Corriere La Lettura 15.4.18
Il fascino del male
Il filosofo
Salvatore Natoli sottrae i «Promessi sposi» ai luoghi comuni e concentra
la riflessione sul male pervasivo nel romanzo. La sociologa Oriana
Binik affronta il gusto per il crimine che attraversa la società (non
solo televisiva): perché ci piace travalicare ogni limite, sia pure
seduti in poltrona, rovistando nelle trasmissioni che si fondano sulla
ricerca dell’estremo — per esempio il programma «Quarto Grado», per
esempio il turismo nei luoghi dei delitti? Due libri ripropongono
un’antica domanda: perché il carnefice ci conquista più della vittima?
Forse vale la risposta che diede Nietzsche sulla nascita della
filosofia: non già per lo stupore di fronte alle cose, ma per lo stupore
di fronte all’orrore delle cose
di Salvatore Natoli
Unde
malum ? «Mia moglie è incinta di sette mesi di una figlia che non
avevamo programmato. Mio figlio ha quindici anni e una paralisi
cerebrale. Io sono un insegnante di chimica al liceo, troppo qualificato
per quel lavoro. Quando posso lavorare, guadagno 43.700 dollari
all’anno. Ho visto tutti i miei colleghi e i miei amici sorpassarmi in
ogni modo possibile. E tra otto mesi, sarò morto. E tu ti chiedi perché
lo faccio?». Che cosa fa Walter White, il protagonista di Breaking Bad ?
Fa il male, in attesa della morte, prepara nel suo laboratorio
casalingo cristalli di metanfetamina e sbanca il mercato dei tossici di
tutto il New Mexico. Morte chiama morte, l’orlo del baratro è l’unico
sentiero percorribile.
Tutto il male che vediamo è da capire.
Breaking Bad (2008- 2013) è la serie che più di ogni altra ha messo in
scena il male, smisurata quanto impenetrata forza. Ci vuole un certo
coraggio per seguirla e rifletterci sopra. Walter ha preso una direzione
sbagliata e ha scelto, per ragioni diverse, di abbracciare il «lato
oscuro». Difficile trovare altrove (in letteratura, al cinema, a teatro)
un personaggio tanto vocato alla rovina da non opporsi alla rovina
stessa. Succede così che lo spettatore sia catturato dall’antieroismo
tragico del protagonista, dall’ambiguità morale dell’universo in cui si
muove, dallo sfondo di un mondo al collasso etico ed economico (si
potrebbe leggere Breaking Bad con un’altra serie, Mindhunter ,
2017-2018, viaggio nei labirinti mentali del male).
Unde malum ?
Da dove viene il male? E se nella vita il male sembra non avere senso,
perché ne acquista uno solo nella narrazione?
Quando sono uscite
in America serie come The Wire , I Soprano , Breaking Bad e altre
ancora, e in Italia Romanzo criminale , Gomorra , Suburra, in molti si
sono chiesti se fosse giusto mettere in scena la violenza, la
criminalità, il male. Dobbiamo far finta che non esistano? Dobbiamo
produrre solo fiction agiografica per consolarci con un’immagine
positiva, gratificante? Dobbiamo chiedere alla tv, al cinema e ad altre
forme espressive di esimersi dal raccontare la criminalità, nel timore
che ciò dia origine a comportamenti emulativi? Una conoscenza che non
tenga conto del male, è una conoscenza in favore del male.
È dalla
notte dei tempi che l’apocalisse esercita un fascino irresistibile
sull’umanità. J. L. Borges in Finimondi si domandava: «Perché ci attrae
la fine delle cose? Perché nessuno canta l’aurora? Perché preferiamo
l’Inferno al Paradiso? Perché non ci convince il lieto fine?». Spesso
sembra che la brutalità sia la sola retorica della nostra epoca, il solo
modo con cui sappiamo esprimerci.
Il primo dovere che una serie
deve porsi non è l’argomento trattato ma la scrittura, l’unica in grado
di restituire la complessità del reale, di esplorare temi centrali
rispetto alla sensibilità condivisa, di costruire un «racconto mondo»
capace anche di rappresentare il male. Risposta accettabile? Solo in
parte.
Sostenere l’esistenza di una connessione diretta tra
l’esposizione ai messaggi dei media e il comportamento dell’individuo è
teoricamente ingenuo (una teoria in voga negli anni Venti del secolo
scorso, smentita poi da tutti gli studi sugli effetti dei media).
Significa trascurare l’aspetto della fruizione, il peso del contesto e
delle motivazioni degli individui, riducendo l’analisi a un conteggio
della frequenza con cui un certo contenuto viene diffuso. Però ci sono
psichiatri ancora convinti che la violenza che si manifesta negli
adolescenti arrivi in gran parte da film, internet, videogiochi. Le cose
sono molto più complesse: paragonare cinema e tv a un sistema di
«totalitarismo dolce» è un’ingenuità; meglio interrogarsi sul suo essere
uno strumento di mediazione, un dispositivo di conformismo e di
massificazione del gusto.
