione. Ed è per questo che Marx è importante, mentre Habermas è 
importante solo per i professori universitari.
Lei ha scritto che 
una delle cose su cui «Marx ha avuto ragione ben più dei suoi critici è 
la secolare tendenza nelle società capitaliste all’impoverimento della 
maggioranza delle persone» e il compromesso socialdemocratico del 
secondo dopoguerra si rivelerà presto una mera parentesi. Perché, 
dunque, la sinistra è in piena crisi in quasi tutti i paesi avanzati?
Siamo
 solo agli inizi, e non dobbiamo ripetere l’errore di Marx di 
sovrastimare il ritmo dello sviluppo storico. Si ricordi che Marx, come 
molti utopisti del XIX secolo impressionati dalla rivoluzione 
industriale, pensava che l’era dell’abbondanza fosse dietro l’angolo. 
Aveva torto. Siamo più vicini adesso di quanto lo fossimo un secolo fa, 
ma allo stesso tempo solo ora cominciano a crollare le barriere imposte 
per limitare le distorsioni dello sviluppo capitalista nei paesi più 
avanzati. Avevano lo scopo di celare la logica del capitale, e cioè la 
ricerca costante del profitto attraverso la sostituzione del lavoro vivo
 con le macchine, con il conseguente impoverimento di chi ha solo il 
proprio lavoro da vendere. Quando avvocati, dottori, e manager 
scopriranno che il loro lavoro non è più necessario, vedremo cosa 
succederà. Internet rende tutto più difficile: la rete è il disastro 
epistemologico del XXI secolo, perché non filtra né l’ideologia 
capitalista né il semplice rumore di fondo. Ma Marx è un illuminista, e 
la trasformazione dell’economia richiede una comprensione delle cause e 
degli effetti. È possibile nell’era del web? Non lo sappiamo ancora.
 
