domenica 15 aprile 2018


Corriere La Lettura 15.4.18
Il fascino del male
Il filosofo Salvatore Natoli sottrae i «Promessi sposi» ai luoghi comuni e concentra la riflessione sul male pervasivo nel romanzo. La sociologa Oriana Binik affronta il gusto per il crimine che attraversa la società (non solo televisiva): perché ci piace travalicare ogni limite, sia pure seduti in poltrona, rovistando nelle trasmissioni che si fondano sulla ricerca dell’estremo — per esempio il programma «Quarto Grado», per esempio il turismo nei luoghi dei delitti? Due libri ripropongono un’antica domanda: perché il carnefice ci conquista più della vittima? Forse vale la risposta che diede Nietzsche sulla nascita della filosofia: non già per lo stupore di fronte alle cose, ma per lo stupore di fronte all’orrore delle cose
di Salvatore Natoli


Unde malum ? «Mia moglie è incinta di sette mesi di una figlia che non avevamo programmato. Mio figlio ha quindici anni e una paralisi cerebrale. Io sono un insegnante di chimica al liceo, troppo qualificato per quel lavoro. Quando posso lavorare, guadagno 43.700 dollari all’anno. Ho visto tutti i miei colleghi e i miei amici sorpassarmi in ogni modo possibile. E tra otto mesi, sarò morto. E tu ti chiedi perché lo faccio?». Che cosa fa Walter White, il protagonista di Breaking Bad ? Fa il male, in attesa della morte, prepara nel suo laboratorio casalingo cristalli di metanfetamina e sbanca il mercato dei tossici di tutto il New Mexico. Morte chiama morte, l’orlo del baratro è l’unico sentiero percorribile.
Tutto il male che vediamo è da capire. Breaking Bad (2008- 2013) è la serie che più di ogni altra ha messo in scena il male, smisurata quanto impenetrata forza. Ci vuole un certo coraggio per seguirla e rifletterci sopra. Walter ha preso una direzione sbagliata e ha scelto, per ragioni diverse, di abbracciare il «lato oscuro». Difficile trovare altrove (in letteratura, al cinema, a teatro) un personaggio tanto vocato alla rovina da non opporsi alla rovina stessa. Succede così che lo spettatore sia catturato dall’antieroismo tragico del protagonista, dall’ambiguità morale dell’universo in cui si muove, dallo sfondo di un mondo al collasso etico ed economico (si potrebbe leggere Breaking Bad con un’altra serie, Mindhunter , 2017-2018, viaggio nei labirinti mentali del male).
Unde malum ? Da dove viene il male? E se nella vita il male sembra non avere senso, perché ne acquista uno solo nella narrazione?
Quando sono uscite in America serie come The Wire , I Soprano , Breaking Bad e altre ancora, e in Italia Romanzo criminale , Gomorra , Suburra, in molti si sono chiesti se fosse giusto mettere in scena la violenza, la criminalità, il male. Dobbiamo far finta che non esistano? Dobbiamo produrre solo fiction agiografica per consolarci con un’immagine positiva, gratificante? Dobbiamo chiedere alla tv, al cinema e ad altre forme espressive di esimersi dal raccontare la criminalità, nel timore che ciò dia origine a comportamenti emulativi? Una conoscenza che non tenga conto del male, è una conoscenza in favore del male.
È dalla notte dei tempi che l’apocalisse esercita un fascino irresistibile sull’umanità. J. L. Borges in Finimondi si domandava: «Perché ci attrae la fine delle cose? Perché nessuno canta l’aurora? Perché preferiamo l’Inferno al Paradiso? Perché non ci convince il lieto fine?». Spesso sembra che la brutalità sia la sola retorica della nostra epoca, il solo modo con cui sappiamo esprimerci.
Il primo dovere che una serie deve porsi non è l’argomento trattato ma la scrittura, l’unica in grado di restituire la complessità del reale, di esplorare temi centrali rispetto alla sensibilità condivisa, di costruire un «racconto mondo» capace anche di rappresentare il male. Risposta accettabile? Solo in parte.
Sostenere l’esistenza di una connessione diretta tra l’esposizione ai messaggi dei media e il comportamento dell’individuo è teoricamente ingenuo (una teoria in voga negli anni Venti del secolo scorso, smentita poi da tutti gli studi sugli effetti dei media). Significa trascurare l’aspetto della fruizione, il peso del contesto e delle motivazioni degli individui, riducendo l’analisi a un conteggio della frequenza con cui un certo contenuto viene diffuso. Però ci sono psichiatri ancora convinti che la violenza che si manifesta negli adolescenti arrivi in gran parte da film, internet, videogiochi. Le cose sono molto più complesse: paragonare cinema e tv a un sistema di «totalitarismo dolce» è un’ingenuità; meglio interrogarsi sul suo essere uno strumento di mediazione, un dispositivo di conformismo e di massificazione del gusto.
Il vero problema, come sostiene Emil Cioran, è che «il male possiede il duplice privilegio d’essere fascinatore e contagioso». In tutte le narrazioni mitiche e religiose, il male è posto all’origine del cammino umano. Di questo dobbiamo prendere atto. Esiodo narra come il mondo ebbe origine dal Caos, una voragine immensa e tenebrosa. La Genesi racconta del peccato dei Progenitori, che cedettero per un atto di superbia alla tentazione di mangiare il «frutto proibito», con tutte le conseguenze del caso. Ci sono stati transiti nella storia — Auschwitz è uno di questi — dove gli uomini sono giunti a un tale grado di abiezione da apparire inspiegabile: abyssus abyssum invocat .
C’è una pagina memorabile di Giorgio Colli che introduce La nascita della tragedia di Nietzsche. Dice: «La sensazione moderna “questo è soltanto uno spettacolo” è l’inverso dell’emozione della tragedia greca che faceva dire “questa è soltanto la realtà quotidiana”». I vivi devono raccontare i morti come nutrimento della memoria, come rito e come catarsi. Invece, con l’invasione dei media, qualcosa si è spezzato e quel qualcosa permette al male di presentarsi come spettacolo, come stallo permanente.
Raccontandolo, la narrazione riesce a contenere il male, a esorcizzarlo? Per cercare di comprendere la fascinazione del male, cerco di aiutarmi con due libri appena usciti.
Il primo è del filosofo Salvatore Natoli, L’animo degli offesi e il contagio del male (il Saggiatore). È un libretto prezioso sui Promessi sposi : sottraendo il padre nobile della nostra letteratura agli schematismi da antologia scolastica, Natoli ci spiega come il cuore del romanzo sia il male. Non un romanzo consolatorio, ma un romanzo di morte che ha per protagonista il male. Un male che ammala, che fa diventare i buoni cattivi, che si trasforma spesso in vendetta, che si presenta sotto forma di enigma, di intrigo, di ipocrisia. Scrive Natoli: «Certo, il male è pervasivo, ma chi lo compie ne è responsabile e non solo di quello che fa, ma — peggio — delle conseguenze: come dice Manzoni di Renzo, degli offesi che perverte. Renzo, a fronte di un diritto negato, vuol farsi giustizia da sé e la sua, come in tutti, è una reazione spontanea, è frutto di un impulso naturale; ma ogni atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta: lo spirito di vendetta ne è la mimesi».
Il fascino profondo dei Promessi sposi si dispiega in una vicenda inquietante, dove prevale l’arbitrio, dove il potere è di per sé stesso prevaricatore. A ciò, conclude Natoli, si aggiungano l’indigenza, la fame, la peste, la morte. La Provvidenza, dunque, non è un generatore di storie a lieto fine, ma è solo la ferma fiducia di Manzoni in un piano divino: la vittoria sul male è possibile.
Il secondo libro è un saggio di Oriana Binik, Quando il crimine è sublime (Mimesis). Attraverso quattro casi di studio (tra cui il programma Quarto Grado e il turismo nei luoghi del crimine), la Binik ci spiega perché siamo così affascinati dal crimine, perché ci piace travalicare ogni limite, sia pur seduti in poltrona, perché contrastiamo il «sublime addomesticato» della tv rovistando nelle trasmissioni che si fondano sulla ricerca dell’estremo. Scrive Binik: «La fascinazione per il crimine è molto presente nella società contemporanea perché i media sono molto presenti ed esercitano un ruolo centrale nel coniugare la realtà con l’immaginario, riflettendo e moltiplicando all’infinito quel che più ci turba, nel tentativo di tenerlo sotto controllo. Difatti, identificando le strategie ottimali per creare degli “eventi emotivi” in cui elementi di realtà e di fiction si mescolano tra loro in un intreccio sempre più fitto e con-fusivo, i media non fanno altro che mettere in scena il Reale, la morte, il non senso».
L’aspetto più interessante di Quando il crimine è sublime è che si occupa della programmazione normale della tv. Se Natoli affronta un capolavoro della letteratura, Binik lavora sul quotidiano televisivo, sui palinsesti e sui canali che si occupano di crimine, sulle nuove forme della «banalità del male» e cerca di risponde ad alcune domande che mi sono posto più volte. Perché la tv si occupa più dei carnefici che delle vittime? Questa «celebrazione» dei carnefici, ovviamente, passa molto di più attraverso la quotidianità televisiva, quella che «finge» di occuparsi della realtà, quella che istruisce continuamente processi mediatici, in contrapposizione a quelli «veri». Perché tutta questa enfasi morbosa nei confronti di chi ha ucciso?
Una risposta semplicistica potrebbe essere questa: si parte sempre dal presupposto che i protagonisti delle storie non siano mai completamente positivi o negativi: per quanto immorali possano apparire, hanno qualcosa di affascinante che attrae e, viceversa, per quanto siano persone rette, covano un lato ambiguo e fuori dalle regole che attende solo di uscire allo scoperto.
Ma la risposta tecnica più convincente ci viene da Nietzsche che ha assunto come atto di nascita della filosofia non lo stupore di fronte alle cose, secondo la classica tesi di Aristotele, ma lo stupore di fronte all’orrore dell’esistenza, al di là del bene e del male. E il suo celebre aforisma — «E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te» — va letto oggi soprattutto in chiave mediatica, come un fascinoso e perverso gioco di specchi.

Corriere La Lettura 15.4.18
La musica di Parmenide
Settant’anni fa un giovanissimo Emanuele Severino compose una suite. Ora si potrà ascoltare
Il filosofo racconta qui come nacque quella passione. E come è andata a finire
di Daniela Monti


Viene prima Stravinskij, con il suo radicale anti-wagnerismo, o Parmenide, il filosofo dell’essere che è e non può non essere? Detto in altro modo: prima il suono o il pensiero? Prima la musica o la filosofia? Settant’anni dopo essere stata composta, martedì 17 verrà eseguita al Conservatorio di Milano Zirkus Suite , in sette movimenti per ensemble di fiati, marimba e timpani, opera che Emanuele Severino scrisse nel 1947, fresco studente universitario. Dal punto di vista della cronologia biografica del filosofo, dunque, viene prima la musica: «Sin da bambino avevo incominciato a studiare il pianoforte — racconta a “la Lettura” —. Mio fratello lo suonava bene, ma a me piaceva soprattutto improvvisare qualcosa di mio». Severino studia composizione, cerca sulla tastiera suoni, successioni e sovrapposizioni, scrive «parecchia musica» fra cui la suite originariamente pensata per sette fiati e pianoforte, ora sostituito con timpani e marimba su suggerimento di Alessandro Bombonati, che ha curato la revisione critica della partitura. Con il tempo, gli spartiti giovanili vengono perduti. Smarrite anche le tracce audio delle improvvisazioni che il filosofo, sempre in quegli anni, esegue al pianoforte. Resta solo la suite, a cui è stato dato il nome Zirkus «per sottolineare il clima grottesco che la composizione intende evocare», dice Severino. Un «peccato di gioventù», che «non va preso sul serio»: «Di buono in quella musica c’è l’atteggiamento autoironico. Ed è questo che la salva». L’anno prima, nell’estate fra la maturità e l’ingresso all’università, Severino aveva scritto un piccolo libro La coscienza. Pensieri per un’antifilosofia , dove la coscienza è la musica e la musica è l’antifilosofia che convive con la filosofia, «il tentativo di dare un senso unitario alle due dimensioni che, sia pure con tanta ingenuità, mi erano state e mi stavano a cuore». Sette i movimenti della suite, ciascuno si porta dietro domande e risposte.
Preludio
La coscienza. Pensieri per un’antifilosofia verrà poi ripudiato: «Ho cercato con ogni mezzo di toglierlo dalla circolazione — racconta il filosofo —. Uno scritto ancora acerbo, ma da qualche parte bisognava pure cominciare. Chi lo lesse, mi disse che lo stile era troppo secco e duro. Mi adeguai al suggerimento e il risultato fu una prosa che fece sparire in una specie di melassa il nucleo iniziale». Nel saggio — a cui Severino si riferisce come il «povero libretto» — la musica è definita attività pensante irrazionalmente, «è coscienza perché pensa qualcosa, ma ignora ciò che essa è», mentre la filosofia — che ora ha fatto la sua comparsa — è già un passo avanti, «è autocoscienza perché oltre a essere coscienza del mondo è anche coscienza di sé stessa».
Il saggio risente del discorso di Eduard Hanslick, che nel 1864 aveva scritto Il bello musicale sostenendo che la musica non descrive alcun contenuto del mondo. Lo fanno la pittura, la scultura, la letteratura, che trasfigurano il materiale proveniente dalla natura. Non la musica. «Ero su quelle posizioni allora. Poco dopo la scrittura di quel libretto le avevo già abbandonate, per incamminarmi sulla strada che poi ho seguito».
Scherzo
Zirkus Suite segue ancora regole classiche: Bombonati la descrive come «partitura caratterizzata da una densa strumentazione e un’iniziale chiara visione neobarocca». Dal punto di vista armonico i riferimenti sono Stravinskij, Bartók, Schönberg, che in quegli anni Quaranta del Novecento sono l’avanguardia. «Nelle registrazioni al pianoforte che feci dopo la suite, sentii l’esigenza di rompere anche la regolarità del ritmo, che qui è ancora molto accademico. Ne uscirono cose buone, ma poi la filosofia ha preteso il tempo che meritava e allora ho smesso anche di fare quelle». Il riferimento del giovane Severino musicista sono dunque il XIX e XX secolo quando tutto crolla: non c’è più uno stato assoluto, non c’è più un diritto naturale e la scienza non è più quella in cui credeva Galileo, cioè sapere incontrovertibile, ma sapere ipotetico, falsificabile. «Cos’è l’arte astratta? È arte astratta dalla regola — riprende il filosofo —. E allora ecco Kandinskij, Picasso, il fenomeno della atonalità, Schönberg, la musica dodecafonica, cioè l’abbandono di quelle regole che in arte sono il corrispettivo della Parola con la p maiuscola. Non è un caso che in quegli anni in Unione Sovietica, dove è ancora presente la Parola non di un dio ma della filosofia marxista, condannino la musica atonale dodecafonica perché si rendono conto che è la distruzione di ogni regola».
Aria
La maturità di un pensiero che spinge fino in fondo il suo rigore porta Severino lontano dalle posizioni acerbe dei primissimi scritti. Nel Parricidio mancato (Adelphi), pubblicato nel 1985 — il padre che viene ucciso è Parmenide, il «folle» che nega il divenire e per questo è fatto fuori dalla filosofia greca che vuole salvare il mondo — ci sono le pagine più dense riservate alla musica e alla sua origine. «Anche la musica — come arte, religione, filosofia, scienza, tecnica, mito — è riconducibile a un fenomeno arcaico che ritengo tuttora di primaria importanza: la festa», dice il filosofo.
La festa è «l’opera che genera il mondo sociale». Comincia con un grido dissonante — lo schianto della barriera che si incrina sotto i colpi dell’uomo che vuole farsi spazio, dilatarsi, respirare. Certo: anche gli animali gridano, ma solo l’uomo si raccoglie intorno al proprio grido. Quando nella festa arcaica il grido dissonante diventa un unisono, incomincia la musica. Come la storia dell’uomo è un progressivo dilatarsi, prendere spazio, la storia della musica è la rievocazione del grido arcaico. «Nella festa non accade nulla di nuovo rispetto alla vita: c’è il canto di guerra, la rievocazione dello scontro, la celebrazione dell’eros, ma tutto questo diviene un’immagine, è un sollevarsi sulla vita, mettersi al di sopra, quindi al riparo. La festa è la forma originaria di rimedio dal dolore e dalla morte. Più tardi si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica, arte. Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite derivazioni che sono le folle delle partite sportive, del rock».
Sarabanda
Viene prima la musica o il pensiero? «Il pensare è il logo all’interno del quale accade tutto (vorrei ricordarlo anche agli scienziati). Se non c’è apertura di pensiero, non si presenta nulla: né l’azione, né l’arte, né la scienza, né la filosofia, né i vari tipi di prassi», risponde il filosofo. Il riferimento all’antica origine della musica torna quando Severino accenna a Wagner: «Nel realizzare il concetto di opera d’arte totale, fa uno degli sforzi più potenti che siano mai stati compiuti nella storia dell’umanità per ripristinare la festa arcaica. Nell’idea di opera d’arte totale wagneriana, tutti gli elementi originariamente uniti e poi dispersi tornano ad essere uno: la vita dell’uomo è espressa in un’immagine totale». Wagner sostiene l’assoluta rappresentatività della musica (ed ecco allora l’insanabile dissidio con Stravinskij, che crede invece in una musica «incapace di esprimere nient’altro che sé stessa»). E l’essenza del vitale è il movimento, quello che comincia con l’espansione che rompe la barriera, con il «farsi largo» nel mondo di cui la musica del tedesco è espressione.
Burlesca e interludio
Che divenire è quello espresso dalla musica: il divenire com’è concepito dall’intera tradizione occidentale, cioè quella forma di fede che consiste nel credere che le cose nascano dal nulla e lì ritornino, o è altro? Massimo Donà, filosofo e jazzista, nel volume Zirkus Suite (che ha allegato il cd con l’esecuzione dell’opera severiniana) appena uscito per Mimesis, propone una lettura diversa, che in qualche modo «salva» la musica dall’errore nichilista: «Nel motivo che suona come un ta ta ta taaaa — scrive riferendosi alla Quinta di Beethoven — passato, presente e futuro non sopraggiungono l’uno sull’altro o peggio ancora l’uno scalzando l’altro, ma si fanno presenti in un’attesa che, neppur essa, mancherà mai di quel che verrà ad aggiungersi a quella stessa unità». I suoni insomma «non escono di scena».
Severino nel divenire espresso dalla musica vede altro: «Thomas Mann diceva che la musica esprime l’anima del popolo tedesco, che è essenzialmente un vendersi al diavolo per avere potenza. Alle spalle di Hitler, Mann vede Lutero, Bach, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche. La musica è la distruzione del mondo perché — dice Severino guardando di nuovo a Hanslick — cancellandone la rappresentazione vuole sostituirlo con un mondo nuovo instaurato dai cantori (i maestri cantori di Norimberga di Wagner non sono poi così innocenti)».
Nel discorso filosofico di Severino la volontà di potenza è ben più ampia della volontà di potenza musicale, ma la include: «Che gli individui umani, me compreso, amino la musica vuol dire che il peccato, l’errare, il carattere luciferino delle cose si fa amare perché è bello, sapiente, potente, luminoso. Tutto il mio discorso filosofico ha il carattere della povertà perché si mette al di là di questa ricchezza meravigliosa dell’errare che include quella luminosità e sonorità potente che è la musica».
Finale
Insomma: che cos’è la musica? «La definizione per sua natura stacca, separa — risponde il filosofo —. Ma se i singoli fenomeni vengono separati dal passato, diventano incomprensibili. Mi piace però quel che diceva Schopenhauer e che già annotavo in quel mio primo povero libretto: la musica non è arte, ma exercitium metaphysicae occultum nescientis se philosophari animi , esercizio occulto metafisico dell’animo che non sa di filosofare (faceva il verso a Leibniz per il quale la musica è exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi , esercizio matematico nascosto nel quale l’anima calcola senza rendersene conto). Schopenhauer dice che la musica considera l’universale ante rem : ecco, in questo mi ritrovo. La musica indica l’universale, per esempio la gioia, ante rem cioè prima che esista la gioia mia, tua, vostra. Però dovrei avvertire Schopenhauer che c’è un universale ancora più originario della musica, che mi fa dire che è il pensiero il luogo in cui tutto può manifestarsi, universale ante rem compreso».
Il filosofo ha vinto sul giovane musicista che è stato. «Mi fa tenerezza pensare a quel ragazzo», dice Severino. Il pianoforte al centro del salotto, nella sua casa bresciana, è un Petrof a mezza coda. «Non lo apro dal 2009, quando è morta mia moglie». La filosofia, invece, continua a reclamare spazio: «Sto concludendo un testo per Adelphi che uscirà a fine anno», dice. Il titolo: Testimoniando il destino .

