domenica 15 aprile 2018

Corriere La Lettura 15.4.18
La conferenza di Monaco del 1938
Crede di essere una religione , ma la democrazia non lo è
Intervista a Robert Harris. Trattare con il tiranni non è disonorevole
di Danilo Taino


Tornato a Londra dalla Conferenza di Monaco, dove aveva firmato con Hitler l’accordo che cedeva i Sudeti (cecoslovacchi) alla Germania, il primo ministro britannico Chamberlain fu accolto dal giubilo popolare: vent’anni dopo il primo conflitto mondiale, aveva evitato la guerra che nessuno voleva. Era l’inizio dell’ottobre 1938 e l’anziano politico sventolava il documento nel quale il dittatore nazista assicurava una lunga pace con la Gran Bretagna. Tra le manifestazioni di gioia, però, una di segno opposto: «Vi è stata data la scelta tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore — disse Churchill a Chamberlain — e avrete la guerra».
Grazie anche a questa frase, Monaco è passata alla storia come sinonimo di capitolazione di fronte al tiranno. Quando si dice «politica di Monaco», s’intende cedimento, appeasement . E quando si parla di Neville Chamberlain si pensa a un leader debole. In effetti, Winston Churchill aveva visto bene: la guerra sarebbe arrivata un anno dopo. Ma la scelta del primo ministro in carica fu davvero disonorevole? E sbagliata? Lo scrittore, storico e giornalista britannico Robert Harris — il famoso autore, tra l’altro, di Fatherland — dice di no. Anzi: sostiene che la decisione di sacrificare una parte del territorio della Cecoslovacchia (senza nemmeno farla partecipare alla Conferenza) permise di rinviare il conflitto mondiale e consentì al Regno Unito di armarsi al punto di potere poi contenere l’aggressione nazista.
Monaco non come cedimento ma come scelta lungimirante di Realpolitik . Su questo, Harris ha pubblicato un affascinante romanzo/ricerca storica — Monaco , edito da Mondadori — nel quale, attraverso due giovani diplomatici, uno inglese e uno tedesco, ricostruisce i giorni della Conferenza, il 29 e 30 settembre 1938, e mette Chamberlain in una luce nuova. In quest’intervista trae anche lezioni per l’oggi.
Che cosa vede lei in Monaco?
«Si tratta di uno degli eventi storici di cui la gente ha una visione falsa. Penso che Chamberlain non sia affatto stato una figura passiva: volle a tutti i costi l’accordo di Monaco. Il risultato fu una battuta d’arresto per Hitler, il quale voleva la guerra».
La maggior parte degli storici non concorda con questa sua lettura.
«Le opinioni pubbliche, compresa la britannica, non volevano una guerra preventiva. Nessuno, nel 1938, vedeva Hitler come il responsabile dello sterminio di sei milioni di persone. Si sapeva che era antisemita e razzista: ma d’altra parte in quegli anni anche negli Stati Uniti c’era un approccio discutibile ai neri».
Certo. Ma perché Chamberlain volle l’accordo?
«Perché l’accordo era necessario. Fu un patto sporco ma necessario. È vero che la Royal Navy era forte e avrebbe potuto imporre un embargo alla Germania. Ma l’esercito britannico era debole e l’aviazione debolissima. Monaco permise al Regno Unito di riarmarsi, di recuperare quantitativamente e qualitativamente sulle forze tedesche, soprattutto nei cieli, fatto che poi si rivelò decisivo nella Battaglia d’Inghilterra. Chamberlain sapeva bene che la Francia di Édouard Daladier (anch’egli presente a Monaco, ndr ) non aveva intenzione di contrattaccare. Inoltre, i britannici non avrebbero capito la guerra, a differenza di un anno dopo».
Quindi quello di Chamberlain non fu un cedimento disonorevole?
«No. Anzi. Nel 1938 Hitler voleva la guerra. E accettando la Conferenza fu lui a commettere un errore. Si sentì lusingato dal primo ministro della potenza britannica che gli chiedeva di trattare. Ma nel momento stesso in cui accettò di discutere l’accordo a lui del tutto favorevole sui Sudeti gli diventò automaticamente impossibile iniziare la guerra».
Lei dunque sostiene che Chamberlain superò Hitler in astuzia.
«Certo. Monaco fu un ostacolo che lo costrinse a rimandare il conflitto. Era irritato. A dire il vero anche dal fatto che, durante i giorni della Conferenza, Chamberlain fosse osannato dalla folla di Monaco molto più di lui: nemmeno i tedeschi volevano un altro bagno di sangue».
Un caso di Realpolitik di successo.
