il manifesto 15.4.18
Netanyahu si congratula con Trump ma Israele chiede molto di più
Siria.
Israele applaude al presidente americano che ha tenuto fede alla
promessa di attaccare la Siria. Ma Tel Aviv voleva ben altro dai raid
che non hanno cambiato nulla sul terreno e hanno evitato di colpire le
postazioni dell'Iran e di Hezbollah in Siria
di Michele Giorgio
Benyamin
Netanyahu si congratula con Donald Trump che ha dato il via, assieme a
Londra e Parigi, ai raid contro la Siria. Quei missili sarebbero la
prova dell’impegno Usa a fermare «l’uso di armi chimiche», sostiene il
premier israeliano che ieri ha lanciato un avvertimento minaccioso al
presidente siriano Bashar Assad perché permetterebbe all’Iran di
consolidare la sua presenza in Siria. Parla di «importante
avvertimento» a quello che descrive come l’asse del Male – Iran, Siria e
movimento sciita libanese Hezbollah – anche il ministro delle
costruzioni Yoav Gallant. Eppure dietro le quinte Netanyahu, i suoi
ministri e i generali scuotono la testa. Trump parla di «missione
compiuta» ma i suoi missili «belli e intelligenti», e quelli di
Macron e May, non hanno cambiato nulla sul terreno a favore degli
interessi di Israele. Interessi che non sono mirati, come affermano e
scrivono i suoi leader, a punire i “cattivi” che usano armi proibite.
«I missili di venerdì notte hanno lasciato le cose come stanno – ci
spiega l’analista Mouin Rabbani – Trump e i suoi alleati sono stati
attenti a non innescare la risposta militare del Cremlino, dell’Iran e
pure della Siria. Si è trattato di un attacco limitato nella potenza e
negli scopi che non ha riguardato alcuna delle questioni che davvero
interessano a Israele». L’agenda israeliana in Siria, aggiunge
Rabbani, «è molto più ambiziosa e Netanyahu sa che Israele è solo
nonostante l’appoggio che gli offre Trump. I motivi dello scontro tra
Iran e Israele sono ancora tutti lì».
Netanyahu non vuole che
Tehran consolidi la sua presenza militare in Siria, specie dalle parti
del Golan oltre il quale Israele conta di costituire una sorta ”fascia
di sicurezza”, in profondità nel territorio siriano meridionale, sotto
il controllo di una o più formazioni “ribelli” schierate contro il
presidente Bashar Assad. Tehran e Hezbollah, in appoggio all’esercito
siriano, possono impedirlo. Se poi l’Iran da postazioni in territorio
siriano riuscisse a mettere sotto tiro, con i suoi missili balistici
(ben più precisi di quelli in possesso di Hezbollah), l’intero
territorio israeliano, allora finirebbe per avere in mano un potere di
detetterenza tale da indurre lo Stato ebraico a pensarci due volte
prima di lanciare un attacco alle sue centrali nucleari. «Missione
compiuta ha detto Trump, per Israele non è neppure cominciata»
sottolinea Rabbani «e Netanyahu l’ha dimostrato a inizio settimana
quando ha ordinato alla sua aviazione di colpire la base aerea siriana
T4, dove ha ucciso sette consiglieri militari iraniani, entrando in un
pericoloso faccia a faccia con Tehran». Il premier israeliano,
conclude l’analista, «sa che i russi, dopo l’attacco alla base T4,
sono meno pronti di prima a tenere conto delle preoccupazioni di
Israele riguardo ai progetti iraniani in Siria, come gli ha spiegato
Vladimir Putin qualche giorno fa». L’attacco di venerdì notte perciò
non ha allontanato, anzi, potrebbe aver avvicinato la resa dei conti
tra Iran e Israele che ieri ha chiuso lo spazio aereo sopra il Golan
siriano che occupa dal 1967.
Lo show di Trump rischia di
complicare anche i piani americani per il nord della Siria. Il
presidente Usa a fine marzo aveva annunciato, tra le proteste dietro le
quinte di Israele e dell’Arabia saudita, il ritiro (almeno a parole)
dei soldati americani dalla Siria per lasciare alle milizie curdo/arabe
addestrate e appoggiate da Washington il compito di controllare la
vasta porzione di territorio che dal nord scende verso est fino alla
città Deir Ezzor, liberata mesi fa dall’esercito siriano. Gli Usa in
quella vasta area, che include la diga sull’Eufrate di Tabqa, tengono
le mani strette su alcuni importanti giacimenti petroliferi siriani
(come quello di al Omar), sottraendo a Damasco risorse energetiche e
finanziare vitali. A gennaio era stato molto chiaro l’ex Segretario di
stato Rex Tillerson quando aveva spiegato che le truppe Usa (tra 2000 e
4000, più i contractor) sarebbero rimaste in Siria «per garantire che
né l’Iran né il presidente Bashar al Assad della Siria prenderanno il
controllo di quelle aree» rimaste per anni sotto il controllo dei
miliziani dello Stato islamico. Trump ha poi preso una decisione
diversa che ora potrebbe cambiare e non solo per il malumore di sauditi
e israeliani. «La Siria con l’appoggio della Russia potrebbe
rispondere all’attacco di venerdì notte lanciando un’offensiva militare
per riprendere il territorio settentrionale e strapparlo al controllo
Usa e delle milizie curde e arabe», avverte Mouin Rabbani. Sarebbe la
fine della “partizione” della Siria che piace ai nemici di Bshara
Assad, con aree sotto l’influenza di Turchia, Israele, degli Usa e un
territorio ampio centrale sotto il controllo di Damasco. Il 7 febbraio
le forze armate siriane avevano inviato un battaglione per recuperare
un impianto di gas vicino a Deir Ezzor ma furono respinte, con molte
perdite causate dai bombardamenti aerei americani. Stavolta, con i
russi decisi a farsi sentire, le cose potrebbero andare in modo molto
diverso.