Corriere La Lettura 1.4.18
Islam, Mosca, Pechino L’Asia centrale fa gola
di Alessandro Vanoli
Per
secoli fu il centro del mondo. Un centro così vasto da raccogliere
insieme geografie, culture e lingue lontanissime tra loro. Dal Mar
Caspio attraverso i deserti del Turkmenistan e dell’Uzbekistan, passando
per le steppe settentrionali del Kazakistan, sino alle alte catene
montuose del Kirghizistan e del Tagikistan. Prima di questi nomi e delle
recentissime idee nazionali a cui essi si legano, questi furono i
luoghi nodali della Via della Seta, attraversati dai grandi flussi di
commercio e di scambio che percorrevano l’Asia, da Occidente e da
Oriente.
Spazi di nomadi e mercanti, sedi di grandi civiltà,
cresciute all’ombra delle oasi o lungo il corso di lunghi fiumi, come
l’Amu Darya, l’Oxus degli antichi greci. Furono questi i luoghi delle
più lontane conquiste di Alessandro Magno: a sud la Battriana e a nord
la Sogdiana, protesa verso oriente attraverso la valle di Fergana. Su
quelle vie si incontrarono il buddhismo, che stava giungendo dalla Cina,
e il cristianesimo in cammino verso l’Estremo Oriente. Ma la centralità
strategica avrebbe segnato a lungo il destino di quei luoghi. Difficile
fare un elenco degli invasori che vi giunsero: arabi, turchi
selgiuchidi, mongoli. Popoli diversi, ma che contribuirono al
consolidarsi della religione islamica, facendo sì che città come
Samarcanda e Bukhara diventassero leggendari luoghi da sogno, colmi di
tesori e di cultura.
Nell’Ottocento, però, tutta questa gloria era
ormai lontana: furono gli anni dello scontro tra Russia e Gran Bretagna
per il controllo dell’Asia centrale; lo chiamarono il Grande Gioco, e
la parola ebbe la sua fortuna letteraria con Rudyard Kipling. Un lungo
conflitto, al termine del quale l’influenza russa non fu più messa in
discussione. Mancava poco alla rivoluzione d’Ottobre e per quei
territori cominciava un’altra storia.
Le nuove regioni che la
Russia voleva costruire dovevano essere caratterizzate da una stessa
etnia e da un linguaggio comune. Erano le idee del tempo: l’identità di
popolo era il miraggio inseguito ovunque dalla politica. In Asia
centrale la cosa però non era semplice: alcuni gruppi come kazaki,
kirghizi e turkmeni possedevano in effetti una certa identità
linguistica; ma c’erano altre popolazioni, a sud soprattutto, che non si
definivano sulla base del linguaggio, ma sulla base della religione o
sull’appartenenza a una specifica regione.
Comunque sia, dopo il
1917 l’Asia centrale fu divisa in una seria di repubbliche autonome
socialiste. Dove l’autonomia era in realtà pura finzione. Lo stretto
controllo da parte di Mosca venne esercitato attraverso l’apparato
centralizzato del Partito comunista: in ognuna di quelle repubbliche, se
il primo segretario era, di regola, un rappresentante della locale
«nazionalità», il secondo segretario era sempre un russo, inviato da
Mosca, che avrebbe garantito la conformità del governo locale alle
decisioni del centro. A suo modo fu un grande esperimento: adattare
quelle società tradizionali al nuovo mondo socialista. E non si trattò
di un’operazione facile: le resistenze e le aperte ribellioni furono
numerose, tanto da parte degli antichi poteri locali quanto di molte
istituzioni religiose islamiche, che si dimostrarono molto più tenaci di
quanto Mosca avrebbe voluto.
Così il controllo fu rafforzato e si
moltiplicarono le purghe. L’alfabeto tradizionale arabo venne
cancellato e sostituito prima da una serie di alfabeti latini, poi,
attorno al 1940, da alfabeti cirillici modificati. La propaganda
antireligiosa contro l’islam si fece sempre più forte: molte moschee
furono chiuse, i santuari soppressi e svariati funzionari religiosi
perseguitati. E tutto questo mentre il sistema educativo veniva
trasformato e migliorato, istruendo e formando nuove élite locali,
educate dal sistema sovietico, che in seguito avrebbero raggiunto
posizioni influenti nello Stato e nel partito. Intanto però l’Asia
centrale spariva. Vi furono collettivizzazioni forzate, come quelle che
condussero alla sedentarizzazione dei kazaki e a conseguenti ribellioni,
carestie e stragi di bestiame. Vi furono imponenti trasformazioni
economiche, come ad esempio la riconversione alla monocoltura del cotone
in Uzbekistan, già cominciata in periodo zarista e portata a
conseguenze devastanti in epoca sovietica. Le necessità di risorse
idriche richieste da tale coltivazione, infatti, condussero quasi al
prosciugamento di fiumi come l’Amu-Darya e il Sari Darya, finendo così
per causare la sparizione del lago d’Aral.