«Senza dubbio».
Che ruolo ebbe, a suo avviso, Benito Mussolini a Monaco?
«Dobbiamo ricordare che Hitler ammirava moltissimo Mussolini, gli restò leale fino alla fine. Chamberlain chiese al Duce di intercedere per indire la Conferenza e lui lo fece. Così, quando l’ambasciatore di Roma a Berlino, Bernardo Attolico, entrò nell’ufficio del Führer con la missiva del leader italiano, i giochi erano fatti: Hitler non poteva rifiutare. L’intervento di Mussolini fu decisivo».
A lei Chamberlain piace parecchio.
«Non così tanto. Cerco però di non cadere nel cliché, nell’uso sbagliato che di Monaco si fa ancora oggi. Chamberlain era cocciuto, vanesio e ardentemente impegnato a evitare la guerra. Era un imperialista e pensava che un’altra guerra avrebbe distrutto l’impero britannico».
Che opinione invece ha di Churchill, in genere indicato come l’anti-Chamberlain, del quale poi prese il posto alla guida del Regno in guerra?
«Una figura molto più grande, epica, di enorme talento. Fu l’uomo giusto al momento giusto. Su molti punti i due andavano in realtà d’accordo anche se, fino a prima della Seconda guerra mondiale, Churchill aveva praticamente sbagliato tutto. Poi, invece, trasformò il conflitto contro il nazismo in una crociata e della sua volontà di combattere fece un fatto nazionale».
In ogni caso, lei non dà un significato negativo al termine «appeasement», al fare concessioni anche a tiranni pur di non arrivare allo scontro diretto.
«Nell’Irlanda del Nord l’Ira era un’organizzazione criminale che, tra l’altro, tentò un paio di volte di uccidere un primo ministro. Eppure tutti concordano sul fatto che Londra agì per il meglio cercando un accordo di pace. Monaco non fu dissimile. È sempre consigliabile cercare la pace. Peccato che l’America e il Regno Unito non l’abbiano fatto con Saddam Hussein. Lo stesso vale per il colonnello Gheddafi. Eviterei le guerre preventive. Ed eviterei anche le ipocrisie su Monaco: ad esempio, su quali basi morali gli americani criticano Chamberlain quando stettero a guardare per anni la guerra di Hitler senza intervenire?».
A proposito: lei era amico di Tony Blair. Amicizia poi interrotta.
«Avemmo degli scontri per più ragioni. I primi ministri britannici vanno in genere in guerra con riluttanza. Non solo Chamberlain ma anche nel caso delle Isole Falkland. Blair invece scelse la strada preventiva in Iraq. E vendette la guerra al popolo britannico».
Com’è letta oggi Monaco in Gran Bretagna?
«Non è parte del mito prevalente. La Seconda guerra mondiale è vista come la continuazione della nostra superiorità nel mondo. Dunque i britannici non amano Monaco. Amano Dunkerque perché è lì che siamo rimasti soli, e l’isolamento è glorioso. Oggi la Gran Bretagna è diventata un parco a tema della Seconda guerra mondiale. Il 617 Squadron della Raf, i Dambusters (bombardarono le dighe tedesche nel maggio 1943, ndr ), è stato ricostituito l’anno scorso, per esempio. Lo trovo imbarazzante. Nigel Farage (il leader della Brexit, ndr ) usa Monaco per dire che non bisogna cedere a Bruxelles».
Anni fa lei si è occupato di armi chimiche. Che cosa pensa del caso di Sergej Skripal e di sua figlia, avvelenati da gas nervino a Salisbury?
«Sconcertante. È un avvertimento di Vladimir Putin: se lo intralci e lo irriti, ti sarà data la caccia. Introduce l’irrazionalità negli affari esteri. Preoccupante. Barack Obama ha fatto un errore: credeva che la Russia fosse uno Stato, invece è un uomo. Non possiamo paragonare la Russia alla Germania di Hitler: sarebbe offensivo, ha battuto i nazisti. Ma l’emergere dell’uomo forte ricorda quei tempi bui. L’Europa deve stare unita, Putin vorrebbe distruggere la Ue e la Nato».
Vede le democrazie deboli, oggi, come ai tempi di Monaco?
«Dopo la caduta del Muro di Berlino abbiamo considerato la democrazia come una religione che si poteva portare ovunque. Sulle tracce di McDonald’s. Oggi possiamo dire che la fase dei neocon religiosi è finita. Ma la democrazia deve guardarsi allo specchio, vedere le sue bellezze e i suoi limiti, rendersi conto che non è una religione. Sono tempi duri per la democrazia, echi di anni Trenta».