il manifesto 12.4.18
Dalla sconfitta all’afasia, il tempo di LeU sta per scadere
Sinistra.
 Un congresso in queste condizioni sarebbe dominato dai rancori. Occorre
 riconoscere che il partito è cosa diversa dai rappresentanti nelle 
istituzioni elettive
di Mario Dogliani
Lungi da me rimpiangere il tempo in cui il dibattito politico era fatto di scolastiche citazioni dei classici.
Ma
 il modo con cui Lenin (in L’estremismo, malattia infantile del 
comunismo) descrive gli anni della reazione (1907-1910) successivi alla 
vittoria zarista fa riflettere. «Tutti i partiti rivoluzionari e di 
opposizione sono battuti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissioni, 
decomposizione, tradimento, pornografia invece di politica».
È 
esattamente quanto sta succedendo. Potremmo parlare di «metafisica della
 sconfitta» (come ha fatto Michele Prospero su questo giornale) cui si 
sono abbandonati con una sorta di voluttà troppi intellettuali.
Che
 cos’è la metafisica della sconfitta se non l’oltrepassamento 
dell’ultimo frammento di volontà politica per lasciarsi trascinare 
dall’onda dell’ignoto (il naufragar m’è dolce in questo mare), 
esorcizzata da una ben nascosta ma tranquillizzante fede storicista? O è
 solo l’abbandono di un dover essere cui si diceva di essere aggrappati,
 e che oggi invece appare troppo oscuro e pesante?
MA LASCIAMO gli intellettuali, e parliamo dei dirigenti di LeU.
A
 più di un mese dalle elezioni non si è ancora letta una loro 
interpretazione della sconfitta, né, soprattutto, una loro indicazione 
sul che fare indirizzata a quel milione di elettori che hanno visto in 
LeU una appassionante speranza (morale e politica).
Perché questo 
silenzio, che solo D’Alema ha rotto, su questo giornale, ma con uno 
scritto personale, non espressivo dell’intero gruppo dirigente? Perché 
la storia di LeU, purtroppo, è una storia di silenzi che viene da 
diverse storie di silenzi.
Consideriamo le vicende dei tre soggetti che hanno dato vita a LeU, da quando si intrecciano.
Nel
 maggio 2015 un gruppo di parlamentari Pd vota No all’Italicum e prende 
consistenza la «minoranza dem». Nel giugno, Possibile si scinde dal Pd; 
nel luglio, si scinde Futuro a Sinistra, che nel novembre forma il 
gruppo parlamentare Si-Sel.
Nell’ottobre 2016 parte della 
minoranza dem decide di votare No al referendum costituzionale; nel 
febbraio 2017 si scinde dal Pd e dà vita a Articolo 1, che nel maggio 
tiene a Milano una convenzione (Fondamenta).
Sempre nel febbraio 
2017 viene fondata Sinistra italiana, che subisce nello stesso Congresso
 fondativo una consistente scissione.
Nel giugno si tiene l’assemblea del Brancaccio.
Sullo sfondo di questi eventi, del 2017, si agita confuso il disegno di «Campo progressista».
Nel
 novembre Art. 1, Si e Possibile – a seguito di una oscura vicenda che 
provoca la rottura con il movimento del Brancaccio, al quale partecipava
 anche Rifondazione comunista – danno vita ad una lista unitaria, che il
 3 dicembre un’assemblea nazionale denominerà «Liberi e Uguali».
Campo progressista e il movimento del Brancaccio si sciolgono.
UNA
 STORIA CONVULSA. Ma, e proprio qui sta il punto, chi volesse narrarla 
non troverà riflessioni scritte dai suoi protagonisti che ne motivino i 
passaggi e la interpretino a fondo. Troverà solo articoli di cronaca, 
interviste, tweet, passaggi in talk-show…
Troverà qualche documento anche pregevole (Centro studi Nens), ma non uno sforzo serrato di elaborazione.