Corriere La Lettura 15.4.18
La conferenza di Monaco del 1938
Crede di essere una religione , ma la democrazia non lo è
Intervista a Robert Harris. Trattare con il tiranni non è disonorevole
di Danilo Taino


Tornato a Londra dalla Conferenza di Monaco, dove aveva firmato con Hitler l’accordo che cedeva i Sudeti (cecoslovacchi) alla Germania, il primo ministro britannico Chamberlain fu accolto dal giubilo popolare: vent’anni dopo il primo conflitto mondiale, aveva evitato la guerra che nessuno voleva. Era l’inizio dell’ottobre 1938 e l’anziano politico sventolava il documento nel quale il dittatore nazista assicurava una lunga pace con la Gran Bretagna. Tra le manifestazioni di gioia, però, una di segno opposto: «Vi è stata data la scelta tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore — disse Churchill a Chamberlain — e avrete la guerra».
Grazie anche a questa frase, Monaco è passata alla storia come sinonimo di capitolazione di fronte al tiranno. Quando si dice «politica di Monaco», s’intende cedimento, appeasement . E quando si parla di Neville Chamberlain si pensa a un leader debole. In effetti, Winston Churchill aveva visto bene: la guerra sarebbe arrivata un anno dopo. Ma la scelta del primo ministro in carica fu davvero disonorevole? E sbagliata? Lo scrittore, storico e giornalista britannico Robert Harris — il famoso autore, tra l’altro, di Fatherland — dice di no. Anzi: sostiene che la decisione di sacrificare una parte del territorio della Cecoslovacchia (senza nemmeno farla partecipare alla Conferenza) permise di rinviare il conflitto mondiale e consentì al Regno Unito di armarsi al punto di potere poi contenere l’aggressione nazista.
Monaco non come cedimento ma come scelta lungimirante di Realpolitik . Su questo, Harris ha pubblicato un affascinante romanzo/ricerca storica — Monaco , edito da Mondadori — nel quale, attraverso due giovani diplomatici, uno inglese e uno tedesco, ricostruisce i giorni della Conferenza, il 29 e 30 settembre 1938, e mette Chamberlain in una luce nuova. In quest’intervista trae anche lezioni per l’oggi.
Che cosa vede lei in Monaco?
«Si tratta di uno degli eventi storici di cui la gente ha una visione falsa. Penso che Chamberlain non sia affatto stato una figura passiva: volle a tutti i costi l’accordo di Monaco. Il risultato fu una battuta d’arresto per Hitler, il quale voleva la guerra».
La maggior parte degli storici non concorda con questa sua lettura.
«Le opinioni pubbliche, compresa la britannica, non volevano una guerra preventiva. Nessuno, nel 1938, vedeva Hitler come il responsabile dello sterminio di sei milioni di persone. Si sapeva che era antisemita e razzista: ma d’altra parte in quegli anni anche negli Stati Uniti c’era un approccio discutibile ai neri».
Certo. Ma perché Chamberlain volle l’accordo?
«Perché l’accordo era necessario. Fu un patto sporco ma necessario. È vero che la Royal Navy era forte e avrebbe potuto imporre un embargo alla Germania. Ma l’esercito britannico era debole e l’aviazione debolissima. Monaco permise al Regno Unito di riarmarsi, di recuperare quantitativamente e qualitativamente sulle forze tedesche, soprattutto nei cieli, fatto che poi si rivelò decisivo nella Battaglia d’Inghilterra. Chamberlain sapeva bene che la Francia di Édouard Daladier (anch’egli presente a Monaco, ndr ) non aveva intenzione di contrattaccare. Inoltre, i britannici non avrebbero capito la guerra, a differenza di un anno dopo».
Quindi quello di Chamberlain non fu un cedimento disonorevole?
«No. Anzi. Nel 1938 Hitler voleva la guerra. E accettando la Conferenza fu lui a commettere un errore. Si sentì lusingato dal primo ministro della potenza britannica che gli chiedeva di trattare. Ma nel momento stesso in cui accettò di discutere l’accordo a lui del tutto favorevole sui Sudeti gli diventò automaticamente impossibile iniziare la guerra».
Lei dunque sostiene che Chamberlain superò Hitler in astuzia.
«Certo. Monaco fu un ostacolo che lo costrinse a rimandare il conflitto. Era irritato. A dire il vero anche dal fatto che, durante i giorni della Conferenza, Chamberlain fosse osannato dalla folla di Monaco molto più di lui: nemmeno i tedeschi volevano un altro bagno di sangue».
Un caso di Realpolitik di successo.
«Senza dubbio».
Che ruolo ebbe, a suo avviso, Benito Mussolini a Monaco?
«Dobbiamo ricordare che Hitler ammirava moltissimo Mussolini, gli restò leale fino alla fine. Chamberlain chiese al Duce di intercedere per indire la Conferenza e lui lo fece. Così, quando l’ambasciatore di Roma a Berlino, Bernardo Attolico, entrò nell’ufficio del Führer con la missiva del leader italiano, i giochi erano fatti: Hitler non poteva rifiutare. L’intervento di Mussolini fu decisivo».
A lei Chamberlain piace parecchio.
«Non così tanto. Cerco però di non cadere nel cliché, nell’uso sbagliato che di Monaco si fa ancora oggi. Chamberlain era cocciuto, vanesio e ardentemente impegnato a evitare la guerra. Era un imperialista e pensava che un’altra guerra avrebbe distrutto l’impero britannico».
Che opinione invece ha di Churchill, in genere indicato come l’anti-Chamberlain, del quale poi prese il posto alla guida del Regno in guerra?
«Una figura molto più grande, epica, di enorme talento. Fu l’uomo giusto al momento giusto. Su molti punti i due andavano in realtà d’accordo anche se, fino a prima della Seconda guerra mondiale, Churchill aveva praticamente sbagliato tutto. Poi, invece, trasformò il conflitto contro il nazismo in una crociata e della sua volontà di combattere fece un fatto nazionale».
In ogni caso, lei non dà un significato negativo al termine «appeasement», al fare concessioni anche a tiranni pur di non arrivare allo scontro diretto.
«Nell’Irlanda del Nord l’Ira era un’organizzazione criminale che, tra l’altro, tentò un paio di volte di uccidere un primo ministro. Eppure tutti concordano sul fatto che Londra agì per il meglio cercando un accordo di pace. Monaco non fu dissimile. È sempre consigliabile cercare la pace. Peccato che l’America e il Regno Unito non l’abbiano fatto con Saddam Hussein. Lo stesso vale per il colonnello Gheddafi. Eviterei le guerre preventive. Ed eviterei anche le ipocrisie su Monaco: ad esempio, su quali basi morali gli americani criticano Chamberlain quando stettero a guardare per anni la guerra di Hitler senza intervenire?».
A proposito: lei era amico di Tony Blair. Amicizia poi interrotta.
«Avemmo degli scontri per più ragioni. I primi ministri britannici vanno in genere in guerra con riluttanza. Non solo Chamberlain ma anche nel caso delle Isole Falkland. Blair invece scelse la strada preventiva in Iraq. E vendette la guerra al popolo britannico».
Com’è letta oggi Monaco in Gran Bretagna?
«Non è parte del mito prevalente. La Seconda guerra mondiale è vista come la continuazione della nostra superiorità nel mondo. Dunque i britannici non amano Monaco. Amano Dunkerque perché è lì che siamo rimasti soli, e l’isolamento è glorioso. Oggi la Gran Bretagna è diventata un parco a tema della Seconda guerra mondiale. Il 617 Squadron della Raf, i Dambusters (bombardarono le dighe tedesche nel maggio 1943, ndr ), è stato ricostituito l’anno scorso, per esempio. Lo trovo imbarazzante. Nigel Farage (il leader della Brexit, ndr ) usa Monaco per dire che non bisogna cedere a Bruxelles».
Anni fa lei si è occupato di armi chimiche. Che cosa pensa del caso di Sergej Skripal e di sua figlia, avvelenati da gas nervino a Salisbury?
«Sconcertante. È un avvertimento di Vladimir Putin: se lo intralci e lo irriti, ti sarà data la caccia. Introduce l’irrazionalità negli affari esteri. Preoccupante. Barack Obama ha fatto un errore: credeva che la Russia fosse uno Stato, invece è un uomo. Non possiamo paragonare la Russia alla Germania di Hitler: sarebbe offensivo, ha battuto i nazisti. Ma l’emergere dell’uomo forte ricorda quei tempi bui. L’Europa deve stare unita, Putin vorrebbe distruggere la Ue e la Nato».
Vede le democrazie deboli, oggi, come ai tempi di Monaco?
«Dopo la caduta del Muro di Berlino abbiamo considerato la democrazia come una religione che si poteva portare ovunque. Sulle tracce di McDonald’s. Oggi possiamo dire che la fase dei neocon religiosi è finita. Ma la democrazia deve guardarsi allo specchio, vedere le sue bellezze e i suoi limiti, rendersi conto che non è una religione. Sono tempi duri per la democrazia, echi di anni Trenta».

il manifesto 15.4.18
Netanyahu si congratula con Trump ma Israele chiede molto di più
Siria. Israele applaude al presidente americano che ha tenuto fede alla promessa di attaccare la Siria. Ma Tel Aviv voleva ben altro dai raid che non hanno cambiato nulla sul terreno e hanno evitato di colpire le postazioni dell'Iran e di Hezbollah in Siria
di Michele Giorgio


Benyamin Netanyahu si congratula con Donald Trump che ha dato il via, assieme ‎a Londra e Parigi, ai raid contro la Siria. Quei missili sarebbero la prova ‎dell’impegno Usa a fermare «l’uso di armi chimiche», sostiene il premier israeliano ‎che ieri ha lanciato un avvertimento minaccioso al presidente siriano Bashar Assad ‎perché permetterebbe all’Iran di consolidare la sua presenza in Siria. Parla ‎di ‎«importante avvertimento» a quello che descrive come l’asse del Male – Iran, ‎Siria e movimento sciita libanese Hezbollah – anche il ministro delle costruzioni ‎Yoav Gallant. Eppure dietro le quinte Netanyahu, i suoi ministri e i generali ‎scuotono la testa. Trump parla di ‎«missione compiuta» ma i suoi missili ‎«belli e ‎intelligenti‎», e quelli di Macron e May, non hanno cambiato nulla sul terreno a ‎favore degli interessi di Israele. Interessi che non sono mirati, come affermano e ‎scrivono i suoi leader, a punire i “cattivi” che usano armi proibite. ‎«I missili di ‎venerdì notte hanno lasciato le cose come stanno – ci spiega l’analista Mouin ‎Rabbani – Trump e i suoi alleati sono stati attenti a non innescare la risposta ‎militare del Cremlino, dell’Iran e pure della Siria. Si è trattato di un attacco ‎limitato nella potenza e negli scopi che non ha riguardato alcuna delle questioni ‎che davvero interessano a Israele». ‎L’agenda israeliana in Siria, aggiunge ‎Rabbani, ‎«è molto più ambiziosa e Netanyahu sa che Israele è solo nonostante ‎l’appoggio che gli offre Trump. I motivi dello scontro tra Iran e Israele sono ‎ancora tutti lì».‎
Netanyahu non vuole che Tehran consolidi la sua presenza militare in Siria, ‎specie dalle parti del Golan oltre il quale Israele conta di costituire una sorta ‎‎”fascia di sicurezza”, in profondità nel territorio siriano meridionale, sotto il ‎controllo di una o più formazioni “ribelli” schierate contro il presidente Bashar ‎Assad. Tehran e Hezbollah, in appoggio all’esercito siriano, possono impedirlo. Se ‎poi l’Iran da postazioni in territorio siriano riuscisse a mettere sotto tiro, con i suoi ‎missili balistici (ben più precisi di quelli in possesso di Hezbollah), l’intero ‎territorio israeliano, allora finirebbe per avere in mano un potere di detetterenza ‎tale da indurre lo Stato ebraico a pensarci due volte prima di lanciare un attacco ‎alle sue centrali nucleari. ‎«Missione compiuta ha detto Trump, per Israele non è ‎neppure cominciata‎» sottolinea Rabbani ‎«e Netanyahu l’ha dimostrato a inizio ‎settimana quando ha ordinato alla sua aviazione di colpire la base aerea siriana T4, ‎dove ha ucciso sette consiglieri militari iraniani, entrando in un pericoloso faccia a ‎faccia con Tehran‎». Il premier israeliano, conclude l’analista, ‎«sa che i russi, dopo ‎l’attacco alla base T4, sono meno pronti di prima a tenere conto delle ‎preoccupazioni di Israele riguardo ai progetti iraniani in Siria, come gli ha ‎spiegato Vladimir Putin qualche giorno fa‎». L’attacco di venerdì notte perciò non ‎ha allontanato, anzi, potrebbe aver avvicinato la resa dei conti tra Iran e Israele ‎che ieri ha chiuso lo spazio aereo sopra il Golan siriano che occupa dal 1967.‎
Lo show di Trump rischia di complicare anche i piani americani per il nord della ‎Siria. Il presidente Usa a fine marzo aveva annunciato, tra le proteste dietro le ‎quinte di Israele e dell’Arabia saudita, il ritiro (almeno a parole) dei soldati ‎americani dalla Siria per lasciare alle milizie curdo/arabe addestrate e appoggiate ‎da Washington il compito di controllare la vasta porzione di territorio che dal ‎nord scende verso est fino alla città Deir Ezzor, liberata mesi fa dall’esercito ‎siriano. Gli Usa in quella vasta area, che include la diga sull’Eufrate di Tabqa,‎ ‎tengono le mani strette su alcuni importanti giacimenti petroliferi siriani (come ‎quello di al Omar), sottraendo a Damasco risorse energetiche e finanziare vitali. A ‎gennaio era stato molto chiaro l’ex Segretario di stato Rex Tillerson quando aveva ‎spiegato che le truppe Usa (tra 2000 e 4000, più i contractor) sarebbero rimaste in ‎Siria ‎«per garantire che né l’Iran né il presidente Bashar al Assad della Siria ‎prenderanno il controllo di quelle aree‎» rimaste per anni sotto il controllo dei ‎miliziani dello Stato islamico. Trump ha poi preso una decisione diversa che ora ‎potrebbe cambiare e non solo per il malumore di sauditi e israeliani. ‎«La Siria con ‎l’appoggio della Russia potrebbe rispondere all’attacco di venerdì notte lanciando ‎un’offensiva militare per riprendere il territorio settentrionale e strapparlo al ‎controllo Usa e delle milizie curde e arabe», avverte Mouin Rabbani. Sarebbe la ‎fine della “partizione” della Siria che piace ai nemici di Bshara Assad, con aree ‎sotto l’influenza di Turchia, Israele, degli Usa e un territorio ampio centrale sotto il ‎controllo di Damasco. Il 7 febbraio le forze armate siriane avevano inviato un ‎battaglione per recuperare un impianto di gas vicino a Deir Ezzor ma furono ‎respinte, con molte perdite causate dai bombardamenti aerei americani. Stavolta, ‎con i russi decisi a farsi sentire, le cose potrebbero andare in modo molto diverso.‎