Non sorprende che,
quando nel 1991 l’Unione Sovietica si disintegrò, i leader comunisti
delle repubbliche dell’Asia centrale proclamassero rapidamente la loro
indipendenza, con solo qualche esitazione da parte del Kazakistan. Da
quel momento l’attenzione del mondo nei loro confronti è stata scarsa,
anche se insieme occupano un’area di quattro milioni di chilometri
quadrati e contano oltre 65 milioni di abitanti. Ciononostante quelle
giovani nazioni hanno cominciato a muoversi, poggiando sul loro passato,
o meglio sulla reinvenzione del loro passato. Un punto di partenza,
questo, già fissato nei loro nomi: perché il suffisso -stan , che deriva
dal persiano, significa proprio luogo o Paese; dunque «Paese dei
turkmeni» o «dei kazaki» e via dicendo. Una saldatura tra popolo e
territorio su cui gli attuali Stati ex sovietici hanno fondato non poco
della loro legittimazione, ricostruendo la loro storia e il loro senso
di appartenenza a partire da un passato più o meno mitizzato, da una
nuova idea di sangue comune e dalla costruzione di un nemico condiviso.
Tutto questo attraverso una forte affermazione dell’identità turca,
legata magari al nuovo risveglio islamico. A guidare tali processi, sono
stati una serie di regimi spesso autocratici e dispotici. In
particolare in Turkmenistan, dove il passato presidente, Saparmurat
Niyazov, ha fondato un bizzarro culto della personalità, adottando il
nome Turkmenbashi («Padre dei Turkmeni») e ribattezzando città, strade e
persino i giorni della settimana con il proprio nome.
È un quadro
complesso, quello dell’Asia centrale ex sovietica, caratterizzato oggi
dalle impressionanti potenzialità energetiche di queste terre. La zona
tra Azerbaigian, Iran, Kazakistan, Russia e Turkmenistan, quella cioè
che ha come centro il Mar Caspio, ha infatti una riserva di petrolio e
gas naturali valutabile in più di duecento miliardi di barili, qualcosa
come il 19 per cento del totale delle riserve mondiali. Senza contare le
immense riserve di gas naturale che si estraggono ai confini tra Russia
e Kazakistan, le centinaia di migliaia di barili che producono
giornalmente i recenti giacimenti del Kurdistan, e tanti altri.
La
Via della Seta, oggi, è anche e soprattutto una via sotterranea di
gasdotti e oleodotti che innerva l’Asia sino al Mediterraneo,
giustificando ogni tipo di politica e, purtroppo, ogni sorta di
conflitto. Ma non solo. La Via della Seta è oggi soprattutto quella del
nuovo imponente progetto infrastrutturale inaugurato dalla Cina nel
2013. Un progetto di collegamenti stradali e ferroviari che di qui a
qualche decennio potrebbe fare del Kazakistan il fulcro di un sistema
che da Rotterdam e da San Pietroburgo giungerebbe sino fino a Xi’an, in
piena Cina.
In questo nuovo Grande Gioco, gli attori sono ancora
più numerosi. C’è la Russia, in primo luogo, che non ha ovviamente
abbandonato i suoi interessi strategici su quelle regioni. C’è la
Turchia, che ha ormai costruito profondi legami commerciali con le
cinque Repubbliche. E ci sono gli interessi strategici di altri Paesi
islamici, che hanno contribuito attivamente alla rinascita religiosa
degli ultimi anni attraverso la costruzione di moschee, il finanziamento
di scuole coraniche e borse di studio per universitari. Un fenomeno che
ha determinato una considerevole rinascita culturale e politica, ma che
ha portato con sé anche conseguenze negative.
Il fatto che negli
ultimi anni un gran numero di terroristi sia stato legato a quelle zone,
in particolare all’Uzbekistan, è un dato decisamente preoccupante, a
cui bisogna almeno aggiungere il problema dei tanti combattenti che, in
tempi recenti, si sono uniti all’Isis partendo dalle regioni dell’Asia
centrale e della valle di Fergana in particolare. Ma è proprio tutta
questa complessità, anche nelle sue forme più drammatiche e violente, a
mostrare i termini del problema: il centro del mondo è tornato di nuovo
verso l’Asia. Le steppe, i deserti e le montagne inaccessibili sono di
nuovo tra i luoghi centrali dell’economia e degli interessi strategici
mondiali.
Se la nuova Via della Seta è ormai una realtà, quei
mondi ne sono uno dei fulcri. E tutto questo ci riguarda da vicino:
perché molte delle strade che passano dall’Uzbekistan o dal Tagikistan
giungono in realtà sino al nostro Mediterraneo; perché la loro storia e
il loro destino sono anche i nostri.