domenica 1 aprile 2018

Corriere La Lettura 1.4.18
Tre Europe minano l’Europadopo la rielezione di Putin: la situazione nelle terre dell’ex impero sovietico
Non giova a nessuno mantenere legami così stretti tra Stati che hanno obiettivi tanro diversi
In Paesi come la Polonia e l’Ungheria i politici più popolri sono in cerca di un nemico da odiare
di Sergio Romano


A Parigi e in altre grandi città della Europa occidentale, il 1968 fu l’anno delle rivolte giovanili, della rivoluzione sessuale e delle manifestazioni studentesche. Vi furono gruppi che si definivano comunisti, ma il loro cuore batteva per Trotsky, vittima di Stalin, per la rivoluzione culturale cinese e per quella contadina di Che Guevara. Sbarcato a Parigi il 10 maggio, qualche ora prima di una grande manifestazione che si concluse con l’occupazione della Sorbona, ebbi l’impressione di piombare nel mezzo di una festa surrealista. Nei giorni seguenti vi fu qualche comizio nella grande fabbrica automobilistica di Boulogne Billancourt, ma i dibattiti più vivaci e frequentati erano quelli che andavano in scena ogni sera al Théatre de l’Odéon, allora diretto da Jean-Louis Barrault. La grande festa rivoluzionaria finì quando un milione di francesi (secondo gli organizzatori) scese lungo i Champs Élysées per chiedere il ritorno all’ordine, e gli elettori, chiamati alle urne, mandarono all’Assemblea nazionale una maggioranza conservatrice.
Distratti dalla più straordinaria e fantasiosa rivoluzione borghese, ci accorgemmo con ritardo che un’altra Primavera, al di là della cortina di ferro, stava lanciando messaggi a cui non potevamo restare indifferenti. I primi segnali giunsero in Occidente da Praga agli inizi del 1968, quando il vecchio segretario del partito, Antonin Novotny, fu sostituito da un comunista slovacco, Alexander Dubcek, già noto per la simpatia con cui sembrava reagire alle proposte riformiste che circolavano nei caffè e nei corridoi del partito. Quando si cominciò a parlare di «socialismo dal volto umano», molti drizzarono le orecchie e qualcuno sperò che l’Unione Sovietica, guidata da Leonid Brežnev, sarebbe stata più pragmatica e comprensiva di quella che aveva soffocato tutte le richieste riformatrici, dallo sciopero degli operai di Berlino nel 1953 all’insurrezione di Budapest nel 1956.
Commisero un errore. La guerra fredda non era più quella degli anni Cinquanta, ma Mosca temeva che qualsiasi concessione ai «satelliti» avrebbe avuto intollerabili ripercussioni sulla società sovietica e sulla sua credibilità nel mondo. Il timore non era infondato. Vi fu qualche coraggioso dissidente, a Mosca e Leningrado, che cercò di protestare pubblicamente. Erano segnali modesti, ma per la dirigenza comunista sempre allarmanti.
Una delle principali reazioni sovietiche, nei mesi seguenti, fu la proposta di una grande conferenza per la sicurezza europea a cui avrebbero partecipato i Paesi della Nato e del Patto di Varsavia. Lo scopo, per Mosca, era la firma di un documento che avrebbe implicitamente riconosciuto la divisione dell’Europa e dato una legittimazione internazionale al potere dell’Urss nei Paesi conquistati dall’Armata rossa nella Seconda guerra mondiale. Dopo qualche resistenza, anche gli americani firmarono l’Atto finale della Conferenza a Helsinki nell’agosto del 1975. Conteneva dichiarazioni e principi che davano per scontata l’esistenza di un’area d’influenza sovietica dalle Repubbliche del Baltico fino a Berlino. Ma anche le democrazie occidentali segnarono un punto, ottenendo che un articolo del Trattato sancisse il «rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza e religione».