il manifesto 15.4.18
Sanders e i democratici schierati contro lo strike di Trump & soci
American Psyco. L’intervento sarebbe stato limitato da Mattis per mancanza di un piano su come proseguire la guerra. Il capo del Pentagono avrebbe rintuzzato i falchi Trump, Bolton e Halley
di Marina Catucci


NEW YORK Missione compiuta, «mission accomplished», così ha twittato Trump la mattina seguente il raid in Siria, citando – forse inconsapevolmente – la sfortunata affermazione fatta da Bush jr del 2003, per annunciare al suo esercito e al mondo la fine delle operazioni militari relative all’invasione dell’Iraq, tutt’ora in corso.
Sull’opportunità di sferrare questo attacco sono in molti ad avere dei dubbi, e più di tutti il senatore del Vermont Bernie Sanders, il primo a parlare proprio mentre i missili si dirigevano verso la Siria, portandolo a scrivere su Twitter: «È il Congresso, non il presidente, che ha la responsabilità costituzionale di fare la guerra. La comunità internazionale deve sostenere il divieto dell’uso di armi chimiche, ma non è chiaro come gli attacchi illegali e non autorizzati di Trump sulla Siria raggiungano questo obiettivo».
Dopo 17 anni di guerra in Afghanistan e 15 anni di guerra in Iraq, il Medio Oriente ha bisogno di una strategia politica di pace, non più interventi militari americani, ha continuato Sanders interrogato dai giornalisti, e a pensarla come lui sono in molti nel partito democratico, come la ben più moderata leader democratica Nancy Pelosi per la quale «una notte di attacchi aerei non può sostituire una strategia coerente», o la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, che ha chiesto a Trump di fornire «la sua linea strategica completa con obiettivi chiari e un piano per raggiungerli»; richiesta simile è arrivata anche dal senatore del New Jersey Cory Booker, e anche dalle file repubblicane, pur senza condanna verso l’attacco, si notano prese di distanza, come quella di John McCain che ha chiesto a Trump di rendere pubblico il piano complessivo dell’intervento in Siria.Che non ci sia un piano complessivo, lo si intuiva già durante la conferenza stampa notturna del Segretario​ della Difesa James Mattis, nel suo sottolineare che quello appena accaduto era un evento isolato.
Per l’analista della Cnn Jim Sciutto, dalle dichiarazioni a caldo, trapelerebbe che Mattis abbia vinto il dibattito tra lui e Trump, il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Bolton e l’ambasciatrice Usa all’Onu Halley, nel far prevalere la linea di un intervento limitato in Siria che, secondo il New York Times è stato contenuto in modo calcolato, per evitare di provocare rappresaglie di Russia e Iran.
Al di là delle scelte su come operare in Siria, le motivazioni della decisione in sé riguardo questo attacco sono sembrate sospette, o quanto meno si è notato come sia arrivato a proposito, questo raid, per agitare un po’ le acque che stavano intorpidendosi davvero troppo intorno al presidente Usa. Sono stati riproposti vecchi twit del privato cittadino Trump che nel 2013 criticava le decisioni di Obama di intervenire in Siria invece che occuparsi dei problemi americani, mentre nel 2012 The Donald aveva scritto: «Ora che i dati sul gradimento di Obama sono in tilt, aspettate che lanci un raid in Libia o in Iran, in quanto è disperato». Poche ore prima che cominciasse lo strike, anche le notizie per Trump erano tutt’altro che buone.
Tutti i media americani riportavano infatti la notizia per cui il procuratore speciale Mueller ha dimostrato che l’avvocato personale di Trump, Michael Cohen – descritto più che come avvocato come fixer, l’aggiustatore Mr Wolfe in Pulp Fiction – nel 2016 sarebbe stato a Praga per un incontro con dei russi vicini al presidente Putin, così come si legge nel dossier dell’ex agente dei servizi segreti britannico Christopher Steele. Lo stesso Cohen avrebbe a fine 2017 negoziato un accordo da 1,6 milioni di dollari con un ex modella di Playboy per conto di un importante fundraiser repubblicano che l’aveva messa incinta, così come l’accordo con la pornostar Stormy Daniels per comprarne il silenzio riguardo la sua relazione sessuale con Trump.

il manifesto 15.4.18
Corbyn stana May: «Venga in parlamento a spiegare»
Londra. La premier: «Azione nel nostro interesse nazionale e per abbattere il regime siriano»
Proteste a Londra contro il raid americano supportato da May e Macron in Siria
di Leonardo Clausi


LONDRA Alla fine Theresa May ha preferito accodarsi al punitore francoamericano in fretta e furia pur di non consultare il Parlamento, ben sapendo che la via democratica alle bombe le sarebbe stata sbarrata in aula.
DOWNING STREET si è arruolata nei tre bombardieri di Dumas/Macron telecomandati da Trump approfittando del fatto che Westminster sta dimostrando la propria subalternità a una Washington che non crede alla propria fortuna di avere finalmente un presidente francese che obbedisce perché è yankee dentro, frutto di una generazione finalmente insensibile alle piazzate di tromboni nazionalisti come de Gaulle o Chirac. Il fatto che May abbia una non-maggioranza puntellata dalle sentinelle in piedi del Dup e che Jeremy Corbyn sia il primo leader in quasi mezzo secolo di un’opposizione degna di questo nome, hanno fatto il resto.
NEL GIUSTIFICARE una decisione peraltro in perfetta linea con la tradizionale special relationship che incapretta i destini del Paese all’alleato americano finché mercato non li separi May ha detto di non avere avuto alternative. «Era un’azione chiaramente destinata al regime siriano», ha detto la premier, ma anche a tutti coloro cui saltasse il ghiribizzo «di usare armi chimiche con impunità». Peccato che le alternative a mancare fossero quelle all’obbedienza a Washington, che hanno imposto un attacco militare per il quale nel Paese non c’è alcun appetito, soprattutto dopo i disastri iracheni: disastri che il ministro degli Esteri Lavrov e l’ambasciatore russo a Londra Yakovenko rinnovellano gongolanti e a piè sospinto nelle conferenze stampa propagandistiche sull’affaire Skripal.
«NON C’È DECISIONE più grave che possa prendere un primo ministro che quella di condurre le truppe nazionali in combattimento, e questa è stata la prima volta che ho dovuto farlo» ha proseguito May. Dopo l’espressione dell’enorme-debito-di-gratitudine-ai-nostri-ragazzi di prammatica, la premier ha espresso la falsa rassegnazione di chi deve giustificare la propria presenza accanto a un partner più forte in un atto di prepotenza: «Avremmo voluto seguire un percorso alternativo, ma in questo caso non ce n’erano. Non possiamo lasciare che l’uso di armi chimiche sia normalizzato: che accada in Siria come – riferendosi direttamente all’altro enorme motivo di conflitto con Mosca, l’avvelenamento degli Skripal con agente nervino – sulle strade della Gran Bretagna. Abbiamo restaurato il consenso generale sul fatto che le armi chimiche non vadano usate», ha continuato May, per poi rispolverare l’adagio che timona il vascello britannico dai tempi di Francis Drake: «Questa azione è nel nostro interesse nazionale». La lezione della storia è che «quando le regole che ci mantengono sicuri vengono minacciate dobbiamo prendere posizione e difenderle», ha proseguito, deliberatamente ignorando quanto poco lo stillicidio di bombardamenti occidentali, che martoria il medio oriente da decenni, giovi alla sicurezza dei cittadini britannici sulle strade delle loro città.
MAY HA CONCLUSO: «Questo è quello che il nostro Paese ha sempre fatto ed è quello che continueremo a fare». Quest’ultimo proposito è particolarmente inquietante giacché una simile esibizione muscolare non fa altro che rafforzare la determinazione del macellaio – e figlio di macellai – Assad a resistere, per tacere della ormai polverizzata chance di riportare i rapporti con i nazionalisti russi di Putin suoi alleati a un livello decente. Appare chiaro come l’umanitarismo peloso di simili iniziative altro non sia che la facciata di una guerra per procura, una guerra che Usa, Nato e Israele combattono in Siria contro Russia e Iran sotto gli occhi di un’Ue passiva e impotente.
L’IRRILEVANZA del ruolo occidentale in Siria, dove migliaia di persone da otto anni continuano a morire uccise da armi non chimiche, ne esce casomai rafforzata. Secondo Jeremy Corbyn, che aveva chiesto un sopralluogo dell’Onu che accertasse l’uso di armi chimiche nell’attacco a Douma, May avrebbe dovuto convocare un dibattito a Westminster.
«Ha detto che c’è una base legale per quest’intervento, ha dichiarato il leader Labour, le ho chiesto in una lettera di esibirle in parlamento». Che si riunisce in sessione lunedì dopo le vacanze pasquali. È in quella sede che Theresa May dovrà giustificare, nei prossimi giorni, la propria fuitina bellicosa.

Repubblica 15.4.18
Il racconto siriano
Le voci contro Assad
La speranza e la delusione “ Il massacro andrà avanti”
“Il mondo ha scelto ancora di non opporsi alle stragi”, dice l’attivista al Hamza
Abdullah, fotografo di Douma: “ Come dire al rais: continua pure ad ammazzare, solo non usare i gas”
di Francesca Caferri


Prima c’è stata la speranza: «Prego che colpirà duro, signor presidente, che farà spuntare un sorriso sulla faccia delle madri che hanno perso i loro figli», chiedeva poche ore prima dell’attacco rivolgendosi direttamente a Donald Trump Abdelaziz al Hamza, uno dei più noti attivisti siriani, fondatore del pluripremiato sito Raqqa has been slaughtered silently. Poi, quando la portata dell’azione congiunta di americani, francesi e britannici è diventata chiara, è arrivata la delusione: «Ancora una volta il mondo ha scelto di non opporsi al massacro dei siriani. Ma solo all’uso di certi metodi per portare avanti il massacro», scriveva su Twitter Alia Malek, attivista e scrittrice siro-americana. Non era un giudizio isolato, il suo.
Più passavano le ore ieri, più la delusione dei siriani che si oppongono al governo per le modalità e gli obiettivi dell’azione militare contro Bashar al Assad cresceva. Forte, fortissima, alimentata dal rimpianto di aver di nuovo creduto nella possibilità di un aiuto reale da parte degli Stati Uniti: ad appena dodici mesi di distanza dal primo attacco di Trump contro Assad, a cui non era seguita nessuna azione per modificare gli equilibri del potere in Siria.
«L’hanno chiamata una vendetta per il massacro di Douma, a me sembra piuttosto come colpire un pugile alle gambe e alle mani, ma scegliere di non buttarlo giù», dice dal confine siro-turco Firas Abdallah, fotografo e attivista di Douma che per mesi ha documentato l’assedio della sua città, abbandonandola solo due settimane fa, quando il regime l’ha definitivamente stretta.
«Abbiamo vissuto la fame, la mancanza di medicine, abbiamo perso tutto. Ci hanno colpito in ogni modo: con l’artiglieria, con i barili bomba. Abbiamo chiesto aiuto in ogni maniera possibile: e questo è quello che otteniamo? Che il criminale che ci ha massacrato resti al suo posto con qualche danno alle sue infrastrutture militari?
Forse il mondo è diventato sordo».
Nel 2013 Mohammed Abdullah fu uno dei fotografi che raccontò la prima strage con agenti chimici a Douma.
Morirono 1.400 persone: vittime di gas sarin, spiegarono gli esperti dell’Onu. Gli scatti di quel giorno, i corpi dei bambini avvolti nei sudari bianchi, lo perseguitano anche oggi che ha iniziato una nuova vita in Belgio. A quella strage non seguì nessuna azione militare per scelta dell’allora presidente Barack Obama, che pure aveva fissato la ‘linea rossa’ dell’America proprio sull’uso di armi chimiche da parte del regime. «Sto malissimo – racconta al telefono – appena sono arrivate le prime immagini delle ultime vittime ho avuto un attacco di panico: non riuscivo a guardarle, troppe cose mi sono tornate in mente. Quando finalmente mi sono costretto a farlo ho visto le stesse scene: la saliva bianca nella bocca dei bambini, le donne abbracciate ai corpi dei figli, i medici impotenti. Sto male per questo e perché ho creduto che l’Occidente non avrebbe permesso che accadesse di nuovo. Oggi so di aver sbagliato.
Il messaggio che Trump e Macron hanno mandato ad Assad è chiaro: continua pure ad ammazzare la tua gente, solo non usare armi chimiche».
È un fiume in piena la rabbia dei siriani anti-regime e di chi li sostiene. È fatto della feroce ironia del vignettista Hani Abbas, che ieri su Facebook pubblicava il necrologio del “prestigioso centro di ricerca scientifica” colpito a Damasco. E della crudezza delle parole di Loubna Mrie, attivista alawita che fra i primi, nel 2012, raccontò al mondo il prezzo – l’assassinio della madre – che pagava chi, originario dell’etnia del presidente, si univa alla rivoluzione: «Gli Usa non sono nostri alleati tanto quanto non lo sono i russi».
Nessuna gioia, nessun elogio a ‘Abu Ivanka’, come un anno fa nell’euforia per quel primo attacco gli attivisti avevano ribattezzato Trump. Ieri, ancora una volta, migliaia di siriani si sono sentiti abbandonati.