Il vero problema, come sostiene Emil
Cioran, è che «il male possiede il duplice privilegio d’essere
fascinatore e contagioso». In tutte le narrazioni mitiche e religiose,
il male è posto all’origine del cammino umano. Di questo dobbiamo
prendere atto. Esiodo narra come il mondo ebbe origine dal Caos, una
voragine immensa e tenebrosa. La Genesi racconta del peccato dei
Progenitori, che cedettero per un atto di superbia alla tentazione di
mangiare il «frutto proibito», con tutte le conseguenze del caso. Ci
sono stati transiti nella storia — Auschwitz è uno di questi — dove gli
uomini sono giunti a un tale grado di abiezione da apparire
inspiegabile: abyssus abyssum invocat .
C’è una pagina memorabile
di Giorgio Colli che introduce La nascita della tragedia di Nietzsche.
Dice: «La sensazione moderna “questo è soltanto uno spettacolo” è
l’inverso dell’emozione della tragedia greca che faceva dire “questa è
soltanto la realtà quotidiana”». I vivi devono raccontare i morti come
nutrimento della memoria, come rito e come catarsi. Invece, con
l’invasione dei media, qualcosa si è spezzato e quel qualcosa permette
al male di presentarsi come spettacolo, come stallo permanente.
Raccontandolo,
la narrazione riesce a contenere il male, a esorcizzarlo? Per cercare
di comprendere la fascinazione del male, cerco di aiutarmi con due libri
appena usciti.
Il primo è del filosofo Salvatore Natoli, L’animo
degli offesi e il contagio del male (il Saggiatore). È un libretto
prezioso sui Promessi sposi : sottraendo il padre nobile della nostra
letteratura agli schematismi da antologia scolastica, Natoli ci spiega
come il cuore del romanzo sia il male. Non un romanzo consolatorio, ma
un romanzo di morte che ha per protagonista il male. Un male che ammala,
che fa diventare i buoni cattivi, che si trasforma spesso in vendetta,
che si presenta sotto forma di enigma, di intrigo, di ipocrisia. Scrive
Natoli: «Certo, il male è pervasivo, ma chi lo compie ne è responsabile e
non solo di quello che fa, ma — peggio — delle conseguenze: come dice
Manzoni di Renzo, degli offesi che perverte. Renzo, a fronte di un
diritto negato, vuol farsi giustizia da sé e la sua, come in tutti, è
una reazione spontanea, è frutto di un impulso naturale; ma ogni
atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta: lo spirito
di vendetta ne è la mimesi».
Il fascino profondo dei Promessi
sposi si dispiega in una vicenda inquietante, dove prevale l’arbitrio,
dove il potere è di per sé stesso prevaricatore. A ciò, conclude Natoli,
si aggiungano l’indigenza, la fame, la peste, la morte. La Provvidenza,
dunque, non è un generatore di storie a lieto fine, ma è solo la ferma
fiducia di Manzoni in un piano divino: la vittoria sul male è possibile.
Il
secondo libro è un saggio di Oriana Binik, Quando il crimine è sublime
(Mimesis). Attraverso quattro casi di studio (tra cui il programma
Quarto Grado e il turismo nei luoghi del crimine), la Binik ci spiega
perché siamo così affascinati dal crimine, perché ci piace travalicare
ogni limite, sia pur seduti in poltrona, perché contrastiamo il «sublime
addomesticato» della tv rovistando nelle trasmissioni che si fondano
sulla ricerca dell’estremo. Scrive Binik: «La fascinazione per il
crimine è molto presente nella società contemporanea perché i media sono
molto presenti ed esercitano un ruolo centrale nel coniugare la realtà
con l’immaginario, riflettendo e moltiplicando all’infinito quel che più
ci turba, nel tentativo di tenerlo sotto controllo. Difatti,
identificando le strategie ottimali per creare degli “eventi emotivi” in
cui elementi di realtà e di fiction si mescolano tra loro in un
intreccio sempre più fitto e con-fusivo, i media non fanno altro che
mettere in scena il Reale, la morte, il non senso».
L’aspetto più
interessante di Quando il crimine è sublime è che si occupa della
programmazione normale della tv. Se Natoli affronta un capolavoro della
letteratura, Binik lavora sul quotidiano televisivo, sui palinsesti e
sui canali che si occupano di crimine, sulle nuove forme della «banalità
del male» e cerca di risponde ad alcune domande che mi sono posto più
volte. Perché la tv si occupa più dei carnefici che delle vittime?
Questa «celebrazione» dei carnefici, ovviamente, passa molto di più
attraverso la quotidianità televisiva, quella che «finge» di occuparsi
della realtà, quella che istruisce continuamente processi mediatici, in
contrapposizione a quelli «veri». Perché tutta questa enfasi morbosa nei
confronti di chi ha ucciso?
Una risposta semplicistica potrebbe
essere questa: si parte sempre dal presupposto che i protagonisti delle
storie non siano mai completamente positivi o negativi: per quanto
immorali possano apparire, hanno qualcosa di affascinante che attrae e,
viceversa, per quanto siano persone rette, covano un lato ambiguo e
fuori dalle regole che attende solo di uscire allo scoperto.
Ma la
risposta tecnica più convincente ci viene da Nietzsche che ha assunto
come atto di nascita della filosofia non lo stupore di fronte alle cose,
secondo la classica tesi di Aristotele, ma lo stupore di fronte
all’orrore dell’esistenza, al di là del bene e del male. E il suo
celebre aforisma — «E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche
l’abisso scruterà dentro di te» — va letto oggi soprattutto in chiave
mediatica, come un fascinoso e perverso gioco di specchi.