il manifesto 11.4.18
La svolta neoliberale che penalizza le donne
Assegno di divorzio. Oggi la decisione delle sezioni unite della Cassazione
di Maria Rosaria Marella
Il
10 aprile le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimeranno
sui criteri di quantificazione dell’assegno di divorzio e in particolare
su quel parametro del «tenore di vita analogo a quello avuto in
costanza di matrimonio», di cui la Prima Sezione Civile della Cassazione
con la sentenza n. 11504 del 2017 ha messo in dubbio attualità e
fondatezza dopo oltre venticinque anni di giurisprudenza costante. In
tal modo i giudici della Prima Sezione hanno inteso por fine alla
cosiddetta solidarietà post-coniugale, argomento con il quale si è
giustificato sin qui il mantenimento dell’ex coniuge senza limiti di
tempo, con risvolti che in alcuni casi hanno anche potuto sollevare
qualche perplessità.
Sennonché la strada imboccata dalla corte è
ben peggiore del male cui intendeva rimediare. Non solo perché si
pretende, in virtù di un’interpretazione letterale (e pedissequa) della
legge sul divorzio, di scindere il giudizio sul diritto all’assegno dal
giudizio sulla sua determinazione, come se la sussistenza del diritto ad
essere mantenuto dall’ex-coniuge non dipendesse direttamente dalla
definizione dello standard di vita che il mantenimento deve soddisfare. E
non solo perché il principio di diritto che ribalta un orientamento
consolidato viene espresso in occasione di un caso del tutto peculiare,
nel quale la ex moglie che reclama l’assegno è un’imprenditrice
benestante che nulla ha preteso in sede di separazione. Ciò che
veramente colpisce e sgomenta è l’adozione incondizionata della
razionalità neoliberale, in forza della quale si afferma che il criterio
cardine nella disciplina dei rapporti post divorzio è
l’autoresponsabilità economica, sintagma che tanto da vicino richiama
«l’individuo imprenditore di se stesso» di Foucault.
In virtù
della stessa logica, gli ex-coniugi vanno considerati come singoli senza
che in alcun modo riverberi il precedente ménage comune e il matrimonio
non è più la fonte di una sistemazione economica per la vita, ma invece
un atto di libertà. Un atto di libertà iniziale che deve esitare poi in
una condizione – possibilmente permanente – di autoresponsabilità
economica.
Nel mezzo fra il prima e il poi un regime giuridico
matrimoniale che è per contro ancora informato alla solidarietà
familiare, cosicché, in costanza di matrimonio, il lavoro di cura è
dovuto in quanto forma di contribuzione al ménage familiare, senza che
sia possibile negoziare una qualche forma di retribuzione, neppure per
il surplus prestato in rapporto al contributo dell’altro coniuge. Sempre
la solidarietà familiare impedisce che le rinunce alla carriera
professionale fatte per dedicarsi ai figli, ai genitori anziani, alla
famiglia siano direttamente remunerate. È stata opinione comune sinora
che una remunerazione fosse affidata al parametro del mantenimento del
tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, da garantirsi anche
dopo il divorzio.
La prima sezione civile della Cassazione ci ha
detto nel maggio scorso che non è più così, che questo criterio non è
più adeguato ai tempi, che è giunto il momento dell’emancipazione. La
Cassazione usa un linguaggio neutro, ma è chiaro che si riferisce
all’emancipazione economica delle donne. L’argomento dell’emancipazione
femminile è stato spesso usato per promuovere riforme epocali del regime
giuridico del divorzio in altri paesi. In alcuni casi ha effettivamente
corrisposto al raggiungimento dell’indipendenza economica delle donne.
In altri casi ha condotto alte percentuali di donne divorziate sotto la
soglia di povertà. Inutile dire che gli effetti positivi si sono avuti
solo in paesi, come la Svezia, dotati di formidabili sistemi di welfare
pubblico. In paesi come gli Stati Uniti l’alleggerimento degli oneri di
mantenimento post-divorzile, a fronte di un sistema di welfare molto
marginale, non ha fatto altro che rimpinguare la schiera delle donne
povere.
Nell’Europa meridionale, in paesi come l’Italia o la
Grecia, dove l’assistenza agli anziani e alle nuove generazioni è per lo
più a carico delle famiglie, fissare col divorzio la fine dei rapporti
di solidarietà familiare significa negare a quei familiari, mogli e
madri nella stragrande maggioranza dei casi, il riconoscimento del
valore prodotto dal lavoro riproduttivo.
La logica del tenore di
vita goduto in costanza in matrimonio è una logica perequativa: mira a
redistribuire la ricchezza comune creata durante il matrimonio a
prescindere dalla posizione che si ricopre nel mercato. La logica
dell’autoresponsabilità economica è puramente ideologica: non produce
alcun effetto emancipatorio concreto e lascia irrisolto il problema del
valore sociale del lavoro di cura.
Ovviamente la soluzione
potrebbe essere trovata in qualche forma di sostegno al reddito. In
assenza di misure di welfare pubblico, la disciplina del divorzio resta
essenziale: come dicevano due noti realisti americani, i coniugi
negoziano in the shadow of the law.
Più il regime legale del
divorzio è sperequato, maggiore è la disparità di potere nei rapporti
fra i coniugi. Già oggi più del 25% delle donne subisce violenza
psicologica o economica dal partner. Se nelle Sezioni Unite dovesse
prevalere la razionalità neoliberale aumenterà irrimediabilmente la
percentuale delle donne soggette e violenze e ricatti in famiglia.