Il Sole 15.4.18
La lezione di Keynes sul pacifismo «pragmatico»
di Gianni Toniolo


Racconta Robert Skidelsky che, dopo il settembre del 1938, John Maynard Keynes visse un’angosciosa divisione «tra il suo indubbio pacifismo e il suo desiderio di combattere il male e l’aggressione». Sono i mesi dell’annessione tedesca della regione cecoslovacca dei Sudeti, avallata a Monaco da Francia e Regno Unito. Keynes non si fa illusioni sulla pericolosità di Adolf Hitler, tanto da non avere voluto mettere piede in Germania dopo il 1933. Eppure, il dubbio continua ad agitarlo. Esso deriva da due convinzioni: da un lato quella che non sia lecito iniziare una guerra senza sapere che essa renderà la futura pace tanto migliore di quella attuale da compensare i costi umani del conflitto e, d’altro lato, quella che è quasi impossibile fare previsioni credibili circa l’esito di una guerra. Il suo non è dunque, un pacifismo dogmatico, dedotto da princìpi assoluti, privo di eccezioni. Si tratta invece di un pacifismo pragmatico, nutrito dallo studio della storia e dalla teoria che afferma l’impossibilità di assegnare probabilità attendibili agli esiti di eventi complessi e rari.
Il pacifismo pragmatico di Keynes è incredibilmente attuale. Le relazioni internazionali degli ultimi due decenni, con la preoccupante escalation militare di questi giorni, fanno tornare immagini del primo Novecento, come quella, evocata da Franco Venturini (Corriere della Sera del 13 aprile), dei «sonnambuli» che danzavano sull’orlo dell’abisso, secondo la fortunata immagine di Christopher Clark.
L’affievolirsi della guida americana dell’Occidente ricorda il lento tramonto del Regno Unito che, sino al 1870, aveva garantito un’imperfetta, ma efficace Pax Britannica. Oggi come allora, emergono nuovi protagonisti desiderosi di tradurre la forza economica in influenza politica globale, mentre la Russia assomiglia a quella di allora, stretta nella pericolosa contraddizione del gigante militare con fragili piedi economici. L’azione collettiva per lo sviluppo economico e la pace è più difficile in un mondo multipolare, privo di quella «egemonia consensuale» degli Stati Uniti che aveva permesso all’Occidente post-bellico di vivere una pacifica età dell’oro.
Rispetto agli anni dieci e trenta del Novecento, la pace può oggi trarre forza da tre condizioni che allora mancavano: una vasta rete di organizzazioni multilaterali (politiche e tecniche); una molto maggiore estensione della democrazia, formale e sostanziale (non ci sono esempi rilevanti, negli ultimi due secoli, di guerre tra Paesi democratici); lo stato sociale. Nessuna di queste tre “novità” del nostro tempo gode di ottima salute: rafforzarle è il compito di politiche ispirate a un pacifismo pragmatico privo di ingenue illusioni, ma anche di quel pessimismo che tende ad auto realizzarsi.
Non è utopia pensare a politiche di lungo andare per rafforzare la pace: gli artefici della stabilità della seconda metà del Novecento cominciarono a impostarle mentre ancora le bombe cadevano su Londra. Ma è anche indispensabile, come diceva Keynes, «prolungare la pace giorno per giorno, ora per ora», con tutti gli strumenti di cui dispongono la diplomazia e la politica. Perché questi strumenti abbiano probabilità di successo è importante che cresca la consapevolezza dei rischi.
Nel 1912-13 si susseguirono due guerre balcaniche, conflitti al margine dell’Europa che si riuscì a stento a governare e contenere. Anche nel 1914 si pensò di poter gestire il rischio, ma non ci si seppe arrestare un metro prima del baratro, anche perché i «sonnambuli» che precipitarono il mondo nella Grande guerra condividevano una cultura politica e militare, basata su esperienze passate, che riteneva impossibile un conflitto totale di durata indefinita.
Se avessero avuto anche una imperfetta capacità di previsione, nessuno di essi avrebbe sparato il primo colpo. D’altronde, tranne forse la prima guerra del Golfo, nessuno dei grandi conflitti della seconda metà del Novecento è finito secondo le previsioni. Keynes farebbe un salto sulla seggiola leggendo oggi comunicati ufficiali che parlano di rischi attentamente conosciuti e contenuti.
L’Europa, oggi parzialmente divisa sull’azione militare in Siria, ha nella propria storia e nella collocazione geopolitica ed economica le radici sulle quali basare una politica di rafforzamento della pace. Ha l’attendibilità derivante dal non avere ambizioni o possibilità egemoniche, mentre ha molto, forse tutto, da perdere se uno dei potenziali fulcri di conflitto – in Medio Oriente, in Ucraina, nella Penisola coreana, nel Mare cinese meridionale – scappasse di mano, anche contro la volontà dei singoli attori coinvolti.
La lezione di questi mesi, di questi giorni, è che l’Unione europea – o almeno una “cooperazione rafforzata” all’interno di essa – può pesare sulla scena mondiale tanto quanto pesano la sua civiltà, la sua economia, la sua demografia solo dotandosi di una politica estera e di una difesa comuni. Il tempo dei “sovranismi” è passato da decenni sul piano economico, lo è adesso anche su quello della politica estera e di difesa.

Corriere 15.4.18
Tutti vittoriosi? Dietro le quinte il vero duello tra Israele e Iran
di Guido Olimpio


Un’operazione show che permette a tutti di prendersi una fetta di «vittoria», ma che nasconde un futuro pieno di incognite e di situazioni che potrebbero essere ben peggiori. Inoltre i protagonisti parlano di missione compiuta. Putin lo ha fatto già un paio di volte nei mesi scorsi, ieri lo ha imitato Donald Trump.
Primo. Il raid «telefonato» indurrà a Bashar Assad alla moderazione? In pubblico i generali ostentano ottimismo sugli esiti del colpo mentre molti analisti mostrano tutto il loro scetticismo. La salva di missili dovrebbe in teoria rappresentare una nuova linea rossa, ma proprio il carattere limitato non pare sufficiente a impaurire un leader rassicurato dai successi grazie ai russi. A meno che Washington non decida un cambio radicale impegnandosi nel conflitto. Infatti gli unici che hanno espresso delusione sono stati i ribelli.
Secondo. È legato al punto uno. Gli Usa resteranno nel Nord della Siria e per quanto? Trump ha indicato una scadenza vaga, il Pentagono non sembra avere alcuna fretta. Ogni inasprimento della crisi comporta dei mutamenti, a volte nell’arco di pochi giorni. Ne sono un esempio i turchi: una settimana fa si diceva che avevano barattato con Mosca il soffocamento prolungato dei curdi in cambio dell’accettazione di Assad. Ieri sono tornati a dire che se ne deve andare. La posizione muterà ancora.
Terzo. È la partita con l’Iran e la sua presenza in Siria. Gerusalemme non è disposta ad accettarla, conta sull’appoggio di Washington. Chiaramente i due alleati usano questa carta sperando che Putin si distacchi da un partner fondamentale. Gli attacchi periodici che Israele ha condotto contro target iraniani sul suolo siriano rispondono a esigenze tattiche e strategiche: devono far capire al Cremlino che nessuno scherza. Sembra difficile che Mosca possa rinunciare all’asse con Teheran, almeno nel breve, però è consapevole del pericolo. I ripetuti contatti tra lo «zar» e gli israeliani lo sottolineano.
Quarto. Le operazioni militari servono anche a testare le difese avversarie, specie in un quadrante dove Mosca ha creato un sistema sofisticato. Contromisure, radar, attività elettronica, capacità di reazione, tracciamento di aerei. Ognuno decanta l’efficienza dei propri mezzi — i cruise intercettati dai russi, i siti distrutti dagli Usa — ma intanto si preparano alla prossima missione. Quando non sarà più annunciata da un post del presidente o dagli articoli di giornale con la lista degli obiettivi, come è accaduto questa volta.

Corriere 14.4.18
La prima guerra di troll e fake news
di Massimo Gaggi


La guerra delle parole non uccide come quella fatta col gas nervino, ma ha effetti d’intossicazione della opinione pubblica ancor più gravi in un’epoca dominata dalla frammentazione delle fonti d’informazione: siamo ormai immersi in un rumore di fondo che disorienta. Fin qui, la diffusione delle teorie dei complotti è cresciuta man mano che canali digitali incontrollati prendevano il sopravvento su quelli dell’informazione tradizionale: teorie alimentate dalla naturale propensione del web a premiare le posizioni più estreme o le tesi più fantasiose, ma anche dalla diffusione di troll coi quali i servizi segreti di un Paese cercano di inquinare il tessuto informativo di una nazione avversaria.
Nell’ultima fase della crisi siriana stiamo assistendo a un ulteriore salto di qualità: mentre continuano ad apparire sui siti le tesi più fantasiose (come quella che attribuisce il conflitto alla decisione americana di finanziare ribelli di ogni genere, Isis compreso, per punire Assad, reo di aver negato nel 2009 il permesso di transito di un oleodotto del Qatar sul suo territorio) e mentre il Pentagono denuncia che dopo l’attacco missilistico le infiltrazioni di troll russi nei canali informativi americani sono aumentati del duemila per cento, ora è lo stesso Cremlino a esporsi direttamente nella battaglia sulle fake news. Il ministro degli Esteri Lavrov e quello della Difesa Sojgu ci «mettono la faccia» accusando il governo britannico di aver fabbricato a tavolino la falsa storia dell’uso di armi chimiche a Douma, nonostante l’evidenza dei filmati, nessuno dei quali è stato fin qui contestato. La disinformazione diffusa in tempo di guerra per demoralizzare il nemico ha una storia secolare, ma una campagna di questa intensità è senza precedenti. E senza precedenti è anche il successo russo nel diffondere le sue tesi in parti importanti delle società europee (facilitato dal fatto che le fonti che denunciano gli attacchi col gas non sempre sono trasparenti).
Ormai, dice Robert Kaplan in un’intervista che pubblichiamo oggi, anche la stampa è al fronte: vincere la guerra mediatica diventa importante quanto e forse più che vincere quella sul campo.

Corriere 15.4.18
Kaplan: «Lo zar è prudente Ha una visione, gli Usa no Ma si scontrerà con l’Iran»
di Massimo Gaggi


«Con l’attacco missilistico Donald Trump e i suoi alleati mandano un messaggio forte a Vladimir Putin e alla leadership iraniana, oltre che ad Assad. Ma l’aggravamento della crisi in Siria è anche frutto dell’atteggiamento ondivago degli Stati Uniti, dei vuoti lasciati in quell’area: le armi chimiche sono state usate alle porte di Damasco subito dopo l’annuncio del ritiro americano».
Celebre analista di affari internazionali, autore di ben 18 libri, ma anche giornalista che ha seguito sul campo tutti i conflitti degli ultimi decenni, dai Balcani all’Africa, passando per Iraq e Afghanistan, Robert Kaplan non è affatto impressionato dai «venti di guerra» in Medio Oriente.
Non la colpisce nemmeno l’uso di armi chimiche da parte di Assad e l’appoggio che il Cremlino continua a garantirgli? O pensa anche lei che siano fake news?
«L’uso dei gas è un crimine da condannare, ovvio. Ma Trump, annunciando il ritiro, ha mandato un segnale interpretato da Assad come un semaforo verde: via libera all’eliminazione delle ultime sacche di resistenza che ancora minacciano il suo regime. Putin ha le sue responsabilità, ma nella partita siriana è stato, in realtà, abbastanza prudente. Nonostante Damasco sia stata nell’orbita d’influenza russa fin dai tempi dell’Urss, dalla metà degli anni Sessanta, il Cremlino non è intervenuto in Siria fino a quando non si è convinto che Barack Obama non aveva alcuna intenzione di impegnarsi in quell’area. E anche nello scontro attuale è evidente che si punta a una guerra solo di parole».
Cosa la porta ad escludere che ci siano grossi pericoli in vista?
«L’attacco americano è stato concepito in modo da minimizzare il rischio di una rappresaglia russa. La volontà di evitare un allargamento del conflitto è forte tanto a Mosca quanto a Washington. Questo è stato un attacco molto limitato: preciso, di entità contenuta, preannunciato. Il messaggio inviato è il monito ad Assad e a ogni dittatore a non usare armi di distruzione di massa, non è il preannuncio di un allargamento del conflitto. Gli Usa e i suoi alleati non stanno dicendo che faranno la guerra: dicono solo che chi usa armi chimiche deve aspettarsi risposte militari che gli causeranno danni e perdite superiori a quelle da lui inflitte usando questi ordigni».
Continuerà l’espansione dell’influenza russa nel Mediterraneo oltre l’Egitto?
«Gli Stati Uniti sicuramente pagano il loro caos diplomatico: la Russia ha una strategia precisa. L’Iran anche e pure Israele. L’America non ne ha nessuna: vaga dal disimpegno di un giorno all’attacco militare del giorno dopo. Detto questo, il credito di cui gode Putin in Medio Oriente è legato a come ha difeso Assad: colpendo il dittatore di Damasco si mette sulla difensiva anche il Cremlino. Le ambizioni più pericolose nell’area, però, non sono quelle russe, ma quelle di Teheran che sogna un’egemonia imperiale dall’Iran fino al Mediterraneo. Eccessivo e pericoloso: prima o poi Putin si troverà in conflitto con l’alleato iraniano».
Il radicale Bolton al posto di un moderato, il generale McMaster, a fianco di Trump. Di nuovo la retorica di «Mission Accomplished», come nelle guerre di Bush. Non la spaventa?
«Bolton è di certo più estremista, ma, per le sue competenze, penso si occuperà soprattutto della questione coreana mentre il Medio Oriente rimarrà terreno per il capo del Pentagono: il generale Mattis è uomo di grandi capacità analitiche, un realista moderato. Ed è il più profondo conoscitore di quell’area per l’attività svolta lì da militare».
Cosa la colpisce di più di questo conflitto, a confronto con quelli che ha seguito in passato?
«L’effetto di cyberdisruption informativa. Campagne di disinformazione sull’andamento di un conflitto ce ne sono sempre state. Fin dalla Prima Guerra Mondiale. Ma non si era mai visto nulla dell’intensità dei giorni nostri: i media fanno ormai parte del fronte di guerra. Prevalere nella battaglia dell’informazione diventa quasi più importante di una vittoria sul campo».

Repubblica 15.4.18
L’altra Ungheria
La marcia dei centomila contro Orbán
di Andrea Tarquini


BERLINO, GERMANIA Erano in centomila, moltissimi – forse otto su dieci – millennials e giovani di Budapest con voglia di Europa, libertà e mondo globale – altri venuti dalle campagne coi pullman di Jobbik, il partito trasformatosi da ultradestra razzista a centrodestra, poi anche quarantenni e anziani. Hanno marciato su tutta la maestosa Andrássy út fino al Parlamento presidiato in forze dai reparti speciali della polizia. Ungheria, una settimana dopo le elezioni le élites giovani di sinistra e di destra anti-Orbán sono scese in piazza. Contestano le accuse di frode elettorale, rifiutano i programmi di nuove correzioni “illiberali” del vincitore del voto, il premier Viktor Orbán, al quadro istituzionale. Lo spirito di resistenza pacifica della società civile, nel Paese magiaro come in Polonia e nel resto di quella che il grande scrittore polacco Czeslaw Milosz chiamò “l’altra Europa”, non è ancora morto.
«Noi siamo la maggioranza, noi siamo il popolo, noi vogliamo vivere in una democrazia e in uno Stato di diritto», scandivano sfilando per il centro della capitale. «Vogliamo lo Stato di diritto, siamo europei come voi altri fratelli europei», ha detto parlando alla folla il ventenne Viktor Gyetvai, uno degli organizzatori. Si sono organizzati sulla rete e nei social qui dove la maggioranza eletta ha il controllo pressochè totale dei media, sono riusciti a radunare la grande folla. Alle elezioni legislative svoltesi domenica scorsa, Orbán ha stravinto conquistando la maggioranza dei due terzi secondo i dati ufficiali, contestati da opposizioni di destra e di sinistra, da ong e dall’Osce.
Parlano di conteggi irregolari e schede elettorali elettroniche sparite. Qualcuno dice che la manipolazione elettronica sia stata effettuata con l’aiuto di reparti cyberwar di paesi stranieri. La Russia, suggeriscono: i media online dei trolls russi diffondono da giorni in ungherese false notizie per scaldare gli animi. Da parte sua Orbán aveva alluso pochi giorni fa a punizioni contro i dimostranti presunti traditori della patria. L’Osce ha incoraggiato millennials e giovani a scendere in piazza con rapporti che denunciano l’estrema campagna xenofoba del partito di Orbán (Fidesz, membro dei Popolari europei) finanziata anche con fondi pubblici, e la parzialità dei media.
Atmosfera rilassata e gioiosa, sventolare del tricolore magiaro, giovani e anziani a cantare “Dio, proteggi gli ungheresi”, l’inno nazionale, e gli inni del Risorgimento del 1848.Orbán risponde da giorni confermando la sua vittoria – anche in caso di irregolarità nei conteggi, la cui ripetizione è stata chiesta da tutte le opposizioni, avrebbe comunque una invidiabile maggioranza assoluta – e proclamandosi massimo difensore dell’Europa cristiana dalla marea dei migranti e dalle idee liberali multiculturali. I dimostranti rispondono sforzandosi di mostrarsi allegri, e intonano anche l´Inno alla gioia di Beethoven, inno di una Ue cui chiedono di non lasciarli soli.

