Corriere 9.6.18
Le vanterie di Dino Grandi
Il gerarca fascista esagerò il ruolo che aveva avuto nel far cadere il duce
Da
un saggio di Emilio Gentile (Laterza) emerge che il 25 luglio 1943 i
progetti dei militari contro Mussolini, predisposti indipendentemente
dalle decisioni del Gran Consiglio, risultarono decisivi nel determinare
il collasso del regime
di Paolo Mieli
Tre mesi
dopo il 25 luglio 1943, cioè quando erano trascorsi meno di cento giorni
dalla defenestrazione di Benito Mussolini, il suo successore, Pietro
Badoglio, parlando agli ufficiali pronunciò queste testuali parole: «Il
fascismo non è stato rovesciato da noi, da Sua Maestà o da me; il
fascismo è caduto non per forza esterna, ma per la sua crisi interna;
non poteva resistere più… Lo hanno abbattuto gli stessi componenti del
Gran Consiglio… che votarono, la sera del 24 luglio, a maggioranza
contro Mussolini e ne segnarono la fine. Finalmente!». Il maresciallo
Badoglio, in quell’occasione, raccontò solo una parte della verità,
essendo stato poi accertato che dai vertici militari (i generali Vito
Ambrosio, Giuseppe Castellano e il capo della polizia Carmine Senise, ad
ogni evidenza non all’insaputa di Vittorio Emanuele III) furono
precedentemente predisposti i piani per un colpo di Stato. Un golpe
elaborato senza coinvolgere nessuno dei gerarchi del regime. E che —
magari non in quel preciso istante — sarebbe scattato comunque. Ne è
certo lo storico Emilio Gentile, come si evince dalle pagine iniziali
del suo libro 25 luglio 1943 , che sta per essere dato alle stampe da
Laterza.
Il Gran Consiglio, istituito nel 1923, nel 1928 era
diventato l’organo supremo del regime fascista. Nei suoi vent’anni di
vita, si era riunito 186 volte, l’ultima, prima di quella del 24 luglio,
il 7 dicembre 1939. Poi per quasi quattro anni non era stato più
riconvocato, neanche al momento dell’ingresso dell’Italia nella Seconda
guerra mondiale (10 giugno 1940), allorché Vittorio Emanuele III aveva
dovuto cedere, molto malvolentieri, alla richiesta avanzata da Mussolini
di essere delegato al comando supremo di tutte le forze armate. Quel
comando che adesso, secondo l’ordine del giorno presentato da Dino
Grandi, all’epoca presidente della Camera dei Fasci e delle
Corporazioni, avrebbe dovuto essere restituito al re.
E veniamo ai
giorni decisivi. Il 10 luglio del 1943 le truppe alleate erano sbarcate
in Sicilia e la reazione dell’esercito mussoliniano era stata del tutto
inefficace. Nel pomeriggio del 16 luglio, Carlo Scorza (segretario del
Pnf dal 19 aprile del 1943) assieme ad alcuni gerarchi era andato da
Mussolini per un «conciliabolo» sul da farsi a seguito di quegli
insuccessi militari. Il 19 luglio Mussolini aveva incontrato Adolf
Hitler a Feltre per chiedere aiuto contro gli invasori. In quelle stesse
ore Roma era stata bombardata da aerei inglesi e americani dopo che
erano stati lanciati volantini in cui si suggeriva alla popolazione di
ribellarsi alla prospettiva di «morire per Mussolini e per Hitler». Il
22 luglio Grandi fu ricevuto da Mussolini e gli parlò apertamente della
sua intenzione di presentare un ordine del giorno. Il 24 lo stesso
Grandi fece pervenire al ministro della Real Casa Pietro Acquarone una
lettera per il re con il testo dell’ordine del giorno (a condizione che
il plico venisse consegnato al sovrano solo dopo le 17, quando la
riunione dell’organo supremo del regime aveva già avuto inizio). Questa
l’accertata successione degli eventi.
Furono, in tempi successivi,
lo stesso Grandi e Luigi Federzoni a sostenere di essere stati loro ad
aver preteso la convocazione di quel consesso. I due sostennero anche di
aver avuto fin dall’inizio l’intenzione di «abbattere il Duce e la
dittatura», più precisamente di «eliminare» Mussolini. Ma secondo
Giuseppe Bottai — che ne scrisse sul proprio diario il 23 agosto del
1943 — l’arresto di Mussolini era stato, invece, conseguenza «d’un moto
indipendente dal nostro, di ormai accertate origini militari»; Badoglio
aveva svolto null’altro che il ruolo di «deus ex machina messo dalla
Corona tra il nostro moto e il moto militare».