Questa clausola ebbe l’effetto di suscitare in alcuni Paesi dell’Est, ma anche in Unione Sovietica, un nuovo dissenso. Erano ebrei che chiedevano di partire per Israele, ma anche intellettuali, scrittori, registi di cinema e teatro che reclamavano il diritto di esprimere pubblicamente il proprio pensiero. A Praga cominciò a circolare, più o meno clandestinamente, Charta 77, un documento scritto da cinque persone (fra cui Vaclav Havel, futuro presidente della Repubblica Ceca) e firmato da quasi 300 cittadini. In Polonia un tecnico dei cantieri navali di Danzica, Lech Walesa, già protagonista di uno sciopero «illegale» nel 1970, riprese l’attività politica e sindacale fino alla creazione nel 1980 di una organizzazione che verrà chiamata Solidarnosc e diventerà il cuore della opposizione nel Paese. L’agitazione divenne particolarmente efficace perché il Conclave, nell’ottobre 1978, aveva eletto Papa il cardinale polacco Karol Wojtyla. Da quel momento il regime comunista di Varsavia dovette fronteggiare nuove sfide. Non poteva negare al Pontefice il diritto di visitare la sua patria; ma ogni viaggio di Giovanni Paolo II riscaldava il cuore dei polacchi e strappava al sistema qualche concessione. La protezione papale non poté impedire che un generale divenuto primo segretario del partito e capo dello Stato, Wojciech Jaruzelski, inscenasse un colpo di Stato nel dicembre del 1981, proclamasse lo stato di guerra e facesse arrestare tutti i maggiori esponenti di Solidarnosc. Ma il nuovo dittatore sostenne sempre, con qualche buona ragione, che il suo intervento aveva risparmiato ai polacchi un’invasione sovietica nello stile di Budapest 1956 e Praga 1968.
Anche in Urss stava accadendo qualcosa. Più che dal dissenso interno la politica riformatrice di Mikhail Gorbaciov fu motivata dalla constatazione che la «patria della rivoluzione socialista» aveva mancato tutte le rivoluzioni industriali e tecnologiche da cui dipendeva la straordinaria crescita sociale ed economica delle democrazie occidentali. Con alcuni viaggi nell’Europa dell’Est il nuovo segretario del partito cercò di persuadere i «satelliti» che la perestrojka («ristrutturazione») sarebbe stata utile anche al loro futuro. A Varsavia capì che i polacchi avevano ormai imboccato la loro strada, alquanto diversa da quella dell’Urss, e dovette limitarsi a dare consigli ascoltati molto distrattamente. Ma a Berlino Est si scontrò con una dirigenza che vedeva nelle riforme, con ragione, la fine del proprio potere.
Gorbaciov insistette e la sua presenza nella Repubblica democratica tedesca ebbe l’imprevisto effetto di incoraggiare gli oppositori del regime, ormai usciti dall’ombra e pronti a manifestare contro lo Stato comunista. Ritornano in scena, da quel momento, i vecchi Stati balcanici e quelli nati a Versailles dal crollo dell’Impero austro-ungarico. In alcuni casi la transizione fu dolce (quella della Cecoslovacchia venne definita una «rivoluzione di velluto»), ma almeno in un Paese (la Romania) fu sanguinosa e spietata. In ogni Paese assistemmo al ritorno degli esuli, ma anche al cambio di casacca di coloro che non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere.
Benché storicamente diversi, tutti i Paesi liberati avevano almeno due esigenze. In primo luogo dovevano garantire un futuro migliore ai loro cittadini e adattare un apparato economico dirigista alle regole dell’economia di mercato. In secondo luogo erano troppo deboli per affrontare da soli il problema della loro sicurezza.
Alla prima esigenza si dedicò l’Unione Europea. Sarebbe stato meglio assisterli con un programma economico di sussidi e prestiti. Ma la Germania, dopo essere stata per molto tempo, durante la guerra fredda, il bastione orientale del mondo euro-atlantico contro il blocco comunista, voleva che al di là dei suoi confini con l’Europa slava vi fossero Paesi uniti a quelli dell’Ovest da istituzioni comuni. Scattò in quel momento la macchina che avrebbe trasformato una Comunità originariamente composta di sei Paesi in una Unione di 28 (27 dopo l’uscita della Gran Bretagna), di cui sei erano appartenuti all’orbita sovietica, tre (le Repubbliche del Baltico) all’Urss e altre tre al mondo scandinavo.
Mentre molti Paesi dell’Europa centro-occidentale avevano fatto parte del Sacro Romano Impero o preso parte, anche se in campi opposti, a una grande guerra civile europea (quella dei Trent’anni), i Paesi dell’Est avevano spesso condiviso, in pace e in guerra, le vicende storiche di due imperi orientali, il russo e l’ottomano. Non è tutto. Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi avevano preso parte alla Seconda guerra mondiale, anche se in campi diversi, e ne erano usciti più o meno egualmente sconfitti. Le loro classi dirigenti non avevano dimenticato i progetti europeisti degli anni Trenta, da quello franco-tedesco di Aristide Briand e Gustav Stresemann, a quello paneuropeo di Richard Nikolaus Coudenhove Kalergi. Un brillante regista francese di piani politici ed economici (Jean Monnet) suggerì al suo governo iniziative che avrebbero favorito la nascita di progetti comuni per la ricostruzione di un continente distrutto. Gradualmente gli altri cinque Paesi giunsero alle stesse conclusioni. Cominciò così una fase di iniziative, non sempre coronate dal successo, ma destinate ad avere una grande influenza sul futuro dell’Europa: Comunità europea per il carbone e per l’acciaio, Comunità europea di difesa, Comunità economica europea, Comunità europea per l’energia atomica. Il fattore che maggiormente univa i «sei» era la convinzione di avere ceduto, anche se in tempi diversi, a uno stesso vizio: il nazionalismo.