Il Sole 15.4.18
Forza e debolezza del sovranismo di Orban
di Sergio Fabbrini


Ciò che è avvenuto domenica scorsa in Ungheria (con il successo del partito della destra nazionalista Fidesz guidato dal primo ministro in carica Viktor Orban) va oltre i confini di quel Paese. Perché? Intanto, perché non è cosa da poco vincere per la terza volta consecutiva le elezioni, ottenendo il 48% dei voti che diventano (per il sistema elettorale adottato) più di 2/3 dei seggi parlamentari. Ma soprattutto perché quel successo è dovuto a una strategia sovranista innovativa. Per Orban, non si tratta di scegliere tra integrazione e disintegrazione, come sostenevano i leader nazionalisti britannici. I costi della secessione britannica hanno ridimensionato drasticamente quella scelta. Piuttosto, per Orban, si tratta di recuperare la sovranità nazionale senza uscire dall’integrazione sovranazionale.
Vale la pena di capire meglio il significato europeo della vittoria di Orban, per quindi individuarne i punti di debolezza.
Ci sono ragioni specifiche che hanno condotto al successo elettorale di Fidesz. Basti pensare al controllo governativo dei principali media del Paese, all’uso spregiudicato (da parte del partito di governo) di risorse pubbliche a fini elettorali, alla campagna ossessiva contro le minacce islamiche oppure contro i complotti di ricchi finanzieri ebrei o contro l’invadenza delle organizzazione non-governative straniere. Tuttavia, quel successo riflette un consenso più generale del Paese nei confronti della politica (definita dallo stesso Orban come «illiberale») condotta sin dal 2010. Una politica consistita nella celebrazione della sovranità nazionale così come è interpretata dal governo di Fidesz. Persino l’esistenza di un potere giudiziario indipendente è stato vista come una minaccia all’unità del Paese. Tant’è che Fidesz, in virtù della maggioranza qualificata che ha avuto in Parlamento, ha potuto legalmente modificare la formazione della stessa corte costituzionale (Magyarország Alkotmánybírósága), sottoponendola al controllo politico del governo. La corte è così diventata un’alleata di Orban nel difendere il principio della preminenza del diritto interno su quello europeo (principio che costituisce il cuore del sovranismo). Ad esempio, la corte (in una sentenza del dicembre 2016) sostenne la decisione del governo Orban di non applicare in Ungheria lo schema della rilocazione dei rifugiati così come stabilito da una decisione europea.
Il contrasto all’immigrazione è cruciale nella visione sovranista di Orban, al punto che Fidesz ha condotto una campagna elettorale esclusivamente su questo tema. Un tema che, seppure avesse scarse giustificazioni empiriche (nel 2016, l’ultimo anno per cui si dispongono dati ufficiali, gli stranieri in Ungheria erano 23.803, la metà dei quali provenienti da altri Paesi europei, su una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti), ha rafforzato la paura degli ungheresi di essere invasi da flussi migratori incontenibili. In nome della sovranità territoriale nazionale, Orban ha quindi denunciato le autorità europee per non fare abbastanza «per difendere l’Europa». Tale denuncia, però, è stata fatta in nome dell’Unione europea (Ue), non contro di essa. Fidesz è infatti una componente del principale partito europeista, lo European People’s Party, che aggrega tutti i partiti cristiano-democratici europei. A una riunione di questo partito, tenutasi il 30 marzo 2017 a Malta, Orban disse: «noi siamo grati a Dio per averci fatto ricongiungere con l’Europa e per averci fatto divenire membri dell’Unione europea». Opporsi all’Ue dall’interno del tradizionale partito europeista costituisce la carta vincente del sovranismo di Orban. Così vincente che Angela Merkel e Jean-Claude Juncker non hanno mai reagito alla sua politica illiberale. I 12 seggi che Fidesz ha nel Parlamento europeo sono infatti importanti per garantire la maggioranza che sostiene Juncker alla testa della Commissione europea. Si consideri invece il caso della Polonia, che pure persegue una politica altrettanto illiberale di quella ungherese. Poiché il partito al governo in Polonia (Legge e Giustizia o PiS) è membro, nel Parlamento europeo, di una coalizione poco significativa (Alliance of Conservatives and Reformists in Europe o Acre), il risultato è che per la Polonia la Commissione ha aperta la procedura d’infrazione per violazione dello stato di diritto, mentre non ha fatto ciò per l’Ungheria.
Insomma, Orban ha creato un modello politico che rivendica la preminenza degli interessi nazionali, su questioni ritenute cruciali, rispetto a quelli europei. Un modello che combina l’autoritarismo con il sovranismo. Un modello protetto dalla affiliazione di Fidesz al principale partito europeista. È probabile che altri partiti sovranisti seguiranno il modello di Orban, cercando di entrare nello European People’s Party oppure facendo di quest’ultimo il loro punto di riferimento. C’è già un dibattito in corso nel Partito della libertà austriaco (Freiheitliche Partei Österreichs o FPÖ) e persino nel centro-destra italiano (la Lega potrà difficilmente prenderne la leadership rimanendo nel partito lepenista di Europe of Nations and Freedom o Enf). Dopo tutto, la logica dello spitzenkandidaten spingerà i partiti europei verso aggregazioni sempre più grandi. Tuttavia il modello sovranista ha non pochi punti di debolezza. Innanzitutto, l’entrismo nello European People’s Party potrebbe produrre un effetto contrario a quello desiderato. Se la presenza, in quel partito, di sovranisti come Orban è accolta con calore dai cristiano sociali bavaresi (Csu) di Horst Seehofer, essa incontra un’accoglienza molto più fredda da parte dei cristiano democratici (Cdu) di Angela Merkel. L’entrata di altre forze sovraniste (come la Lega e Fratelli d’Italia) in quel partito potrebbe spingere le componenti tradizionalmente europeiste del mondo cristiano-democratico verso il nuovo raggruppamento europeista di Macron. Con l’esito di isolare di nuovo i sovranisti. In secondo luogo, la conciliazione della sovranità nazionale con la persistenza del mercato unico, come rivendicato da Orban, è altamente improbabile. Se le corti nazionali avessero il potere di nullificare una decisione europea, la conseguenza sarebbe la segmentazione (e quindi l’implosione) del mercato comune. Un esito che incontrerebbe poco consenso elettorale. In terzo luogo, la diffusione del sovranismo aumenterebbe le divisioni tra i Paesi europei, in particolare di fronte a sfide cruciali come quella della sicurezza. Come si è visto ieri nell’attacco a basi siriane, i sovranisti hanno sostenuto la Russia e non già l’Europa. Rientrare nella sfera d’influenza russa non sembra essere, però, una ricetta popolare. In conclusione, Orban ha creato un modello politico che ha un’indubbia capacità di attrazione. Tuttavia, quel modello è destinato a scontrarsi, prima o poi, con le conseguenze politiche del suo stesso successo elettorale.

Il Fatto 15.4.18
Goffredo Bettini. L’ex braccio destro di Veltroni dopo il rinvio dell’assemblea dei democratici: “Siamo immobili, un errore grave”
“Il Pd ha fallito e va rifatto: Renzi prenda la sua strada”
intervista di Paola Zanca


Anche se negli ultimi quarant’anni è stato consigliere comunale, regionale, deputato, senatore, coordinatore nazionale del Pd e oggi siede nell’Europarlamento, Goffredo Bettini è sempre stato un protagonista del dietro le quinte. Per i nemici è un burattinaio, per gli estimatori un maestro. Influente, di certo, lo è stato; e ancora oggi, offre al Pd una ricetta per rimettersi in piedi, sempre che qualcuno abbia voglia di starla a sentire.
Cos’ha sbagliato il Pd?
Da parte nostra non c’è stata nessuna analisi seria dei motivi del nostro fortissimo arretramento. Si è detto: c’è una crisi mondiale delle forze progressiste, Renzi ci ha salvato da un risultato che poteva anche essere peggiore. Io invece credo che siamo un partito condizionato dalla lotta tra correnti, che ha completamente perso l’empatia verso chi soffre.
Ha perso la stessa ragion d’essere della sinistra?
Per certi aspetti, sì. I modelli da imitare sono diventati i vincenti, ci siamo avvicinati alle élite della finanza, ci stanno simpatici i Marchionne e i Briatore. Ma la sinistra nasce dall’insopportabilità persino psichica dell’ingiustizia!
Colpa di Matteo Renzi?
Renzi ha fatto tutta la campagna elettorale sul binomio speranza contro rabbia: ma occorre accettare la rabbia, includerla, cercare di trasformarla in speranza. Altrimenti dipingi un mondo che non c’è e la gente che vive nel mondo che c’è, ti gira la spalle.
All’inizio lei lo stimava.
Ha levato una certa patina grigia che il Pd aveva accumulato. Ma subito dopo si è chiuso in una cerchia di fedelissimi e ha reso inutili tutte le sedi di confronto, occupando tutte le posizioni strategiche nel partito e nelle istituzioni. C’è chi, sbagliando, ha deciso di andarsene. E chi è rimasto ha fatto fatica a far sentire la propria voce.
Alla minoranza non è mancato anche il coraggio?
Andrea Orlando ha fatto una battaglia coraggiosa sui contenuti. Ma in un partito così asfissiante non c’è spazio di approfondimento reale, non c’è una comunità reattiva, sincera. C’è un imperatore e i suoi feudatari sul territorio.
Renzi si è dimesso, ma ancora l’altroieri ha ottenuto il rinvio dell’assemblea.
Un errore grave, che dà un ulteriore segno del nostro immobilismo politico. Il segretario che ha portato il partito a questi livelli di consenso vuole continuare a fare il dominus. Nel 2009 quando mi sono dimesso da coordinatore nazionale del partito, perché si era dimesso Veltroni, avevamo alle spalle un risultato del 34% (alle Politiche del 2008, ndr). Eppure, da quel momento in poi, noi ci siamo fatti da parte. Personalmente sono rimasto isolato e non ho fatto nessuna azione organizzata per interferire sul partito.
Veltroni promise di andare in Africa.
Non è partito perché la sua vita è tutta qui. Ma, in questi anni, ha sempre dato il suo contributo in positivo. Oggi prevalgono i conflitti e persino acerrime inimicizie.
Parla ancora di Renzi?
Dico che se vuole fare Macron, non ne farei un dramma. Ognuno per la sua strada. Poi al governo ci si potrebbero pure alleare, sempre meglio che con Forza Italia.
È il fallimento del Pd, così come lo avevate pensato?
Alla prova dei fatti, la spinta del partito democratico è durata fino alle dimissioni di Veltroni. Come con l’Ulivo, è finita presto.
E gli altri, i non renziani, che dovrebbero fare?
Il partito nella forma attuale va azzerato: va bene che resti Martina per questa fase di navigazione, in vista del congresso. Poi però deve cambiare tutto.
Si candiderà anche un suo “figlio” politico, Nicola Zingaretti, da molti considerato l’ultima carta per il Pd.
Io su Zingaretti ho difficoltà a esprimermi. È la persona a cui ho dedicato più tempo nel corso della mia vita, lo stimo molto. Ma mi sono accorto nel corso degli anni che sono pieno di ferite, perché mi sono sempre assunto le responsabilità mie e anche quelle degli altri e ho pagato dei prezzi. Avverto di essere ingombrante. Darò una mano a Zingaretti nella misura in cui mi sarà chiesta.
Basta un nome?
No. Ma conta poco persino il programma che annunci. Puoi dire le cose più di sinistra e prendere il 3%, l’esperienza di LeU insegna. Bisogna ripartire dalla base della piramide e con una nuova struttura. Immagino dei comitati misti in cui insieme ai nostri militanti, ci siano rappresentanti del mondo del lavoro, delle associazioni, della ricerca, della cultura, in quote proporzionali del 25% l’una. A loro dovremmo dire: ‘Discutete, indagate, proponete. Ma alla fine fate deliberare in nuovi luoghi di incontro, in vere e proprie agorà, le persone nell’esercizio della loro responsabilità individuale’. È un nuovo processo costituente. Dopo dieci mesi dovremmo dire: ecco, questo è il Pd.
Non lo hanno già fatto i Cinque Stelle questo lavoro?
No, loro sono totalmente un’altra cosa. Non li sottovaluto: hanno vinto le elezioni e hanno svolto una funzione politica importante. Ma lì siamo di fronte al massimo della concentrazione della volontà politica in pochissime mani e a una sorta di sondaggio in Rete, tra l’altro di dimensioni abbastanza modeste, che produce una democrazia della solitudine.
Quindi lei non crede che si possa dialogare con loro, fare un patto di legislatura?
Noi non possiamo condividere i ministri con loro né contrattare accordi. Ma l’immobilismo non è una posizione politica: se il presidente della Repubblica ce lo chiedesse, dovremmo dire che siamo disposti a far partire un loro governo, senza avere nulla in cambio, ma ponendo delle condizioni di merito utili per l’Italia, in particolare sui temi sociali. Metterli sulla graticola, questo dovremmo fare, lasciandoci liberi in Parlamento di giudicare provvedimento per provvedimento.

La Stampa 15.4.18
Nello Stato di Israele il popolo ebraico è tornato alla storia
A settant’anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza parla lo scrittore: “Con mia madre e mia sorella ero nel rifugio sotto casa, Gerusalemme era assediata”
di Elena Loewenthal


