il manifesto 1.4.18
Winckelmann, esperienze mentali al Museo
Una
mostra ai Musei Capitolini. Lo studioso tedesco, giunto a Roma nel
1755, fu testimone entusiasta della fase fondativa delle collezioni
antiche in Campidoglio
di Maria Fancelli
E’
molto probabile che, in un bilancio delle manifestazioni per il doppio
giubileo di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), la mostra allestita
in Campidoglio da Eloisa Dodero e Claudio Parisi Presicce, Il Tesoro di
Antichità (ancora fino al prossimo 22 aprile) possa venir collocata tra i
primi posti; insieme al Catalogo che gli stessi studiosi hanno curato
per l’editore Gangemi e che ne è l’indispensabile completamento.
Un
riconoscimento tanto più significativo in quanto il 300° della nascita e
il 250° della morte del padre dell’archeologia, nel 2017 e nel 2018,
hanno stimolato in tutte le principali capitali culturali europee una
fitta serie di iniziative e hanno visto concludersi importanti imprese
editoriali: quali ad esempio l’edizione storico-critica delle opere in
venti volumi a cura della Accademia di Magonza e della Winckelmann
Gesellschaft (Schriften und Nachlass), ma anche l’edizione italiana
completa delle Lettere, pubblicata in tre volumi dall’Istituto Italiano
di Studi Germanici (2016).
Il contributo capitolino alle
manifestazioni giubilari è sottolineato anche da un ciclo di conferenze
internazionali sulla ricezione europea di Winckelmann che, organizzato
dall’Istituto Archeologico Germanico, si concluderà, non a caso, proprio
in Campidoglio il 14 giugno prossimo con la conferenza dello studioso
olandese Erich Moormann.
Sono molte le ragioni per cui questa
mostra può essere considerata una sorta di coronamento del duplice
anniversario: non solo per la suggestione del luogo e per la
spettacolare cornice che questi Palazzi offrono sempre alle opere d’arte
che abbiano la ventura di esservi esposte, ma soprattutto perché in
questo luogo opere e documenti intessono con il monumento che li
contiene un dialogo del tutto particolare e unico.
La mostra è
tutta centrata su questa relazione e sulla eccezionale saldatura tra il
destino personale dello studioso e la storia del museo capitolino. Tanto
che si può dire che tutte le esperienze mentali più importanti di
Winckelmann sono legate al Campidoglio e al suo giovane Museo, nel quale
c’erano tutte le condizioni perché maturasse e prendesse corpo il
progetto di una storia evolutiva dell’arte antica.
Quando
Winckelmann arrivò a Roma, infatti, nell’autunno del 1755, in una fase
di evidente decadenza del potere romano, quello spazio si andava sempre
più profilando come luogo simbolico della continuità con la Roma antica e
come sede di una nuova funzione civile. Un ruolo cominciato quasi una
ventina d’anni prima, da quando cioè Clemente XII, nel 1734, l’aveva
aperto ai visitatori facendone il primo museo pubblico al mondo. Il Papa
Corsini lo aveva fatto per la salvaguardia del patrimonio pontificio e
anche per stimolare, insieme alla conoscenza delle opere originali, la
necessità della loro tutela e del loro restauro, con la consapevolezza
di un compito indifferibile di fronte all’avanzante processo di
dispersione delle grandi collezioni private. Antefatti molto importanti
per la comprensione della mostra, come ci dicono nei loro contributi
Carole Paul e Federica Papi; le quali ci informano di come nascesse
proprio allora, insieme all’idea di tutela e all’esigenza di una
normativa giuridica, una sensibilità nuova sia per i contesti di scavo e
di ritrovamento, sia per i documenti scritti.
Winckelmann è stato
davvero il testimone massimo di questa fase fondativa e gloriosa del
Museo e della nuova sensibilità per le antichità romane. Appena giunto a
Roma, infatti, il già noto studioso tedesco si precipita al Campidoglio
approfittando del libero ingresso concesso agli artisti; capisce subito
il rischio che correvano le preziose antichità a Roma; scrive
freneticamente pagine e pagine sulle collezioni romane dandoci così una
mappatura preziosa di come esse dovevano essere prima della loro
definitiva dispersione. Ville e Palazzi di Roma è il titolo di un lungo
testo manoscritto del 1756, custodito a Parigi, edito nel 2000
dall’editore Quasar e nel 2003 nel quinto volume della già citata
edizione di Magonza.
Ebbene, questa fase, questo clima e questo
fervore sono resi molto bene dalle 124 opere, volumi e documenti
distribuiti nei suggestivi ambienti della mostra. Tutte le cinque
sezioni vi contribuiscono grazie anche a significativi prestiti: la
prima con la ricerca sulle immagini, sulle incisioni, sui progetti del
Campidoglio; la seconda sulle acquisizioni del Museo e sui suoi primi
anni di attività; la terza sulle opere che Winckelmann vide e che
formarono l’ossatura della sua Storia dell’Arte Antica; la quarta sugli
allestimenti perduti del Museo Capitolino e, infine, la quinta, sul
cosiddetto Percorso Winckelmann.