Mussolini, un anno
dopo i fatti, il 1° luglio del 1944, raccontò sul «Corriere della Sera»
di aver con queste parole messo in guardia i suoi oppositori nel terzo e
ultimo intervento da lui pronunciato in quella notte concitata:
«Signori attenzione! L’ordine del giorno Grandi può mettere in gioco
l’esistenza del regime». Per poi aggiungere, dopo il voto per la
restituzione al re del comando delle forze armate: «Voi avete provocato
la crisi del regime!». L’ultimo segretario del Pnf, Carlo Scorza,
confermò, nel 1968, di aver udito quelle frasi. Ma Tullio Cianetti — che
ne scrisse in carcere alla vigilia del processo di Verona (dicembre
1943) — diede una versione difforme dell’accaduto: quelle parole
Mussolini non le aveva mai pronunciate. Gentile, uno dei più autorevoli
allievi di Renzo De Felice, mette in dubbio — sulla base di un’accurata
esegesi delle testimonianze di tutti gli altri partecipanti alla seduta
del Gran Consiglio e di documenti inediti provenienti dalle carte di
Federzoni — le ricostruzioni di Grandi e dello stesso Mussolini. Tra
l’altro lo fa in polemica esplicita con il suo maestro: «Sorprende»,
scrive, «che uno storico scrupoloso come De Felice abbia accreditato,
senza avanzare alcun dubbio, la veridicità delle frasi mussoliniane
sulla base delle citazioni di Scorza e di Grandi nei loro libri,
trascurando il fatto che sia Grandi sia Scorza in un’altra versione del
loro racconto le avevano ignorate». In ogni caso, prosegue Gentile, «dai
nuovi documenti risulta provato che le versioni sulla notte del Gran
Consiglio, date da Grandi, da Federzoni e da altri gerarchi nei loro
resoconti, sono state più volte rielaborate e modificate con evidente
abuso del senno del poi».
La verità che emerge dal libro di
Gentile è che furono altri — non certo Grandi — i gerarchi che presero
l’iniziativa di sollecitare la convocazione del Gran Consiglio; che i
diciannove votanti dell’ordine del giorno Grandi non si proponevano
obiettivi comuni; che comunque tra questi obiettivi non c’era la
destituzione di Mussolini, né tanto meno il suo arresto e neppure la
fine del regime; che il Duce stesso, infine, non ebbe una lucida
contezza di quel che stava accadendo in quella notte. Se Mussolini
considerava l’ordine del giorno Grandi, da lui conosciuto prima della
riunione, un atto «inammissibile e vile» (come «sembra» che lo avesse
definito lui stesso), perché, si chiede Gentile, «accettò che venisse
discusso in Gran Consiglio e di chiedere su di esso la votazione, anche
se non era obbligato a fare né l’una né l’altra cosa, dal momento che
solo al capo del governo, presidente di diritto del Gran Consiglio,
spettava di fissare l’ordine del giorno delle sedute?». E perché «non
propose un proprio ordine del giorno o non rinviò la seduta come era in
suo potere di fare e come altre volte in passato era accaduto?»
Su
quel che realmente si dissero i gerarchi nella lunga riunione notturna
del Gran Consiglio (durò dieci ore) non c’è certezza. Alcuni dei
congiurati si riunirono a casa di Federzoni nel pomeriggio del giorno
successivo (nel momento in cui Mussolini, uscito dall’incontro con il
re, fu caricato su un’autoambulanza e privato della libertà). Lì
redassero un verbale che avrebbe dovuto far fede delle parole realmente
pronunciate. Ma questo prezioso documento non è mai venuto alla luce e
quel che ne sappiamo risponde alle versioni lacunose e contraddittorie
che ne fecero poi quasi tutti i partecipanti, alcuni molto tempo dopo
l’accaduto. Grandi, il principale artefice della cospirazione, poteva
vantare di aver scritto, il 21 aprile 1940, una lettera a Mussolini
suggerendogli, con dotte argomentazioni, di tenere l’Italia fuori dal
conflitto. Il Duce non gradì quella missiva e definì quelle di Grandi
«profezie cervellotiche di un intellettuale che legge troppi libri e fa
poca ginnastica». Poi però, poco più di un mese dopo, a seguito del
crollo della Francia, Grandi si era ricreduto e Galeazzo Ciano, il 9
agosto 1940, aveva annotato sul proprio diario i termini di questo
ripensamento: adesso Grandi era diventato un grande fautore
dell’alleanza con Hitler. L’ex ambasciatore italiano a Londra andò poi a
combattere sul fronte greco-albanese. Di qui inviava al Duce lettere
piene di entusiasmo, ma, secondo le sue ricostruzioni successive, fu
proprio in questo momento — nel 1941 — che si convinse della necessità
di metter fine alla dittatura mussoliniana.