«Avevo dodici anni: con mia madre e mia sorella eravamo nel rifugio sotto casa, insieme con tanti altri profughi di Gerusalemme. La città era assediata dai giordani e dai palestinesi, non avevamo acqua, corrente elettrica, viveri. C’era tanta paura. Per sei settimane restammo isolati».
Così Abraham B. Yehoshua ricorda quel giorno di settant’anni fa in cui nacque lo Stato d’Israele: era il 14 maggio 1948 ma secondo il calendario ebraico l’anniversario cade quest’anno il 18 aprile, la bandiera del morente Impero britannico era appena calata dopo trent’anni di Mandato provvisorio sulla Palestina e Ben Gurion stava leggendo la Dichiarazione d’Indipendenza in una modesta sala di quello che era allora il Museo d’Arte di Tel Aviv, proprio davanti al punto di viale Rothschild in cui un tempo c’erano dune di sabbia e una mattina d’aprile del 1909 era stata fondata la città. Insieme all’indipendenza arrivò anche la guerra, Gerusalemme era assediata dagli eserciti arabi che non ne volevano sapere di quella risoluzione Onu che il 29 novembre 1947 aveva sancito la nascita di due Stati palestinesi: uno ebraico e uno arabo.
Nella numerologia biblica settanta è il tempo nella sua inafferrabilità: indica una durata indefinita. Così dice tra il resto la Dichiarazione d’Indipendenza: «In Eretz Israel è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l’eterno Libro dei Libri. Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica».
Yehoshua, che cosa hanno significato il sionismo e la nascita d’Israele, per gli ebrei della Diaspora e per chi, come la famiglia di suo padre, viveva in terra d’Israele da molte generazioni?
«Il sionismo è il nome della medicina per una malattia ebraica atavica e satura di rischi, una malattia che si chiama Galut, cioè esilio e dispersione al tempo stesso. Che non solo ha decimato il popolo ebraico - erano tre milioni nel primo secolo d.C. e un milione all’inizio del XVIII secolo - ma ha anche provocato tragiche persecuzioni il cui culmine sta nell’abisso più terribile mai attraversato da un popolo nella storia umana, la Shoah. In cinque anni un terzo degli ebrei d’Europa è stato sterminato non per motivi territoriali o religiosi, non in nome di un’ideologia o per il suo patrimonio. Pur non essendo mai stato una razza, il popolo ebraico è stato sterminato per via di una aberrante teoria razziale.
«Perciò il sionismo è fondamentalmente una ricerca volta a normalizzare l’esistenza ebraica e trasformare gli ebrei in un popolo come gli altri, padrone di sé e del proprio destino in un territorio con dei confini chiari. È naturale che l’unica terapia per la malattia della Galut sia la patria atavica del popolo ebraico, là dove esso era stato sovrano di sé per più di 15 secoli. Theodor Herzl, giornalista viennese di 36 anni, aveva compreso l’urgente bisogno di normalizzazione del popolo ebraico, o quanto meno di una sua parte, e con scarsi mezzi e ben poco tempo (è morto a soli 44 anni) è riuscito a innescare la scintilla della rivoluzione sionista, perciò è ora considerato il padre della nuova nazione israeliana».
Theodor Herzl stesso ha detto che, al di là dei suoi obiettivi concreti, il sionismo deve essere un «ideale infinito»: che cosa significa? Si può dire che malgrado abbia raggiunto il proprio obiettivo, quello cioè di ridare una patria agli ebrei dispersi per il mondo, il sionismo sia ancora valido, vivo - e necessario?
«Il sionismo non è una ideologia bensì una piattaforma comune per ideologie diverse e persino contraddittorie. Socialismo, religione, liberalismo borghese, nazionalismo estremista e tanto altro ancora. Le divergenze politiche non sono dissimili da quelle cui si assiste in ogni paese: riguardano questioni economiche, i confini fisici, la sicurezza nazionale, i rapporti con la minoranza palestinese e tanto altro. L’unico comune denominatore che dà a tutto ciò la natura di “sionismo” è la Legge del Ritorno, vale a dire che ogni ebreo del mondo ha diritto alla cittadinanza dello Stato d’Israele perché questo era anche l’intento della risoluzione Onu del 1947, che prevedeva la spartizione di Terra d’Israele e Palestina tra i due popoli. Lo Stato ebraico deve rappresentare la soluzione per l’ebreo perseguitato ovunque si trovi nel mondo, e permettergli di trovare rifugio qui».
Lei ha attraversato tutta la storia di questo Paese da quel giorno del 1948 a oggi. Ha vissuto quotidianamente nel farsi di questa storia. E non è certo stata una storia noiosa, monotona. Che cosa cambierebbe di questi settant’anni, se avesse la possibilità di cambiare il corso del passato?
«La cosa più grave e superflua che lo Stato d’Israele ha fatto dopo la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, è stata la creazione degli insediamenti nel territorio palestinese della West Bank, unitamente all’annessione di Gerusalemme Est. Se così non fosse stato, si sarebbe potuto creare uno Stato palestinese accanto allo Stato d’Israele e stabilire tra essi rapporti pacifici, come è avvenuto con Egitto e Giordania. È stato un errore fatale che finirà col portare a uno Stato binazionale in terra d’Israele, con tutti i gravi problemi che questa entità politica comporterà».
Israele è un Paese «bipolare»: nasce su radici millenarie, bibliche, in nome di una spinta profondamente moderna. Contiene in sé Gerusalemme, che nella tradizione ebraica è non solo il centro del mondo ma anche il punto fisico da cui è cominciata la creazione, e Tel Aviv che è la città senza passato, tutto protesa al futuro. In questi settant’anni Israele ha riportato l’ebreo alla sua terra, anche e forse soprattutto fisicamente, nel lavoro dei campi, nel sogno di far fiorire il deserto, ed è diventato la Start Up Nation, dove s’inventa il futuro. Come si vive in questa sorta di vertigine temporale?
«Il popolo ebraico ha costruito la consapevolezza del proprio passato sui miti, non su una base storica vera e propria. Dato che era disperso tra molte e diverse nazioni, ed era in contatto con culture diverse e lingue diverse, la memoria nazionale si è fondata soprattutto su una memoria religiosa, che per sua natura è mitologica, non storica. Per questa ragione, tornando alla sua terra storica, il popolo ebraico è tornato alla storia, come ha detto il grande studioso di pensiero ebraico, il professor Gershom Scholem. Il mito non è possibile cambiarlo, solo commentarlo, dispiegarlo. Mentre la storia la si può apprendere, se ne possono correggere gli errori e la si può rendere migliore, per rendere migliore la vita. Questo è il fondamento di un certo ottimismo che si respira oggi in Israele, malgrado tutti i problemi. Forse è proprio questo ottimismo a costituire il ponte tra il nostro passato - mitico e tragico - e il futuro che si costruisce qui giorno per giorno».

Corriere La Lettura 15.4.18
Nel 1282 la repubblica mercantile della Serenissima creò una struttra pubblica che emetteva moneta
Così Venezia inventò la Banca centrale
di Stefano Ugolini

Tra le varie componenti della complessa macchina dello Stato moderno, le banche centrali sono forse l’ingranaggio più oscuro e controverso. I sempre più frequenti attacchi lanciati dai politici all’indirizzo dei banchieri centrali sono prova, oltre che di una larga incomprensione, anche di una certa insofferenza verso la formale indipendenza dei secondi dai primi. Da circa una trentina d’anni il principio della separazione fra autorità fiscali (il Tesoro) e autorità monetarie (la banca centrale) è stato integrato nella «costituzione materiale» di quasi tutti i Paesi occidentali quale soluzione al problema della tentazione inflazionista della politica: obbligati a proiettare la propria azione su un orizzonte temporale troppo corto, i politici avrebbero infatti un’inevitabile tendenza a finanziare la spesa pubblica (assai popolare nell’immediato) attraverso un ricorso immoderato all’emissione monetaria (il cui impopolare effetto, l’inflazione, si materializza con un certo ritardo).
In società caratterizzate da cicli politici troppo corti, il divorzio fra autorità fiscali e autorità monetarie permetterebbe dunque di attuare l’emissione monetaria compatibilmente con un obiettivo di più lungo periodo quale la difesa della stabilità dei prezzi.
La «separazione dei poteri» fra il Tesoro e una banca centrale pubblica ma indipendente non è una soluzione ottimale in assoluto, ma solo l’ultima di una lunga serie di formule sperimentate nel corso dei secoli per trovare un equilibrio fra due obiettivi contraddittori: potenziare le finanze pubbliche attraverso il ricorso all’emissione monetaria e preservare l’«attrattività» della moneta agli occhi dei suoi potenziali detentori. Poiché la forza di qualsivoglia entità statuale è sempre stata direttamente proporzionale alla sua capacità di mobilitare delle risorse, tale problema si è costantemente posto fin dagli albori della storia.
Il mondo antico
Le civiltà agricole dell’antico Egitto e della Mesopotamia erano strutturate attorno a organizzazioni polivalenti che permettevano una gestione centralizzata della vita politica, sociale ed economica. Fra le loro varie funzioni (regge, caserme, templi, tribunali, granai...), queste esercitavano anche il ruolo di banche: i loro fornitori (tipicamente, gli aristocratici che versavano i raccolti delle loro terre nei granai pubblici) se ne vedevano accreditato su un conto corrente il valore corrispondente, che poteva in seguito essere trasferito a persone terze. Queste (sorprendentemente moderne) pratiche di emissione monetaria apparvero molti secoli prima dell’invenzione della moneta metallica, ideata dalle bellicose popolazioni dell’antica Grecia per remunerare i mercenari stranieri a cui facevano spesso ricorso. Adottata dai Romani all’epoca della conquista del Mediterraneo, la coniazione di moneta metallica rimase l’unica forma di emissione monetaria allorché la caduta dell’Impero piombò l’Europa nell’anarchia.
Le città-Stato medievali
Forme di emissione monetaria alternative alla moneta metallica riemersero nel tardo Medioevo. Furono le cosiddette «repubbliche mercantili» (città-Stato governate da oligarchie di uomini d’affari) a creare i primi prototipi di banche centrali. Come le monolitiche società della «Mezzaluna Fertile», anche queste città non adottarono però il principio della «separazione dei poteri» fra autorità monetarie e fiscali. Tale separazione sarebbe infatti stata ridondante nell’assetto costituzionale di queste repubbliche: i creditori dello Stato (coloro che utilizzavano la moneta emessa) erano soprattutto i grandi capitalisti locali, cioè esattamente coloro che avrebbero deciso come le risorse prese in prestito sarebbero state impiegate. Il rischio di una perpetua deriva inflazionista era dunque minimo: i creditori sapevano che il governo avrebbe emesso moneta esclusivamente al fine di difendere i loro superiori interessi, e che eventuali periodi di sovraindebitamento e inflazione (tipicamente dovuti a conflitti militari) sarebbero stati inevitabilmente seguiti da periodi di austerità e deflazione.
Le banche di Rialto
Fra le «repubbliche mercantili» dell’Europa medievale, il caso più esemplare fu quello di Venezia. Come le antiche civiltà mediorientali, fu attorno all’ufficio preposto al vettovagliamento della città (la Camera del Frumento) che Venezia creò nel 1282 la sua prima Banca di Stato. L’esperimento durò fino al 1365, quando la Serenissima «esternalizzò» l’emissione monetaria al mercato: dopo aver conferito potere liberatorio alla moneta emessa dalle banche private, lo Stato cominciò a rifinanziarsi attraverso queste ultime. Oltre due secoli di crisi e di salvataggi bancari mostrarono i limiti della scelta compiuta, e nel 1587 la Repubblica fu costretta a «re-internalizzare» l’emissione di moneta con la fondazione di una nuova banca di Stato (il Banco della Piazza di Rialto, sostituito in seguito dal Banco del Giro). Questa soluzione garantì una relativa stabilità monetaria alla Serenissima fino alla sua caduta, e fu imitata dalle altre principali piazze finanziarie dell’epoca (Amsterdam e Amburgo), che crearono a loro volta (nel 1609 e 1619 rispettivamente) delle banche pubbliche sul modello veneziano.
A Genova
Fra le «repubbliche mercantili», Genova fu l’eccezione che conferma la regola, caratterizzandosi per una straordinaria litigiosità dei suoi oligarchi che impedì il raggiungimento di uno stabile equilibrio costituzionale. Per ristabilire la credibilità del suo debito pubblico, lo Stato dovette «esternalizzarne» la gestione a una compagnia privata formata dai suoi creditori (la Casa di San Giorgio, fondata nel 1407 e scomparsa insieme alla Repubblica).
Neanche questa soluzione fu però improntata al principio della «separazione dei poteri»: Genova privatizzò infatti non soltanto le sue competenze monetarie, ma anche parte di quelle fiscali, votandosi di fatto a un’austerità permanente e a un ruolo geopolitico di secondo piano.
Le monarchie territoriali moderne
Negli Stati territoriali dell’età moderna, i creditori dello Stato non avevano alcun controllo sulla spesa pubblica, decisa da sovrani più o meno assoluti in funzione di interessi non necessariamente coincidenti con i loro.
Contrariamente alle «repubbliche mercantili», nelle monarchie territoriali una deriva inflazionista perpetua era dunque un rischio concreto. Fu proprio per vincere la naturale diffidenza dei creditori che questi Stati cominciarono dunque a ricorrere al principio della «separazione dei poteri», affidando l’emissione monetaria a un’istituzione formalmente indipendente dal monarca. Nel Regno di Napoli, essa fu affidata a un certo numero di organizzazioni «no-profit» come il Monte di Pietà (1539); in Svezia, a una banca controllata dal Parlamento (allora organo di rappresentanza dei creditori), la Riksbank (1668); in Austria, a una banca controllata dal governo municipale di Vienna (cioè dai grandi mercanti della capitale), il Wiener Stadtbanco (1705). In Inghilterra, invece, l’emissione monetaria fu «esternalizzata» a una compagnia privata formata dai creditori della nuova dinastia, la Banca d’Inghilterra (1694).
Tutte queste soluzioni si rivelarono relativamente efficaci, finché non furono messe a dura prova dal finanziamento delle lunghe guerre napoleoniche.
Le democrazie contemporanee
Quasi tutte le attuali banche centrali europee furono fondate nel corso dell’Ottocento come compagnie private, sul modello della Banca d’Inghilterra. Ma l’industrializzazione estese progressivamente l’uso della moneta fino alle classi più umili, allargando il gruppo dei creditori dello Stato da una piccola élite altoborghese a una vasta fetta della società. In questo nuovo equilibrio, i privilegi delle banche centrali private divennero sempre meno giustificabili, e la maggior parte di esse vennero dunque nazionalizzate nella prima metà del Novecento. La completa «re-internalizzazione» dell’emissione monetaria da parte dello Stato durò fino agli anni Ottanta, quando le grandi inflazioni seguite allo choc petrolifero resero il principio della «separazione dei poteri» nuovamente popolare. In Europa, l’indipendenza della banca centrale fu dapprima reintrodotta su scala nazionale e poi incapsulata nel Trattato di Maastricht (1992) che disegnò la Banca centrale europea.
La lunga storia dell’emissione monetaria dimostra dunque come il principio della «separazione dei poteri» non sia una legge economica universale, ma piuttosto una soluzione contingente, storicamente situata in un assetto costituzionale ben preciso. In realtà politica fiscale e politica monetaria non sono affatto separabili, essendo nient’altro che le due facce della stessa medaglia. Ciononostante, la formale indipendenza della banca centrale dal Tesoro ha effettivamente permesso di sottrarre la prima al «cortotermismo» di cui il secondo è inevitabilmente vittima. E dovrebbe continuare a permetterlo in futuro, perlomeno fino a quando gli equilibri costituzionali odierni non saranno compromessi.

Corriere La Lettura 15.4.18
Crociate senza pregiudizi
Non furono imprese barbare nè civilizzatrici
Tramontarono perché i cristiani erano divisi
di Paolo Grillo