Al di là della Anhalter Bahnhof, la stazione ferroviaria berlinese da cui si lascia il Sacro Romano Impero, il clima politico era alquanto diverso. Occupati dall’Armata rossa nell’ultima fase del conflitto, gli Stati dell’Est europeo erano stati costretti a diventare «democrazie popolari» e avevano cominciato a coltivare da quel momento i germi di un nazionalismo vittimista. Anziché interrogarsi sulle proprie responsabilità (la Polonia nel 1938 aveva approfittato del patto di Monaco per prendersi un pezzo di Cecoslovacchia), trovarono qualche conforto nel raccontare a sé stessi una storia fatta di ingiustizie sofferte e tradimenti subiti. Dopo la caduta del muro, la disintegrazione dell’impero sovietico e l’allargamento dell’Unione Europea, questi sentimenti, nel Paesi dell’Est, sembrarono lasciare il passo a una visione più ottimistica del futuro. Le generose somme assicurate dall’Ue (per la politica agricola, la costruzione di infrastrutture e la modernizzazione degli apparati amministrativi) cambiarono la vita e l’aspetto dei vecchi satelliti sovietici. La libertà di movimento all’interno dell’Unione offrì un impiego a coloro che avevano languito per molti anni nella grigia società comunista. La rotazione delle cariche alla guida dell’Ue permise alle nuove classi politiche dell’Est di fare utili esperienze democratiche. Ma nel primo decennio del secondo millennio (soprattutto in Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca) nuove figure politiche fanno la loro apparizione. Per raccogliere consensi in ambienti nazionalisti risvegliano nella memoria collettiva il ricordo delle pagine più nere della storia nazionale: per la Polonia la spartizione fra l’Urss e il Terzo Reich nel 1939 e l’«iniquo» patto di Yalta nell’aprile 1945; per la Repubblica Ceca la cessione della Boemia e della Moravia a Hitler nel marzo 1939; per l’Ungheria la coraggiosa insurrezione del 1956, abbandonata a sé stessa da una Nato «cauta e codarda», ma anche il trattato del Trianon con cui il Paese nel 1920 fu privato di una grande parte dei suoi territori.
Queste nuove forze politiche hanno bisogno di un nemico da odiare e lo hanno trovato anzitutto nei loro compatrioti comunisti, ormai vecchi e innocui, contro i quali la Polonia, in particolare, ha sferrato una anacronistica battaglia. Per l’Ungheria — che l’8 aprile elegge il nuovo Parlamento — il nemico è George Soros, presentato al Paese come quinta colonna del capitalismo finanziario mondiale e ultima incarnazione del nemico che avrebbe insidiato nei secoli la nazione magiara. Per tutti il nemico è Bruxelles, responsabile di politiche, come la ripartizione degli immigrati, che violerebbero la sovranità nazionale. In questa galleria di nemici interni si intravedono anche gli ebrei, e in certe assemblee popolari può accadere di assistere a qualche saluto nazista.
Il nemico esterno invece è la Russia di Vladimir Putin. I Paesi dell’Europa orientale hanno chiesto di entrare nella Nato per meglio garantire la propria sicurezza dalle presunte minacce russe, mentre la calorosa e interessata accoglienza degli Stati Uniti ha creato tensioni e contrapposizioni che al vertice atlantico di Pratica di Mare, nel maggio 2002, era parso possibile evitare.
Vi sono quindi almeno tre Europe: quella dei Paesi che condividono gli ideali di Jean Monnet, Konrad Adenauer, Maurice Schumann, Alcide De Gasperi; quella dei «compagni di viaggio», interessati soprattutto dai benefici che l’Unione offre ai suoi membri; quella del gruppo di Višegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria), per cui il rapporto con Washington è molto più importante di quello con Bruxelles. In ultima analisi non può giovare a nessuno mantenere legami tanto stretti fra Paesi che hanno obiettivi così diversi.