Come una sorprendente novità
troviamo all’ingresso un grande tondo a rilievo con il volto di
Winckelmann (cat. 96). Si tratta di uno dei medaglioni che decoravano la
facciata dell’edificio costruito sul Campidoglio tra il 1873 e il 1877
come sede dell’Istituto Archeologico Germanico (e dell’Ambasciata
tedesca fino al 1915), e che si sono ben conservati nei magazzini dei
Musei Capitolini. Questo tondo è straordinario perché, mentre ci riporta
alla mente la monumentalizzazione di Winckelmann in età guglielmina,
esprime e suggella quella osmosi tra lui e il Campidoglio che rimane il
perno attorno al quale ruota tutta la mostra.
Se il percorso
espositivo parla in primo luogo agli studiosi e ai conoscitori, si deve
dire che anche il visitatore dilettante può cogliere, al di là del
discorso specialistico, le ragioni di una esposizione e i suoi punti di
forza. Chiari pannelli esplicativi stimolano, infatti, a ripensare
l’incontro di un uomo con il Museo e insieme un pezzo importante della
storia della Roma settecentesca; mentre dai materiali in mostra emergono
diversi nuclei di interesse storico e biografico di più immediata
comprensione.
Il primo riguarda senz’altro l’intreccio tra
passione antiquaria e affari che si produce nella Roma di allora in
tutti gli ambienti frequentati da Winckelmann e, in particolare, tra i
suoi amici e i suoi protettori.
Al centro di questo intreccio c’è
il lungo filo che ha legato Winckelmann al Cardinale Albani; un filo che
veniva molto da lontano, ben antecedente l’arrivo dello studioso a Roma
e quasi iscritto nel suo destino. Nel 1728, infatti, era stato proprio
il Cardinale Alessandro a vendere ad Augusto il Forte, Elettore di
Sassonia e futuro Re di Polonia, una parte consistente della sua
collezione che Winckelmann, com’è noto, poté vedere proprio a Dresda. Le
vicissitudini della vendita del 1728, l’avventuroso viaggio di andata
delle casse Albani da Livorno per Amburgo e da qui per Dresda, la loro
breve e imperfetta esposizione ci vengono raccontate da Saskia Wetzig in
uno dei primi contributi del catalogo. Tra i meriti della mostra c’è
senz’altro il fatto di avere fatto tornare per l’occasione alcune tra le
più significative antichità di Dresda in una sorta di ideale
ricongiungimento con i luoghi da cui erano partite.
Un altro
importante nucleo di interesse di questa mostra, forse il più
importante, è quello che viene dalle opere egizie, tra le quali il calco
degli anni Trenta dell’Antinoo Egizio (Cat. p. 329). Se a metà
Settecento il Campidoglio possedeva già tutto ciò che serviva al
confronto delle opere antiche, alla valutazione e alla revisione
iconografica delle fonti letterarie, le statue egizie (e poi le gemme
Stosch) influenzarono in maniera determinante le idee winckelmanniane
sugli inizi della storia dell’arte. Nel campo dell’arte egizia, come
affermano i curatori nell’introduzione, Winckelmann è stato un vero
precursore e ha svolto per la nascita dell’egittologia una funzione che
può essere accostata senza dubbio a quella di Champollion. La stessa
cosa, d’altronde, era emersa da una mostra del 2003 su Winckelmann e
l’Egitto, curata da Max Kunze e Alfred Grimm, che da Stendal si era
spostata a Monaco e a Vienna; nel mezzo era stata al Museo Vela di
Ligornetto che per l’occasione aveva pubblicato anche un catalogo in
lingua italiana. Lo stesso Grimm vi scriveva che «…giustamente celebrato
come fondatore della storia dell’arte occidentale, Winckelmann è a
torto ignorato quale iniziatore di quella egizia …» (p. 140).
Infine,
per il visitatore curioso di vite e di storie, il punto più intrigante è
dato dalla lettura di tre documenti esposti per la prima volta. Si
tratta di tre licenze di esportazione concesse dal governo pontificio,
firmate da Winckelmann in persona nella sua qualità di Commissario alle
Antichità, un incarico esercitato dal 1763 fino alla morte.
Vale
la pena di leggere con attenzione la licenza di esportazione della
famosa Venere Barberini o Venere Jenkins firmata e glossata
dall’archeologo. La Venere, di proprietà di Thomas Jenkins era in
vendita a Giovanni Dick, console inglese per la Toscana e agente di
molti collezionisti privati.
Ebbene, la licenza di esportazione
porta un commento scritto di pugno da Winckelmann che si sentiva
evidentemente quasi in dovere di giustificare il permesso di uscita di
un’opera di cui nelle lettere (24 maggio e 3 giugno 1764) aveva tanto
esaltato la bellezza: il busto è bellissimo, scrive, ma molte parti sono
moderne. Si poteva dunque procedere in base al criterio dell’integrità e
rilasciare la licenza di esportazione, visto che il Campidoglio già
possedeva la sua Venere che, altrettanto bella, era anche perfettamente
conservata.
Certo mai avrebbe pensato, il Commissario Winckelmann
che quella Venere, dopo varie avventure e periodi di silenzio, nel 2002
sarebbe stata battuta a una delle aste più alte della storia antiquaria e
acquistata, sembra, dal ricchissimo Emiro del Qatar.