Verso il 1910 un giovane archeologo inglese, Thomas Edward Lawrence, si mise a esaminare quanto restava dei castelli crociati del Medio Oriente. La sua ricerca voleva rispondere, con osservazioni di prima mano, a una domanda allora (e oggi) molto in voga, ossia se le fortificazioni latine nell’area fossero frutto di un’elaborazione autonoma o derivassero da quelle bizantine, a loro volta eredi della tradizione romana classica. Colpisce, leggendo lo studio I castelli dei crociati , ora riproposto da Castelvecchi, che scarsa o nulla sia l’attenzione dedicata dal futuro ufficiale e scrittore Lawrence d’Arabia ai possibili influssi dell’architettura araba e persiana. Ma non bisogna stupirsene, dato che all’epoca la lettura più comune delle Crociate era ancora retorica e di parte, con una schematica divisione fra i «buoni» europei e cristiani e i «cattivi» levantini e islamici.
Con il passare degli anni questa immagine è stata sostituita da un’altra, speculare e altrettanto falsa, ma oggi molto diffusa, che raffigura i crociati come un gruppo di guerrieri violenti, fanatici e assetati di sangue. Non si spiega, ovviamente, come questi bruti siano riusciti a costruire degli Stati in Terrasanta destinati a sopravvivere per quasi due secoli (sei volte più a lungo, per intenderci, di quanto sulle stesse terre siano riusciti a restare i colonizzatori britannici e francesi nel Novecento) e a entrare da protagonisti nelle complesse trame diplomatiche mediorientali (anche il mito di un islam compatto e contrapposto ai crociati va ridiscusso, dato che già all’epoca i musulmani in Medio Oriente erano divisi fra turchi e arabi e fra sciiti e sunniti non meno di quanto i loro avversari erano distinti fra latini e greci, cattolici e ortodossi).
Campagne ben pianificate
Gli studi più recenti sembrano per fortuna aver messo da parte i preconcetti, positivi o negativi che fossero. Hanno inoltre superato la semplice ricostruzione politico-militare o ideologica delle Crociate, per prendere invece in considerazione aspetti meno noti, come la pianificazione, l’organizzazione, il finanziamento e la propaganda delle spedizioni. Proprio a questi temi ha dedicato un denso volume lo storico britannico di Oxford Christopher Tyerman, che con una scrittura a un tempo documentata e brillante, pur poco valorizzata da una traduzione approssimativa, ci spiega Come organizzare una crociata (Utet) invitandoci a superare l’idea che quelle spedizioni nascessero da moti spontanei di masse di fedeli fanatizzati. Si trattava invece di campagne razionalmente pianificate e dirette con mano salda dai prìncipi dell’epoca o dai papi.
Tale cura si manifestò sin dagli inizi. Fra l’appello alla Crociata pronunciato nel 1095 da Papa Urbano II a Clermont, in Francia, e l’effettiva partenza della spedizione passò oltre un anno. In questo periodo non solo si radunarono le truppe, ma si raccolsero informazioni da mercanti e pellegrini, si accumularono denaro e provviste, si conclusero accordi con i sovrani cristiani dell’Europa orientale e con l’Impero bizantino per avere aiuti e rifornimenti. Tutto questo ebbe un’importanza decisiva nel determinare l’inaspettato successo della campagna che portò, come è noto, alla conquista di Gerusalemme nel luglio del 1099.
La Seconda Crociata (1145-1149) fu un fallimento strategico, per la mancanza di obiettivi chiari, tattico, vista l’incapacità dimostrata dai cavalieri francesi e imperiali nell’affrontare i mobili arcieri turchi, e logistico, dato che il denaro raccolto si dimostrò insufficiente e una parte delle truppe si sbandò durante le marcia. La lezione fu però imparata in occasione della Terza (1189-92), volta a recuperare la Terrasanta, che nel 1187 era stata quasi totalmente occupata dalle forze siro-egiziane del Saladino. Il re di Francia Filippo Augusto e, soprattutto, quello di Inghilterra Riccardo Cuor di Leone pianificarono con cura il finanziamento della spedizione, la mobilitazione delle truppe e il viaggio, in modo da arrivare insieme in Palestina, uno da terra e l’altro dal mare. I crociati non furono in grado di prendere Gerusalemme, ma riuscirono a liberare quasi tutte le città costiere e diverse fortezze nell’entroterra, garantendo un altro secolo di vita agli Stati latini in Medio Oriente.
Culmine e declino
Il momento migliore per il movimento crociato si ebbe nella prima metà del Duecento, quando la capacità di predicazione degli ordini mendicanti, le nuove procedure di registrazione contabile affermatesi nell’amministrazione e il crescente potenziale economico dell’Europa permisero l’elaborazione di ulteriori, ambiziose spedizioni sotto la guida dei Pontefici. Di fronte allo stallo militare sancito dalla Terza Crociata, che vedeva i musulmani incapaci di conquistare le città costiere e i cristiani in difficoltà nell’avanzare verso l’interno, furono sperimentate nuove strade. Nel 1204, la Quarta Crociata non raggiunse la Terrasanta, ma si impadronì di Costantinopoli. Nel 1217-21, la Quinta riuscì a occupare per cinque anni la costa egiziana e solo per mancanza di elasticità diplomatica i suoi capi non accettarono la restituzione di Gerusalemme in cambio del ritiro delle truppe. Più tardi, nel 1228-29, l’imperatore Federico II di Svevia approfittò di una favorevole congiuntura politica per ottenere pacificamente l’accesso a una Gerusalemme dichiarata città aperta.
L’apogeo di questa stagione fu la crociata condotta dal re di Francia Luigi IX «il Santo» contro l’Egitto, che vide la mobilitazione di colossali mezzi finanziari, un’accurata pianificazione che giunse a prevedere la fondazione di un nuovo porto mediterraneo (Aigues Mortes) come base logistica, lo sbarco di un esercito altamente professionale e motivato, guidato dal suo sovrano in persona. Proprio per questo, però, agli occhi dei contemporanei risultò ancora più drammatico l’esito finale della campagna, che dopo alcuni successi iniziali vide le forze di Luigi annientate nella battaglia di Mansura (1250) e la caduta dello stesso sovrano in mani islamiche. Alle residue speranze dei latini diede il colpo di grazia l’ancor più disastrosa spedizione condotta da Luigi IX contro Tunisi nell’estate del 1270. Una guerra incomprensibile, contro uno Stato amico degli occidentali, e terminata nell’umiliazione della morte per dissenteria del re e di gran parte dei suoi uomini ancor prima che potessero dare battaglia al nemico.
A questo punto, l’opinione pubblica occidentale era ormai diventata scettica nei confronti delle Crociate. Troppe erano state le sconfitte, troppe le malversazioni compiute da chi doveva raccogliere i fondi e, soprattutto, troppe le deviazioni dall’idea originaria.
Dagli inizi del Duecento, infatti, i pontefici avevano assunto il controllo di queste spedizioni, indirizzandole anche contro obiettivi ben lontani dalla Terrasanta, come la Linguadoca degli eretici catari, le tribù pagane delle coste baltiche o talvolta i loro stessi avversari politici cattolici. Le crociate «interne» spesso ottenevano più appoggio e attenzione di quelle contro gli infedeli. Così, ad esempio, per circa tre anni, fra il 1264 e il 1266, tutte le energie del papato erano state dedicate a propagandare una crociata contro «il sultano di Lucera», ossia Manfredi di Svevia, figlio di Federico II e re di Sicilia. Nel 1297, mentre tutti si aspettavano che Bonifacio VIII organizzasse una spedizione oltremare per riconquistare la Terrasanta — il cui ultimo brandello cristiano, Acri, era caduto nelle mani dei mamelucchi egiziani sei anni prima — il Papa bandì invece una «crociata» contro i suoi rivali romani, capeggiati dalla famiglia Colonna. In questa nuova e disincantata stagione ci accompagna il libro di Antonio Musarra su Il crepuscolo della Crociata (il Mulino).
Il patto (mancato) con i mongoli
Nei decenni centrali del Duecento, inoltre, il quadro politico mediorientale era cambiato profondamente. In Egitto, anche in reazione ai ripetuti attacchi crociati, avevano preso il potere i mamelucchi, efficienti militari di professione di origine turca, mentre la Persia e l’attuale Iraq erano stati invasi dai mongoli, che vi avevano costituito un proprio Stato, noto come Il-Khanato. Gli egiziani a loro volta avevano conquistato anche la Siria e costituito un sultanato ideologicamente avverso alla presenza cristiana in Terrasanta, anche se disponibile a condurre lucrosi affari con i mercanti italiani. I mongoli, invece, erano interessati all’amicizia con i regni latini, al fine di aggredire su due fronti l’ostile potenza mamelucca. Nonostante le grandi distanze geografiche e culturali i contatti furono ripetuti e intensi: per oltre mezzo secolo si ripropose periodicamente il sogno di una grande alleanza cristiano-mongola destinata a dividersi il Medio Oriente a spese degli arabi e dei turchi. Il progetto però non si realizzò a causa dei conflitti che dilaniavano l’Occidente e delle difficoltà di successione ai vertici dell’Il-Khanato.
La «razionalità» messa in evidenza nel saggio di Tyerman raggiunse proprio in quest’epoca il suo apice. La trattatistica «scientifica» su come organizzare spedizioni militari per riconquistare la Terrasanta divenne allora un vero genere letterario che vide impegnati frati, filosofi, medici, politici e persino alcuni re. Sono testi di grande interesse, che analizzano le variabili politiche (le auspicate alleanze con i mongoli in funzione anti-islamica), economiche (possibilità e conseguenze di un blocco navale contro l’Egitto) nonché logistiche e militari delle progettate spedizioni, anche se non sempre con effettivo realismo.
Meglio il giubileo
La «razionalità», però, agiva anche in un altro senso. Sullo scorcio del Duecento sembra essersi perso il grande afflato ideologico e religioso che fra XI e XII secolo aveva saputo fondersi in maniera indolore con gli egoismi particolari. Ora questi ultimi prevalevano nettamente e finivano col paralizzare ogni iniziativa. Angioini e aragonesi vedevano una possibile crociata come strumento per affermare la propria supremazia nel Mediterraneo. Genovesi e veneziani erano maggiormente interessati a contendersi le grandi rotte commerciali: quella con Costantinopoli e il Mar Nero, controllata dai primi, e quella con Alessandria e il Mar Rosso, dove agivano i secondi. Gli stessi ordini cavallereschi monastico-militari — Templari, Ospitalieri e Teutonici — erano in perenne competizione fra loro e non riuscivano a coordinare le proprie azioni militari.
A partire dal XIV secolo le Crociate non scomparvero, ma non privilegiarono più come obiettivo la Terrasanta e Gerusalemme. D’altronde, il grande giubileo indetto da Papa Bonifacio VIII nell’anno 1300 assicurava a chi si recava in pellegrinaggio a Roma gli stessi benefici spirituali che spettavano a chi prendeva la croce per opporsi gli infedeli. Gerusalemme era ormai irrimediabilmente perduta, ma Roma rappresentava una valida alternativa: l’Occidente bastava a sé stesso, anche sulla via della salvezza.

Corriere La Lettura 15.4.18
Fu pellegrinaggio anche se armato Non chiamatela guerra santa
di Franco Cardini


«Le Crociate furono più di sette», afferma Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò . Altroché: nate nell’XI secolo quando ancora non si chiamavano così (c’erano i cruce signati , i «crociati»: ma la parola «crociata» sarebbe stata impiegata più tardi), continuarono fino al Settecento, per quanto allora non si denominassero più in quel modo. Avviate per rivendicare alla cristianità occidentale il possesso di Gerusalemme, nel XIV-XV secolo si trasformarono in campagne tese a contenere l’espansionismo turco.
La Crociata è una realtà proteiforme che attraversa la storia dell’Occidente e che qua e là sembra ricomparire, soggetta ad equivoci revival. È sequenza d’imprese militari, movimento, idea-forza religioso-politica, istituzione giuridica e addirittura finanziaria, sentimento, mito. Ma una cosa non è: guerra santa. Molte imprese crociate sono state definite così, ma solo in senso retorico: nessun giurista, canonista o teologo ha mai sostenuto che nella realtà cristiana — la quale pur conosce la teoria agostiniana dello iustum bellum , la «guerra giuridicamente legittima» (non semplicemente «giusta») — esistano conflitti in grado di santificare individualmente chi li combatte. Giacché la «santità» è qualifica individuale, che spetta solo a chi eserciti in grado eroico le virtù cristiane. Ci si può santificare anche in guerra: ma non esiste guerra «santa» in sé e per sé.
Qual è allora la connotazione caratteristica delle Crociate? Nell’XI secolo, allorché assumono i nomi originari di itinera jerosolymitana (più tardi saranno definite passagia ; il termine cruciata , spurio, apparirà nel Duecento), esse hanno un carattere preciso, che la letteratura epica e le cronache definiscono come rivendicazione del possesso cristiano dei Luoghi Santi conseguito attraverso la disposizione al martirio. Così si esprimono anche i primi documenti canonici, le prime bolle papali e le versioni cronistiche più o meno coeve che ci testimoniano indirettamente la celebre allocuzione di Urbano II a Clermont in Alvernia, nel novembre 1095, diretta ad alcuni milites («cavalieri») e mirante a convincerli a dirigersi verso l’Oriente, dove l’imperatore di Bisanzio reclutava mercenari da opporre ai musulmani.
Dietro ai cavalieri si mossero pellegrini originariamente inermi: ma durante il viaggio, iniziato nel 1096, la spedizione mutò carattere fino a giungere alla conquista di Gerusalemme. Presa la Città Santa, bisognava difenderla. Il voto di pellegrinaggio divenne quello dell’assunzione del distintivo che lo qualificava, una croce di stoffa. Le fonti liturgiche descrivono ciò che anche le cronache registrano: fino alle due Crociate di Luigi IX, il santo re di Francia, nel 1248 e nel 1270, l’assunzione della croce è un rito di pellegrinaggio. Insieme alla croce, si consegnano a colui che parte le insegne del bastone e della piccola sacca detta scarsella. La crociata è un pellegrinaggio armato, in deroga agli antichi canoni, per cui il pellegrino doveva essere un penitente inerme. La necessitas arma la mano di viaggiatori che dovranno anche combattere, ma per tutto il resto hanno doveri, diritti e privilegi analoghi a quelli degli altri pellegrini. Il rito venne abbandonato verso la fine del Medioevo, anche perché ormai Gerusalemme non era più l’obiettivo primario di chi andava a combattere gli infedeli. Ma ne restarono vistose tracce, specie nella tradizione degli ordini religioso-cavallereschi.

Corriere La Lettura 15.4.18
Teologia Come emanciparsi dalla natura intoccabile e divina del Corano
La via stretta per un islam moderno
di Alessandro Vanoli


Sono molti gli studiosi musulmani che, di fronte alle sfide della modernità, si sono confrontati con la loro tradizione alla ricerca di nuove letture. Una storia complessa, fatta talvolta di violente contrapposizioni col potere. Tra le voci più recenti, quelle del marocchino Abdou Filali-Ansary e dell’egiziano Nasr Hamid Abu Zayd, i cui studi sul Corano gli hanno valso un’accusa di apostasia e l’esilio in Olanda.
Questi autori hanno affrontato problemi non facili: la laicizzazione, il rapporto tra islam e storia; la necessità di superare posizioni appiattite su un passato idealizzato. Sul nodo delicatissimo del confronto con il testo coranico, si sono chiesti se e quanto per un musulmano sia possibile affrontarne la lettura guardandolo nella sua storicità. Per dire, cioè, che se la religione è sacra e celeste, la comprensione della religione deve essere umana e terrena, in costante dinamismo. Questi argomenti hanno spesso trovato il loro banco di prova nella discussione su islam e politica. In anni passati cercando di coniugare tendenze socialiste col dettato islamico; oggi cercando di trovare risposte contro la violenza.
Il libro di Hamed Abdel-Samad si colloca in questo solco. Egiziano, figlio di un imam, un passato di vicinanza ai Fratelli musulmani. Oggi colpito da minacce di morte e noto per la sua opera di politologo all’Università di Monaco. Il titolo è eloquente e molto forte: Il Corano. Messaggio d’amore messaggio d’odio (Garzanti) . Il punto di partenza chiarisce sin da subito il suo pensiero: «Il Corano — dice l’autore — si occupa di temi e problemi rilevanti per le persone del VII secolo. La soluzione per un credente, quindi, non consiste nel dare al Corano un’interpretazione moderna, bensì nell’emanciparsi dalla supposta intoccabile natura divina del Libro». Da tale assunto una rilettura di alcuni grandi temi che attraversano i dibattiti del mondo islamico attuale: la vita, la tolleranza, la guerra, la donna e l’omosessualità. La questione è complessa e problematica: una via forse stretta ma significativa dei tanti fermenti che continuano ad attraversare il mondo islamico.

Repubblica 15.4.18
Il teorema dei Weil André è uno dei più grandi matematici del Novecento. Sua sorella, Simone, la filosofa partigiana. Nel 1940, lui inizia a scriverle dal carcere lettere speciali, piene di numeri.
Ma ancora straordinarie da leggere
di Paolo Zellini


TITOLO: L’ARTE DELLA MATEMATICA
AUTORI: SIMONE WEIL, ANDRÉ WEIL
EDITORE: ADELPHI
PREZZO: 14 EURO PAGINE: 185
TRADUTTRICE: MARIA CONCETTA SALA

“Non vi è nulla di più fecondo di quei palpeggiamenti un poco adulteri”, di quei “torbidi e deliziosi riflessi”, di quelle “carezze furtive, di quegli screzi inesplicabili” coi quali la ricerca procede tentativamente prima della formazione di una sola e maestosa Teoria. “Il piacere deriva dall’illusione e dal turbamento dei sensi; dissolta l’illusione, ottenuta la conoscenza, si raggiunge al tempo stesso l’indifferenza”.
Quasi si stenta a credere che a scrivere queste righe, al margine di un lungo discorso su come agisce il principio dell’analogia nell’elaborazione di nuove teorie, fosse André Weil, uno dei grandi matematici del Novecento, membro fondatore di Bourbaki, il celebre gruppo di giovani ricercatori francesi destinato fin dagli anni Trenta a esercitare una grande influenza nel modo scientifico.
Quelle parole risalgono al marzo 1940, quando André scriveva all’amatissima sorella Simone dal carcere civile di Le Havre, dove era detenuto per renitenza alla leva, perché riteneva suo dovere “fare il matematico e non la guerra”. Le lettere tra André e Simone sono ora raccolte ne L’arte della matematica, appena pubblicato da Adelphi a cura di Maria Concetta Sala.
Un volume prezioso non solo per la straordinaria qualità dei due interlocutori, ma anche perché proprio il registro confidenziale del carteggio favoriva una rara libertà di espressione e di pensiero. Le ipotesi più azzardate e disinvolte si mescolano alle lunghe e tumultuose digressioni tecniche di André sulle congruenze numeriche e sulle sorprendenti analogie tra numeri e funzioni. Lo stesso fratello matematico si rende conto di aver parlato “in ostrogoto” alla sorella, consapevole che di quelle cose Simone non avrebbe potuto capire nulla. Ma il fascino di questo dialogo epistolare sta proprio nella diversità di percorso che si manifesta tra fratello e sorella, nella distanza paragonata all’affinità, nell’obiettivo distacco tra il formalismo matematico, lontano dal mondo e familiare ad André e il significato simbolico e religioso della matematica greca esplorato da Simone. Questo distacco si legge pure nel larvato rimprovero che Simone rivolge al fratello, invitandolo a riflettere bene sulla sua riluttanza a dare chiarimenti sul significato delle sue ricerche.
La moderna teoria dei gruppi e la teoria degli insiemi, azzarda Simone, potrebbero far sperare di rendere intelligibile e percepibile l’unità tra l’universo e la mente umana, e di far apparire il mondo come “la città di tutti gli esseri dotati di ragione”, un’aspirazione evidentemente assai lontana dalle preoccupazioni formaliste dei bourbakisti. Per Simone era soprattutto l’anima algebrica della matematica, estranea alla civiltà greca e prossima invece a quella babilonese e poi moderna, a impedire quell’unità e quella sintesi conoscitiva.
Nello scambio epistolare emergono congetture ardite e suggestive, che investono tutta la varietà di forme di pensiero nelle civiltà antiche. Per Simone, la geometria greca si fondava soprattutto sull’idea di proporzione.
Ma era essenziale il fatto che si trattasse di proporzione tra grandezze della geometria, come linee e superfici, e non tra i numeri degli algoritmi babilonesi. Senza il passaggio dal calcolo babilonese alla geometria greca, non sarebbe mai avvenuta la scoperta che esistono grandezze incommensurabili.
Su questo punto cruciale, sul significato della scoperta degli incommensurabili, Simone e André avevano idee decisamente contrastanti.
Quella scoperta, per André, avrebbe decretato la rovina del pitagorismo, dell’idea per cui ogni cosa è esprimibile attraverso il numero. Per Simone, invece, la scoperta non fu “affatto una sconfitta per i pitagorici, come ingenuamente si crede, bensì il loro più meraviglioso trionfo”.
Di un dramma si sarebbe in ogni caso trattato, anche perché le tecniche con cui si poteva dimostrare che certi numeri (reali) non sono uguali a rapporti tra interi, potevano minacciare – sostiene Simone – la stessa nozione di verità. Si dimostra che, se la radice quadrata di 2 fosse uguale al rapporto tra due numeri interi, uno stesso numero dovrebbe essere sia pari sia dispari. Una conclusione paradossale, se pur non così assurda per un matematico sufficientemente iniziato agli enigmi della sua disciplina, che poteva contribuire a far nascere l’idea che si possono dimostrare ugualmente bene due tesi contraddittorie. Un argomento, virtualmente utile a certa sofistica, che avrebbe contribuito a diffondere un sapere di qualità inferiore.
André sembra però accogliere alcune idee di Simone sul significato religioso del concetto greco di proporzione. La proporzione e il rapporto, egli nota, sono ciò che si può nominare e la scoperta degli incommensurabili dimostra che esiste una parola che non si può pronunciare, un logos che non è logos. La teoria greca della proporzione suggerirebbe allora che agli inizi del pensiero greco si sia avuto un “sentimento della sproporzione” tra il pensiero e il mondo, tra l’uomo e Dio, una sproporzione di un’intensità tale da sentire il “bisogno di gettare a ogni costo un ponte al di sopra di quell’abisso”. Certo – aggiungeva scettico André – non si poteva pensare di trovare quel ponte nella matematica. Ma il legame tra matematica e le preoccupazioni filosofiche-religiose era storicamente attestato per l’epoca di Pitagora e la celebre sentenza platonica “Dio è un perpetuo geometra” sarebbe diventata un potente incentivo per imitare Dio, sulla Terra, con gli strumenti della matematica.

