il manifesto 1.4.18
Camus e il carnefice ghigliottinato che ci giudica: dobbiamo tacere
Diritto
e ideologia. «Ghigliottina» di Albert Camus, edito da Medusa: un
pamphlet scritto nel 1957 in cui il potere intimidatorio della pena di
morte viene analizzato come inutilità, morale e sociale
di Roberto Andreotti
«La
malattia dell’Europa si chiama non credere a nulla e pretendere di
saper tutto». Così Albert Camus (1913-1960) scriveva profeticamente nel
saggio Réflections sur la guillotine che conobbe un’articolata vicenda
editoriale. Manès Sperber, amico di Malraux, decise di far tradurre in
Francia Reflections on hanging (1955) che raccoglieva gli scritti che
Arthur Koestler aveva dedicato al tema della pena di morte
sull’«Observer» e chiese a Camus di comporre un testo da accompagnare a
tale opera. Approntato all’inizio del 1957, il saggio apparve nei numeri
di giugno e luglio della «Nouvelle Revue Française» per essere infine,
nello stesso anno, accolto in volume da Calmann-Lévy con il titolo
Réflections sur la peine capitale. Oltre allo scritto di Camus e alla
traduzione parziale del testo di Koestler figurava un’indagine sulla
pena di morte in Francia curata da Jean Bloch-Michel che firmava anche
una breve prefazione. Ora le Edizioni Medusa ripropongono meritoriamente
con il titolo La ghigliottina Riflessioni sulla pena di morte (pp. 108,
€ 13,00) il pamphlet di Camus nella valida traduzione di Maria Lilith
allestita per Longanesi nel 1958, opportunamente rivista da Alfredo
Rovatti e preceduta da una prefazione di Riccardo De Benedetti (una
versione integrale del volume collettaneo uscì con il titolo La pena di
morte presso Newton Compton nel 1972 e un’ulteriore trasposizione del
testo di Camus, Riflessioni sulla pena di morte, vide la luce per SE nel
1993).
La tematica affrontata da Camus è quanto mai attuale e
spazia da osservazioni di carattere autobiografico (il padre avrebbe
assistito a un’esecuzione capitale, rimanendone fortemente
impressionato) a speculazioni di stampo socio-politico che lo videro
esporsi in prima persona contro la condanna a morte di Brasillach,
subentrato, all’epoca del regime di Vichy, a Jean Paulhan alla guida
della «NRF» e accusato di collaborazionismo: «Senza la pena di morte
Gabriel Péri e Brasillach sarebbero forse ancora tra noi, e noi potremmo
emettere senza vergogna un giudizio su di loro, secondo la nostra
opinione, mentre invece sono essi che ora ci giudicano, e noi dobbiamo
tacere». L’esecuzione capitale presuppone dunque un rapporto rovesciato
tra il carnefice e i suoi giudici, laddove il primo rischia di incarnare
i panni della vittima sacrificale, tenendo conto che «si applica una
legge senza discuterla e i nostri condannati muoiono, diciamo così, per
forza d’inerzia». Camus sostiene l’inutilità del «potere intimidatorio»
di tali tecniche efferate, riportando una serie di testimonianze che
potrebbero confluire in una moderna galleria degli orrori. Partendo
dalla biblica legge del taglione e passando per Cesare Beccaria, Camus
si avventura a descrivere come il condannato fosse una sorta di colis,
sballottato prima dell’esecuzione da una cella all’altra e infine
esposto al pubblico ludibrio. Con uno stile semplice ma efficace, che
nulla concede sul versante demagogico, lo scrittore della Peste,
insignito nello stesso 1957 del Nobel, paragona la pena di morte «a una
rozza operazione chirurgica eseguita in circostanze che la spogliano di
qualsiasi carattere edificante».
«Per anni e anni io non ho visto
nella pena di morte che un supplizio non tollerabile per l’immaginazione
e una delittuosa indolenza che la mia ragione condannava» osserva
Camus, soffermandosi ad investigare come «per secoli e secoli sono stati
puniti di morte delitti diversi dall’assassinio eppure la pena massima,
applicata tanto a lungo, non li ha fatti sparire; da secoli gli stessi
delitti non sono più puniti con la morte eppure non sono aumentati di
numero e alcuni sono perfino diminuiti». Sulla falsariga di quell’Homme
révolté, come si intitola la sua raccolta di saggi del 1951, che
costituisce la più coraggiosa maniera di svincolarsi dal dogmatismo
ideologico che imperversava in quegli anni («Visto che non viviamo più i
tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della
rivolta» aveva scritto), il pensiero di Camus non poteva non affrontare
un argomento spinoso quale quello della pena capitale. Sempre con
un’ammirevole autonomia di giudizio e un sorprendente esprit de finesse
svincolati da qualsiasi atteggiamento precostituito: «Non per questo,
credo, e devo ripeterlo, che la responsabilità non esista al mondo, e
che occorra compiacere la moderna tendenza ad assolvere tutti, vittime e
uccisori, accomunandoli in una confusione d’ordine sentimentale fatta
più di vigliaccheria che di generosità e che, in fin dei conti, arriva a
giustificare anche le cose peggiori. Benedicendo a occhi chiusi si va a
rischio di benedire anche un campo di schiavi, la forza vile, i
carnefici organizzati e il cinismo dei mostri politici, di vendere i
propri fratelli, insomma: non c’è che da guardarsi attorno». Già, non
c’è che da guardarsi attorno, anche a distanza di mezzo secolo…