Il Fatto 27.4.18
Lago della Duchessa, un falso di Stato per trattare sul serio
di Miguel Gotor 
Alle
 9:30 del 18 aprile 1978, mentre l’acqua continuava a colare al piano di
 sotto del covo di via Gradoli, un giornalista de Il Messaggero 
ricevette una telefonata di “voce maschile, con accento romanesco, ma 
non di borgata”, che annunciò di avere lasciato un comunicato delle 
Brigate rosse in un cestino dei rifiuti di piazza Gioachino Belli, nel 
quartiere romano di Trastevere. Il volantino annunciava “l’avvenuta 
esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante ‘suicidio’” e 
forniva le coordinate per recuperarne la salma “immersa nei fondali 
limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, 
alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e 
Lazio”. Rispetto ai messaggi precedenti questo volantino presentava 
evidenti differenze: aveva uno stile satirico, era più breve, riportava 
grossolani errori di ortografia di origine romanesca (“soppruso”, 
“inpantanato”, “trà”) ed era privo dei consueti riferimenti 
politico-ideologici brigatisti. Inoltre era stato distribuito soltanto a
 Roma e in formato non originale mentre l’intestazione “Brigate rosse” 
risultava scritta a mano. Si sarebbe detto un falso grossolano o lo 
scherzo di un buontempone, se a tempo di record tre periti scelti dal 
Viminale non ne avessero solennemente ribadito l’attendibilità. Fatto 
sta che alle 11:30, quando ormai la caduta del covo di via Gradoli, dopo
 l’intervento dei Vigili del fuoco era divenuta di dominio pubblico, gli
 elicotteri già volteggiavano sul lago della Duchessa, che non poteva 
essere raggiunta da mezzi motorizzati, ma soltanto a piedi dopo tre ore 
di duro cammino in mezzo alla neve alta.
La superficie del lago 
era ghiacciata e una nevicata recente, oltre a nascondere possibili 
tracce fresche, rendeva le operazioni ancora più impervie. L’evidenza di
 questi dati non scoraggiò le fonti governative che si impegnarono, una 
velina dopo l’altra, ad accreditare l’autenticità del messaggio trovando
 nei mezzi di comunicazione, in nome di sua maestà la “Cronaca in 
diretta”, dei compiacenti quanto acritici amplificatori. Anzi, proprio 
la televisione contribuì a trasformare l’evento, che rivaleggiava sul 
piano comunicativo con le zoommate dell’interno piccolo borghese del 
covo di via Gradoli, in un interminabile e angoscioso circo mediatico: 
così i telegiornali fecero entrare nelle case degli italiani le 
grottesche immagini di alcuni sommozzatori scafandrati, costretti a 
infilarsi in un buco da loro stessi provocato facendo saltare una mina, 
tanto era spessa la lastra di ghiaccio che ricopriva il lago e dove, 
chissà quando e come, il corpo di Moro sarebbe stato gettato da una 
fantomatica brigata di “alpinisti rossi”.
Nelle stesse ore, Moro 
dovette essere informato di quanto stava avvenendo all’esterno perché 
con toni sarcastici e insinuanti lo definì in una pagina del memoriale 
“la macabra grande edizione della mia esecuzione [che] può rientrare in 
una logica, della quale non è necessario dare ulteriori indicazioni”. Un
 sospetto, condiviso anche dai suoi familiari, i quali, in una 
telefonata intercettata nel pomeriggio del 18 aprile, commentarono: 
“Molto sporca questa storia, molto poco rossa”. Oggi sappiamo con 
certezza che sia Moro da dentro la prigione, sia i suoi congiunti da 
fuori, colsero in presa diretta nel segno. In effetti, nel corso degli 
anni, si stabilirà che il falso comunicato fu redatto da un abile 
falsario di quadri d’arte contemporanea, in particolare di Giorgio de 
Chirico, di nome Antonio Chichiarelli, una figura di cerniera tra mondi 
diversi, in rapporti accertati con la Banda della Magliana, ma anche con
 i Servizi segreti italiani e il Nucleo dei carabinieri per la tutela 
del patrimonio culturale, ucciso da ignoti nel settembre del 1984.
Nel
 2006, in un libro-intervista, Steve Pieczenick, esperto di 
antiterrorismo (e dunque di terrorismo) inviato dal Dipartimento di 
Stato americano sullo scenario di crisi italiano, ha testimoniato di 
avere discusso con il ministro degli Interni Francesco Cossiga e con 
alcuni esponenti dei Servizi, tra cui il criminologo Franco Ferracuti, 
la realizzazione di un falso comunicato, a suo dire un’“operazione 
psicologica” funzionale a preparare l’opinione pubblica italiana e 
quella europea all’eventuale decesso di Moro. Nel medesimo libro, il 
direttore de il Manifesto Valentino Parlato ha raccontato di essere 
stato invitato a pranzo da Cossiga con altri giornalisti al Viminale 
proprio il 18 aprile trovandosi in un clima “surreale e sconcertante” 
tanto da credere di “avere le allucinazioni”: “Parlammo di tutto tranne 
che di quella notizia, come se non ci fosse ragione di agitarsi”, ma era
 evidente il gusto di rendere il palazzo del potere trasparente a un 
gruppo selezionato di giornalisti tra i più influenti.