Il Sole Domenica 15.4.18
Evgenij Zamjatin
Fantascienza comunista
Orwell (e tanti altri) hanno dovuto molto a «Noi» di Zamjatin, pietra miliare del romanzo avveniristico e della Russia del ’900
di Goffredo Fofi


La fantascienza ha avuto molti precursori, e con Verne e Wells i suoi fondatori moderni, l’uno fiducioso nelle macchine e nella scienza, ma l’altro, degno lettore di Darwin e narratore della società e delle sue linee di sviluppo, decisamente più pessimista. Si diffuse dopo la seconda guerra mondiale a partire dagli Usa e dell’Inghilterra come una forma della letteratura popolare in grado di far concorrenza al romanzo rosa e al romanzo giallo, le visioni più acute del futuro sono state espresse da scrittori di prim’ordine e non specializzati nel genere, e la società a venire è stata esplorata dopo Wells da altri insoliti europei, il praghese Karel Capek con la commedia R. U. R. (1920), dove ricorreva per la prima volta la parola robot, derivazione da robota che in ceco significa lavoro; dal russo Evgenij Zamjatin con il romanzo Noi, steso intorno al 1921-22, ma che per la pubblicazione in Russia ha dovuto aspettare gli anni della perestrojka, il 1988, mezzo secolo dopo la morte dell'autore, pur avendo visto la luce assai prima in Germania e in America, e in Italia grazie a Ettore Lo Gatto nel 1955; l'inglese Aldous Huxley con Il mondo nuovo (1932), seguito molti anni dopo, 1958, dalle riflessioni di Ritorno al mondo nuovo; e infine l’inglese George Orwell con uno dei grandi libri del Novecento, 1984, edito nel 1949. In tutti questi casi si è trattato di distopie, di utopie negative, non ottimistiche sul futuro dell’uomo e della società. Ci sono oggi evidenti, alla luce di quanto è accaduto poi, le ragioni dei pessimisti, e ci appaiono ingenue fino a risultare insopportabili quelle delle fantascienza ottimista, degli ideatori su carta di società egualitarie, ecologicamente sane, dove la tecnica è messa al servizio dell’uomo e non viceversa. Rileggendo a distanza di anni Zamjatin, ci si rende ben conto di quanto Orwell (e tanti altri con lui) gli hanno dovuto, e se ne apprezza l’intelligenza e la forza in rapporto a quelli che sono stati i sogni del comunismo sovietico, dei piani quinquennali, dell’ideologia dello sviluppo, del pensiero unico, della priorità dello stato.
Ingegnere navale, Zamjatin scrisse Noi quando aveva poco più di trent’anni, e negli anni caldi della rivoluzione, quelli in cui non si era ancora affermata e consolidata con Stalin e con Zdanov un’idea di cultura e di arte, al servizio non del popolo ma del partito e della sua idea di quel che il popolo avrebbe dovuto diventare, essere. Inventando un futuro molto lontano, Zamjatin immagina un mondo futuro dove tutti sono uguali ma c’è un Benefattore assistito da Custodi - che ci appare come un antenato diretto del Grande Fratello orwelliano - che arriva perfino a giustiziare personalmente i refrattari ostili all’ordine stabilito, che viene presentato e viene vissuto da tutti come ideale, privo di conflitti, di assoluta razionalità: un’armonia forzata che è bensì considerata da tutti come la perfezione del bene. Il protagonista e narratore approva in pieno questa società, dove il sesso è regolato come tutto il resto e dove tutti hanno un numero e non un nome (il suo è D-503) finché non incontra una donna da cui è attratto ma che lo sconcerta per la sua ironia, una qualità assente nelle altre donne con cui ha a che fare. Per suo tramite, potrà anche conoscere il mondo oltre il confine della perfetta società, un mondo di refrattari all’ordine stabilito ridotti però a uno stadio di brutalità e selvaggeria. (La contrapposizione tra i due gruppi ricorda fortemente quella tra i Morlock e gli Eloi, abitanti del lontanissimo futuro ipotizzato da Wells in La macchina del tempo.) Va anche ricordato che il protagonista è un ingegnere addetto alla fabbricazione di una sorta di astronave che dovrà esportare su altri pianeti il modello della società che lo ha prodotto, e che l’azione del romanzo andrà focalizzandosi attorno alla possibilità di impadronirsene e farne un buon uso.
Secondo l’ottimo curatore di Noi, Alessandro Niero, i “due poli spirituali” della vicenda, per l'ingegnere Zamjatin esperto di termodinamica, sono “energia” ed “entropia”, la tendenza alla quiete e quella al movimento, alla mutazione continua anche nell’idea di società. E dietro le idee di Zamjatin si può forse ipotizzare un modello politico e rivoluzionario che non è certamente quello di Stalin (e neanche di Lenin) ma che si avvicina a quelli di Trotskij, quello della “rivoluzione permanente” o “ininterrotta”, che possiamo malamente riassumere in una dialettica storica continua tra il momento della febbre e quello della quiete, una quiete che una nuova febbre deve interrompere affinché nuovi poteri non ci opprimano, affinché il mondo, la storia, possano andare avanti. E certamente Zamjatin credette nella rivoluzione, pur vedendone i limiti e preoccupato del suo consolidamento in mano a una perfetta burocrazia e a una ideologia unica imposta con la forza. Vi credette allo stesso modo di un Pilnjak, che condivise con lui la condanna da parte della burocrazia e morì nel gulag mentre Zamjatin riuscì a espatriare rifugiandosi in Francia, dove fu tra l'altro co-sceneggiatore del film che Jean Renoir trasse dall’Albergo dei poveri di Gorkij e dove morì nel 1937.
Boris Pilnjak, oggi in Italia dimenticato, è stato uno dei grandi scrittori dei primi anni post-rivoluzionari, grande anzi grandissimo. Non si può dire lo stesso di Zamjatin, certamente buon scrittore dalle idee chiare sul presente e il futuro del suo paese e del mondo: Noi rappresenta un punto cardine nella storia della letteratura avveniristica e della cultura russa del Novecento, ma anche nella traduzione di Niero che indoviniamo, non conoscendo il russo, ottima (e che gli Oscar hanno lodevolmente preso dall’edizione Voland del 2013), non appare come un romanzo innovativo nella forma come nelle idee, spesso un po’ faticosa soprattutto se paragonata all'originalità ed esplosività della scrittura di Pilnjak ma anche alla limpidezza di quella orwelliana. Orwell scoprì Noi nella traduzione francese nel 1946 e gli deve certamente molto, ma ne disse anche, come ricorda Niero nella sua prefazione, che «per quanto posso giudicare, non è un libro di prim’ordine». Questo nulla toglie alla sua importanza storica e alla sua capacità di accostarci a un futuro che è ancora nostro in modi più preoccupanti che mai. Zamjatin ne era pienamente cosciente, dicendo della sua opera in un’intervista francese del 1932 che Noi non era un pamphlet politico, bensì «un campanello d'allarme per il duplice pericolo che minaccia l'umanità: il potere ipertrofico delle macchine e il potere ipertrofico dello stato».
Evgenij Zamjatin, Noi (My) , traduzione a cura di Alessandro Niero, Oscar Mondadori, pagg. 236, € 12

Il Sole Domenica 15.4.18
Pasquino nel cielo papistico
Un nuovo studio sul bestseller del primo ’500: sotto accusa la corruzione della Chiesa cattolica e l’armamentario di vuote pratiche devozionali
di Massimo Firpo


Sempre apparso anonimo, il Pasquillus extaticus fu un vero e proprio best seller dei primi anni quaranta del Cinquecento, come testimoniano tre edizioni in latino con numerose varianti e tre in italiano (in due diverse versioni), destinate alla circolazione europea le prime e al proselitismo riformato al di qua delle Alpi le altre. Di queste esistono anche numerosi manoscritti che ne documentano ulteriormente la larga diffusione, attestata anche da una coeva traduzione tedesca e una più tarda traduzione olandese. A scriverlo e a raccogliere i testi che vi compaiono fu Celio Secondo Curione, un letterato piemontese convertitosi alla Riforma e rifugiatosi nel 1542 dopo varie peripezie in Svizzera, a Basilea, dove si sarebbe infine avvicinato a dottrine radicali, sempre più distanti dall’ortodossia calvinista.
È merito di questo studio aver stabilito con buona certezza che il testo latino fu pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1541, quando il suo autore non aveva ancora preso la via della fuga oltralpe, all’indomani della quale fu stampata a Venezia la prima edizione italiana, che fu quindi successiva. Sono queste due editiones principes ad essere qui pubblicate con introduzioni storiche e testuali, note di commento e apparato critico. Non stupisce che il Sant’Ufficio romano giudicasse «perniciosissimo» il libello constatandone il successo nell’ambito dei gruppi e movimenti filoriformati in Italia. Con il Beneficio di Cristo, l’Alfabeto cristiano, la Tragedia del libero arbitrio, la Medicina dell’anima, testi anch’essi apparsi negli anni quaranta del secolo, sullo sfondo delle prime convocazioni del concilio di Trento, il libro fu uno dei più presenti sui piccoli scaffali clandestini di cui si nutriva una nuova identità religiosa sempre più costretta agli artifici della dissimulazione.
In quelle pagine, infatti, la pungente satira delle pasquinate romane dei primi decenni del secolo si spersonalizzava, non investiva più singoli personaggi, ma un’intera istituzione, la Chiesa cattolica, passando dalla beffa morale alla polemica religiosa per denunciarne la corruzione e arricchire l’arsenale delle armi con cui combattere la battaglia per l’abbattimento dell’Anticristo papale. Non più versi satirici fatti di insulti e più o meno triviali allusioni, ma un dialogo umanistico e pedagogico tra Pasquino e Marforio, sulla base di evidenti modelli erasmiani, che si propone come «una grandiosa ricapitolazione secolare in grado di mostrare al lettore come i tempi della rovina definitiva della Chiesa romana fossero ormai maturi» (p. 23). Un’opera militante, dunque, in cui il racconto fatto da Pasquino di un viaggio nel cielo papistico (un demoniaco e infernale cielo alla rovescia) offre lo spunto per investire di una critica feroce frati e monache, confessori e martiri, scalzando dalle radici l’imponente edificio della Chiesa visibile e l’infausto armamentario di pratiche sacramentali, liturgiche e devozionali da essa proposto ai fedeli, spingendoli nell’abisso di una pietà farisaica e superstiziosa. Venerazione delle immagini, purgatorio, voti, pellegrinaggi, digiuni, celibato ecclesiastico, messe di suffragio, indulgenze, miracoli, tutto veniva triturato nella macchina antipapale del Pasquillus curioniano, che investiva non solo e non tanto i comportamenti, ma soprattutto le dottrine erronee che li legittimavano, sì da configurare il discorso come una sintesi della teologia riformata.
Per esempio, se la denuncia dei «fratacci» che, anziché fuggire il mondo «lo portano seco ne’ monasterii, […] dove non si vede già altro che passioni d’animo e mere pazzie, con che cercano di scacciarsi l’un l’altro o di innalzarsi» (p. 212), poteva rifarsi all’erasmiano «monachatus non est pietas», è evidente il magistero della Riforma laddove si criticavano coloro che preferivano lasciare il monopolio delle cose sacre ai presunti «gran teologi», perché credere «semplicemente» non significa credere «ignorantemente» e ogni cristiano ha il dovere di conoscere la Scrittura (p. 217). Se la denuncia del cielo papale come un empio «mercato» simoniaco (p. 230) ripropone antiche invettive anticuriali, di chiara matrice eterodossa sono gli strali contro il culto dei santi (vero e proprio pantheon neopagano), i «novi e orribili riti» e le infinite superstizioni popolari di cui si nutriva, per esortare invece a porre ogni speranza di salvezza solo e soltanto nella fede in Cristo (pp. 232-33), unico «advocato nostro» (p. 244), senza «tanti miracoli fatti a mano, tante fraterie, tanti publichi mercati di meriti e buone opere» (p. 237).
Un cielo tuttavia, quello papistico, sempre più gravemente insidiato da moderni guastatori, «bravi uomini», in massima parte tedeschi, ma anche «assaissimi italiani et franzesi» che ne preparavano il definitivo crollo scavandone le malcerte fondamenta, fatte di «cappucci, rosari, vesti succide, capelli tagliati, veli di monache e mille fogge di vesti, mille di scarpe, mille di berette, mille di colori, […] pesci fradici, erbaggi, ligumi, lasagne, mitre pontificali», e sostenute dai muri ormai pericolanti della Superstizione, della Persuasione, dell’Ignoranza e dell’Ipocrisia (pp. 229-30). I tempi stavano cambiando rapidamente, scriveva Curione, evocando con grande violenza verbale quanti avevano ormai «comminciato a caccar nei capucci, a forbirsi il culo coi rosarii, a farsi beffe dei pelegrinaggi, ad aver a scherzo quelle putanesche astinenze e ad aver in somma abominazione tutte le superstizioni» (p. 235). Una violenza che scaturiva dal suo sentirsi schierato in prima linea nella guerra in corso tra verità ed errore, Riforma e papismo, evocata anche dai nomi di numerosi personaggi che compaiono in queste pagine, illustri riformatori come Zwingli, Melantone, Butzer e non meno illustri cardinali come Sadoleto, Aleandro, Carafa, o grandi sovrani europei in guerra tra loro. Tra di essi figura anche Erasmo da Rotterdam, rappresentato come una vela esposta a ogni vento perché «non si seppe mai, né dai suoi scritti si può sapere, s’ei s’appressasse più al ciel divino o al papistico» (p. 268). Un giudizio severo dal quale lo stesso Curione non tarderà a prendere le distanze, ispirandosi al De immensa Dei misericordia per il suo scritto più celebre, il De amplitudine beati regni Dei, pubblicato nel 1554.
Celio Secondo Curione, «Pasquillus extaticus» e «Pasquino in estasi», Edizione storico-critica commentata, a cura di Giovanna Cordibella e Stefano Prandi, Olschki, Firenze, pagg. 314, € 38