In
 una parola: la storia di LeU, e delle sue componenti, è una storia di 
sottovalutazione della cultura politica: della cultura dei fini e della 
cultura dei mezzi.
La mancanza di idee provoca afasia. Purtroppo 
nessun Michelangelo ha avuto la forza di scagliare un martello e di 
gridare: «Parla!».
Prima che la disperazione travolga tutto occorre ribadire che è nelle cose la necessità di un’organizzazione politica autonoma.
E
 per questo occorre dire che l’esperimento di LeU è andato malissimo non
 solo per cause oggettive, ma anche per gravi errori soggettivi.
Ciò
 non significa prendere una scorciatoia politicante. Non vuol dire che, 
invece di ricercare le cause profonde della sconfitta, si debbano 
cercare le colpe.
E in ogni caso: altro è ricercare le colpe/cause
 della sconfitta per correggere gli errori; altro abbandonarsi alle 
accuse e crogiolarsi nel benaltrismo.
Le cause soggettive sono 
tutte conseguenze della hybris (superbia, orgoglio che porta a eccedere e
 prevaricare) dei gruppi dirigenti delle tre componenti, che hanno dato 
vita ad un processo di alleanza, e di scelta della leadership, 
assolutamente autoreferenziale.
E sì che una buona cultura 
economica, finanziaria, sociologica, giuridica sui malanni della nostra 
società e sui rimedi c’era, e c’è.
Ma non è stato possibile farla 
precipitare in un programma chiaro, semplice nelle sue formulazioni 
finali, capace di dare speranza e di orientare le pulsioni sociali 
sottraendole alla manipolazione populistica. La politica da molti anni 
ha pensato di essere autosufficiente (per quel che le serve, 
onnisciente).
Dall’autosufficienza alla afasia (al parlarsi 
addosso) il passo è brevissimo. E così la spina dorsale di LeU non è 
stata la proposta politica, ma il rinserrarsi del suo ceto politico.
IN
 QUESTE CONDIZIONI, dar vita, a freddo, a un Congresso è rischioso. Si 
tornerebbe a parlare di quote, di cariche, di candidature… dominerebbero
 veti, egoismi e rancori.
Il narcisismo politicistico sprecherebbe
 quel tesoro di generosità e di intelligenza che la campagna elettorale 
ha mostrato. Un milione di voti di militanza pura.
Occorrerebbe 
invece, per riprendere il cammino, innanzi tutto chiudere con l’idea che
 la struttura portante del partito sono gli eletti (dai parlamentari ai 
consiglieri di circoscrizione) e riconoscere che altro è il partito, 
altro i rappresentanti nelle istituzioni elettive, o i nominati da 
questi.
Il partito è una associazione di cittadini: non si 
identifica affatto con chi rappresenta la nazione o una comunità 
territoriale. Anzi, è vitale che tra partito e titolari di cariche 
elettive resti un dualismo, una dialettica, una distinzione di compiti.
Per
 evitare l’arroccamento il primo passo dovrebbe dunque essere fatto da 
un soggetto dotato di una qualche rappresentatività dei militanti.
Non un primo passo burocratico, ma politico-programmatico.
Il
 cammino congressuale dovrebbe essere un titanico sforzo di messa a 
punto e di strumentazione di idee, trasformandole in proposte ben 
strutturate.
Chi potrebbe prendere l’iniziativa?
I 150 
scienziati e ricercatori (primo firmatario Asor Rosa) che hanno 
sottoscritto un appello per il voto a LeU? Oppure i delegati 
all’Assemblea del 3 dicembre, ai quali fu chiesto solo di applaudire (e 
che dunque attendono ancora una Assemblea vera)?
Gli uni e gli 
altri potrebbero lanciare la proposta di prime iniziative – nazionali o 
regionali – che gli organismi provvisori di LeU dovrebbero 
sollecitamente convocare.
 