In realtà, 
se non si fossero celebrati negli anni Novanta due clamorosi processi 
giudiziari, del tutto inimmaginabili nel 1978, gli effettivi 
comportamenti dispiegati dalle forze dell’antiterrorismo il 18 aprile, 
con l’operazione del covo di via Gradoli e quella del falso comunicato, 
sarebbero rimasti per sempre avvolti nella nebbia delle dietrologie. Il 
primo processo riguardò lo scandalo dei “fondi neri” del Sisde, che ha 
consentito di ricostruire una mappatura di società immobiliari legate ai
 Servizi segreti che riconduce con certezza sino all’appartamento 
adiacente al covo occupato da Mario Moretti in via Gradoli, 96. Il 
secondo è il processo per la morte del giornalista Mino Pecorelli, 
ucciso a Roma nel marzo del 1979, che ha visto il sette volte presidente
 del Consiglio, Giulio Andreotti, accusato di essere il mandante 
dell’omicidio, risultando assolto in primo grado, condannato in secondo e
 assolto in via definitiva in Cassazione per non avere commesso il 
fatto. Nel corso di quel processo, un altro imputato, il magistrato ed 
ex ministro democristiano Claudio Vitalone, fedelissimo di Andreotti, ma
 consapevole di rischiare anche lui una pena elevatissima, differenziò 
la propria strategia difensiva da quella dell’ex presidente del 
Consiglio. Una scelta processuale che si rivelò prudente quanto efficace
 dal momento che, diversamente da Andreotti, egli è stato assolto in 
tutti e tre i gradi di giudizio con formula piena.
Questa 
divaricazione però indusse Vitalone a raccontare nel 1993 e nel 1995 
alla magistratura quanto egli aveva saputo circa il falso comunicato del
 Lago della Duchessa, rivelando così alcuni aspetti che, senza 
quell’inaudita pressione processuale, sarebbero forse rimasti ignoti per
 sempre. Egli dichiarò di avere pensato di procedere alla fabbricazione 
di un falso comunicato, ovviamente prevedendo l’intervento degli organi 
di polizia giudiziaria, perché mosso dal timore che le Brigate rosse 
avessero potuto sopprimere l’ostaggio continuando a gestirlo con 
l’esterno come se fosse ancora vivo. Era dunque necessario avere una 
prova dell’esistenza in vita di Moro e l’unica strada percorribile era 
quella di suscitare una risposta delle Brigate rosse propalando la falsa
 notizia che egli era stato da loro ucciso. Il problema, infatti, per 
Vitalone era la “riconoscibilità di coloro che detenevano l’ostaggio”. 
Bisognava quindi “far diramare un comunicato apocrifo per disorientare 
le Br”, la cui autenticità poteva essere “strumentalmente attestata da 
organi di polizia scientifica”. Vitalone spiegava che l’idea era stata 
lasciata cadere e di essere “trasalito” quando l’aveva vista messa in 
pratica il 18 aprile senza alcun preventivo coinvolgimento dell’autorità
 giudiziaria. Nuovamente interrogato nel 1995, aggiunse: “La mia 
riflessione schematica era questa: se noi lasciamo che le Br muovano i 
due pezzi della scacchiera, la partita è perduta. Noi dobbiamo inventare
 una mossa che costringa le Br a rimeditare il loro progetto”.
L’idea
 di Vitalone di quei giorni e le sue preoccupazioni di investigatore 
erano certamente influenzate da una recentissima e drammatica esperienza
 che aveva coinvolto la Procura di Roma di cui allora faceva parte. 
Infatti, nel corso del sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante 
della Rovere, avvenuto a Roma il 7 novembre 1977 a opera di alcuni 
esponenti del nucleo originario della cosiddetta “Banda della Magliana”,
 la famiglia dell’ostaggio aveva pagato il riscatto il 4 marzo 1978, 
aggirando le interdizioni della magistratura e delle forze di polizia, 
quando in realtà il congiunto era già morto. Vitalone sapeva che durante
 il sequestro i rapitori avevano fatto pervenire almeno due foto 
dell’ostaggio, con un’iconografia del tutto simile a quella utilizzata 
dalle Brigate rosse negli stessi giorni con Moro, ma con un particolare 
macabro in più: l’ultima foto, quella che aveva indotto il figlio a 
pagare, era in realtà l’immagine del cadavere del duca congelato che 
teneva in mano una copia de La Nazione tra le mani, utile a provarne 
l’esistenza in vita.
