sabato 7 aprile 2018

Corriere 7.4.18
Chi siamo davvero
Il concetto di identità personale sta cambiando. Età, sesso, nazionalità non sono più le «caselle» da riempire per definirsi
Lo storytelling ha imboccato altre strade. Di maggior libertà
di Daniela Monti 


Nel 1993 sul New Yorker uscì una vignetta con un cane seduto al pc e la didascalia «su Internet nessuno sa che sei un cane». Detto in altro modo — con le parole di David Birch in «Identity is the New Money» (Laterza) — dagli albori del mondo digitale l’identità è andata in pezzi: «Non è più unica, né fissa. Usare personaggi diversi a seconda dei diversi tipi di transazioni diventerà naturale: avremo identità per le situazioni lavorative o personali, come oggi abbiamo indirizzi mail diversi per lavoro e per i messaggi extra lavorativi». Ma off line?  Nome, età, sesso, luogo di nascita, nazionalità, religione: le caselle da riempire per definire la propria identità, senza forzature ma sentendosi davvero «dentro la propria pelle», sono sempre meno. A partire dal nome: anonimato come strumento estremo di libertà. «Amo il mio paese, ma non ho spirito patriottico e nessun orgoglio nazionale. Digerisco male la pizza, mangio pochissimi spaghetti, non parlo ad alta voce, non gesticolo, odio tutte le mafie, non esclamo “Mamma mia!”», ha esordito sul Guardian Elena Ferrante, la scrittrice che ha risolto la questione alla radice oscurando l’identità e raccontando la propria italianità al di là degli stereotipi. Sono italiana e insieme non lo sono.  I blind recruitment , i colloqui al buio utilizzati da multinazionali di tutto il mondo per selezionare i dipendenti, impongono di fare a meno di ogni informazione «sensibile» sui candidati che possa far cadere gli esaminatori nella trappola dei pregiudizi consci e inconsci, distraendoli da ciò che conta davvero: le abilità tecniche e l’esperienza sul campo. Niente nome nel curriculum, né età, sesso, luogo di nascita. «Consapevoli che una forza lavoro diversificata permette di ottenere performance aziendali migliori», ha scritto Business Insider , molti selezionatori oscurano anche l’Università presso cui si è formato il candidato. Funziona? L’esempio di scuola è quello della Toronto Symphony Orchestra, che fino al 1980 era composta quasi esclusivamente da maschi bianchi: ha optato per le selezioni «al buio», facendo suonare i candidati dietro uno schermo (un tappeto aveva il compito di cancellare il suono dei passi, così da non distinguere un tacco da una camminata maschile) e il risultato fu un riequilibrio che diede nuova linfa.  Dai colloqui di lavoro al buio, in cui si rinuncia alla propria identità a vantaggio di ciò che «si sa fare», alle nuove definizioni di sé al di fuori delle caselle canoniche che dall’Ottocento inchiodano dentro una classificazione rigida e bloccata nel tempo. «È sempre più difficile definire un individuo come giovane, adulto, vecchio, secondo i criteri dei dati anagrafici, perché si tratta più di scelte personali che di dati che costringono il percorso della vita», scrive l’intellettuale e uomo d’affari francese Hervé Juvin in un libro, «Il trionfo del corpo» (Egea), che è un’analisi spietata di come il concetto di identità abbia subito negli ultimi decenni una mutazione. «Gli europei — continua — avranno l’età che sceglieranno di avere». La causa intentata da un gruppo di attrici hollywoodiane, che chiedono la cancellazione delle date di nascita dal sito di informazione cinematografica IMDb, racconta quanto l’età anagrafica sia ormai una casella «vuota», un dato che non racconta nulla di essenziale circa se stessi e la propria identità (anzi, porta fuori strada, prestando il fianco a discriminazioni).  Ci sono caselle che «saltano» e ci sono vecchie rigidità che si ammorbidiscono, storytelling di se stessi che mescolano elementi eterogenei, creando nuove identità. Annamaria Testa su Internazionale ricorda la descrizione che, dopo l’elezione, diede di sé Sadiq Khan, il sindaco di Londra ed è «una specie di trattato in poche righe su che cosa sia il senso d’identità individuale e quali ne siano i fondamenti»: Khan si definisce «musulmano di origini pachistane» (fede e radici), «britannico» (appartenenza), «europeo» (cultura di riferimento), «laburista» (ideali), «avvocato» (competenze e capacità), «padre» (affetti e relazioni). Qualche volta aggiunge: «Tifoso del Liverpool» (passioni). Il puzzle che definisce l’identità è ora un insieme di pezzi accuratamente selezionati, emancipazione dalla gabbia anagrafica, ritratto di chi si è scelto di essere.  E il sesso? L’ansia di liberarsi dagli stereotipi di genere, ritagliandosi spazi nuovi, ha messo in discussione la drastica divisione binaria. Lorenzo Bernini, autore de «Le teorie queer» (Mimesis) e docente di Filosofia politica e sessualità all’Università di Verona, si muove con cautela: «Non è vero che si stia andando verso la “cancellazione” delle identità maschili e femminili — avverte —. Ma finalmente, per chi sente stretta questa alternativa, si sta aprendo la possibilità di essere riconosciuto altrimenti». La sentenza della corte costituzionale tedesca, che afferma la necessità di introdurre un terzo sesso, è l’esito di una stagione di lotte dei movimenti intersex e trans. Così come la proposta linguistica, nel Nord America, di utilizzare al singolare il pronome They (neutro) oltre a He , lui, e She , lei. «I due generi tradizionali vanno bene per certe persone, non per altre. Ma per lungo tempo sono stati imposti a tutti in modo coattivo. L’identità sessuale non sta scomparendo: grazie alla presa di parola delle minoranze sessuali, sta diventando meno rigida, rendendo il mondo più libero».