Chi lesse allora gli
scritti pubblicati da Grandi fra il 1941 e l’inizio del 1942, scrive
Gentile, «mai avrebbe sospettato in lui un gerarca avverso allo Stato
totalitario, alla continuazione della rivoluzione fascista, al razzismo,
all’antisemitismo, all’alleanza con la Germania nazista, alla guerra in
corso». Avversione che in un libro del 1983 Grandi avrebbe retrocesso
addirittura al 1932 (eccezion fatta per Hitler che all’epoca non era
ancora salito al potere). È vero però — ce ne sono testimonianze — che
dopo essere tornato in Italia dalla Grecia, Grandi, privatamente, iniziò
a polemizzare con il regime. «A Bologna — mi ha riferito Arpinati —
Grandi fa il frondista liberale e monarchico», annota Ciano nel diario.
Nel gennaio del 1942 avrebbe detto (la fonte è sempre Ciano): «Non so
come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante venti anni».
All’epoca
(fino al febbraio del 1943) Grandi era ministro della Giustizia e, in
quanto tale, incontrava il re due volte alla settimana per la firma
delle leggi. Talvolta lasciava trasparire le sue esitazioni e il sovrano
regolarmente gli rispondeva con cinque parole: «Si fidi del suo re».
Secondo il generale Puntoni questi incontri duravano pochi minuti. Una
volta il gerarca si sfogò con il genero del Duce confidandogli che a suo
avviso il re era «rimbecillito». Vittorio Emanuele III probabilmente
non voleva dar spazio alle confidenze di Grandi perché non se ne fidava e
perché sapeva che questi avrebbe voluto al posto di Mussolini il
maresciallo Enrico Caviglia, nemico personale di Badoglio al quale
invece pensavano lo stesso re e le persone sulle quali faceva
affidamento. Per di più Grandi nelle ore che precedettero la seduta del
Gran Consiglio intendeva cedere a Giuseppe Bottai il suo incarico di
presidente della Camera. È singolare, osserva acutamente Gentile, che
pensasse a ciò con il consenso del Duce «negli stessi giorni in cui
meditava su come defenestrarlo».
Sul frondismo di Federzoni esiste
invece qualche testimonianza di Giuseppe Bottai. Ma non si tratta di
gran cosa: «Anch’egli annaspa; tutti annaspiamo», ammette lo stesso
Bottai. Federzoni, tra l’altro, non andò neanche alla citata riunione
del 16 luglio convocata da Scorza a Palazzo Venezia. In conclusione,
scrive Gentile, «le versioni di Grandi e di Federzoni sull’origine del
25 luglio e sul loro ruolo non corrispondono alla realtà effettuale
degli eventi e neppure al ruolo che gli aspiranti tirannicidi hanno
raccontato di aver svolto nella notte del Gran Consiglio».
E siamo
alla notte del Gran Consiglio. Grandi racconterà di essersi recato
all’appuntamento con delle bombe in tasca e di aver avuto un ruolo da
protagonista. «Nella realtà», precisa Gentile, anche qui «le cose si
svolsero diversamente da come Grandi le ha raccontate, con frequenti
discordanze nella cronologia e nella sequenza degli incontri con altri
gerarchi, con inesattezze o invenzioni di cose dette o fatte». Il giorno
successivo — mentre Mussolini è a colloquio con il re — Grandi si rende
irreperibile. Bottai anche. E pure Federzoni. Uno dei pochissimi che in
quelle ore sembra aver mantenuto un contegno all’altezza degli eventi è
Giuseppe Bastianini.
La conclusione a cui giunge Gentile è che,
nel senso pieno del termine, «non ci fu congiura per eliminare
politicamente il Duce» e non ci fu «complotto con il re». Tra l’altro il
sovrano, come si evince dal diario di Bottai, era considerato dai
promotori dell’ordine del giorno Grandi «infido»: sarebbe capace,
scriveva l’ex ministro dell’Educazione nazionale, «di “scoprirci”
dinnanzi a Mussolini… Non sarebbe la prima volta, né noi saremmo stati
le prime vittime del gioco “mussoliniano”, non “fascista”, si badi, del
re». Che poi molti gerarchi, a cominciare da Grandi, si siano voluti
vantare — anni e anni dopo — di aver avuto un ruolo da giganti in quella
cospirazione e di aver con ciò contribuito a cambiare (in meglio) la
storia è qualcosa di umano e di comprensibile. Anche se le loro
ricostruzioni risultano davvero traballanti ad un attento esame — come
quello di Gentile — di ciò che è realmente accertabile.