Oggi nessuno lo ricorda più, ma in quei 
giorni a Roma erano in corso altri tre sequestri di persona a opera 
della criminalità comune (Michela Marconi, Angelo Apolloni e Giovanna 
Amati) e la foto del duca Grazioli era stata pubblicata nella cronaca di
 Roma dal Corriere della Sera il 7 aprile 1978, dunque in pieno 
sequestro Moro, con l’appello della figlia a liberare il congiunto ormai
 già deceduto e la drammatica aggiunta: “La magistratura non esclude che
 sia stato ucciso”. Sotto la foto del duca Grazioli, che ricordava 
quella di Moro distribuita dalle Brigate rosse il 18 marzo, compariva un
 articolo in rilievo intitolato “Cerimonia dei partigiani cristiani sul 
luogo dell’eccidio in via Fani”, stabilendo così una connessione tra i 
due episodi non giustificata dall’economia della pagina, trattandosi 
della cronaca di Roma.
Sempre negli stessi giorni, era 
convincimento comune tra gli investigatori e anche tra uomini politici 
avveduti come Bettino Craxi che, dentro la colonna romana delle Brigate 
rosse, potessero convivere, sul piano organizzativo, un’anima politica e
 una più schiettamente delinquenziale, contigua sotto il profilo 
logistico (gestione dei covi, commercio delle armi, produzione dei 
documenti e delle soffiate) a quella criminalità comune che stava 
gestendo nello stesso periodo e nella medesima città altri tre sequestri
 di persona.
Occorre anche rilevare che la produzione di 
comunicati apocrifi è una prassi non infrequente nell’antiterrorismo 
italiano e internazionale. Essa, infatti, consente di destabilizzare 
l’avversario, di controllare e di manipolare una strategia di 
disinformazione, di confondere e sparigliare il fronte, di prendere 
l’iniziativa inserendo della moneta falsa, ma certificata, per poi 
analizzare i comportamenti della controparte. Prova ne sia che tra la 
primavera e l’estate del 1981, durante i sequestri di Ciro Cirillo e di 
Giuseppe Taliercio è stato accertato che il Sisde produsse altri 
comunicati brigatisti con finalità simili a quelle del falso messaggio 
del Lago della Duchessa. In quei giorni, l’antiterrorismo aveva 
soprattutto due preoccupazioni, che sono entrambe la spia di una 
trattativa segreta entrata ormai in una fase avanzata e forse 
conclusiva: anzitutto ottenere una prova certa dell’esistenza in vita di
 Moro; in secondo luogo accertarsi che l’ostaggio fosse ancora detenuto 
dalle Brigate rosse e non fosse passato di mano, una prassi più comune 
di quanto si pensi nei sequestri di persona, anche di matrice politica.
L’azione
 di disinformazione e di controguerriglia psicologica del Lago della 
Duchessa si mostrò efficace perché le Brigate rosse il 20 aprile 1978 
furono costrette a rilasciare un comunicato che conteneva una seconda 
foto di Moro con in mano la copia del quotidiano Repubblica del 19 
aprile. Nel messaggio si annunciava che il processo era finito, che Moro
 era stato condannato a morte “così come è stata condannata la classe 
politica che ha governato per trent’anni il nostro Paese”, ma si 
annunciava un’importante novità: “Il rilascio del prigioniero Aldo Moro 
può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione 
di prigionieri comunisti”, per la quale si dava un ultimatum di due 
giorni. A proposito del falso comunicato del Lago della Duchessa (una 
“macabra messa in scena” e una “lugubre mossa degli specialisti della 
guerra psicologica, la preparazione del ‘grande spettacolo’ che il 
regime si appresta a dare, per stravolgere le coscienze, mistificare i 
fatti, organizzare intorno a sé il consenso”) i brigatisti indicavano 
con sicurezza “gli autori: Andreotti e i suoi complici” – oggi sappiamo –
 cogliendo nel segno con millimetrica precisione. Dopo decenni di 
reticenza, una serie di testimoni oculari hanno raccontato che, nelle 
stesse ore, ma sulle sponde di un altro lago, quello di Castel Gandolfo,
 Paolo VI e la famiglia pontificia avevano ormai ultimato la raccolta di
 dieci miliardi di lire che sarebbero dovuti servire come riscatto in 
cambio della libertà di Moro. Ovviamente, soltanto dopo avere accertato 
la sua esistenza in vita e l’effettiva attendibilità di quanti 
sostenevano di avere nella loro disponibilità l’ostaggio, per evitare di
 fare la recente fine dell’aristocratico Grazioli. Di conseguenza, per 
comprendere il rapporto intercorrente tra l’azione del presidente del 
Consiglio Andreotti, i Servizi segreti e i vertici dell’antiterrorismo 
che dalla sua autorità esecutiva e gerarchica dipendevano, la trattativa
 vaticana e il falso comunicato del Lago della Duchessa bisogna, come 
sempre, follow the money. Senza però dimenticare un particolare: il 
galateo del “partito armato”, proprio come quello dei salotti alto 
borghesi, aveva insegnato ai suoi rampolli che non è mai elegante 
parlare di soldi.
(7 – continua)
 
