il manifesto 7.4.18
Gaza, una nuova strage
Israele/Striscia
di Gaza. Almeno otto palestinesi sono stati uccisi e altri mille feriti
dall'esercito israeliano nel secondo venerdì della "Marcia del Ritorno".
L''Onu accusa Israele di fare uso non necessario di forza letale.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME
Doveva essere la giornata del “kawshù”, la giornata della gomma, ossia
dei pneumatici dati alle fiamme che, con il loro fumo nero e denso,
avrebbero impedito ai tiratori scelti israeliani di prendere di mira i
manifestanti della “Marcia del Ritorno” organizzata a Gaza. Invece è
stata una nuova giornata di sangue simile a quella del 30 maggio. Sotto
i colpi sparati dai militari israeliani sono caduti almeno otto
palestinesi, tra i quali un 16enne Hussein Madi, e oltre mille feriti,
stando ai dati del ministero della sanità palestinese. Negli ultimi
otto giorni, lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele, sono
stati uccisi 30 palestinesi. L’esercito israeliano ha di nuovo
scaricato ogni responsabilità sui palestinesi, sul movimento islamico
Hamas che, a suo dire, sarebbe il regista della “Marcia del Ritorno”. Il
portavoce militare ha riferito di tentativi palestinesi di attaccare
la recinzione e infiltrarsi in Israele, di ordigni esplosivi e
bottiglie molotov lanciati, attraverso la barriera. “Atti di
terrorismo” al quale l’esercito avrebbe risposto con «moderazione»
facendo uso di cannoni ad acqua, ventilatori antifumo e di armi da
fuoco ma solo nelle situazioni più critiche. Una reazione «contenuta»
che non trova riscontro nei tanti morti e feriti palestinesi. Ieri a
Ginevra l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha espresso
preoccupazione per le nuove violenze, parlando di “dichiarazioni
inquietanti” rilasciate dalle autorità israeliane. La portavoce
Elizabeth Throssell ha sottolineato che il 30 maggio l’equipaggiamento e
le difese delle forze israeliane ”non avrebbero dovuto portare ad un
uso della forza letale”. Ieri è andata allo stesso modo.
La
giornata è stata segnata subito dalla morte in ospedale di Thaer Raba’a,
uno dei tanti feriti gravi del primo venerdì della Marcia del Ritorno.
Migliaia di persone sono affluite nei cinque accampamenti eretti nei
giorni scorsi. I più giovani hanno cominciato ad accatastare in vari
punti centinaia di vecchi pneumatici, i kawshù. Qualcuno indossava
delle maschere antigas artigianali ricavate da bottiglie e altri
oggetti di plastica. Maryam Abu Daqqa, una studentessa di 20 anni, ha
spiegato a una televisione locale di essere andata all’accampamento
«per onorare le persone uccise». Ha aggiunto di avere paura ma che
sarebbe ugualmente avanzata verso le barriere di confine: «Siamo qui
per dire all’occupazione che non siamo deboli». Quindi i manifestanti,
i volti di alcuni di loro erano coperti di fuliggine, hanno dato fuoco
ai pneumatici.
In pochi attimi si sono levate nuvole di fumo
nero che spinte dal vento si sono dirette verso le postazioni
israeliane. Dall’altra parte hanno cercato di usare i cannoni ad acqua
per spegnere i kawshù in fiamme senza grande successo. Poi gruppetti di
giovani hanno cominciato a correre verso la recinzione. La reazione dei
soldati, nonostante il fumo denso, non si è fatta attendere ed è stata
una replica del 30 marzo. In particolare a Khuzaa, un villaggio a Est
di Khan Yunis, divenuto tristemente noto durante l’offensiva
israeliana “Margine Protettivo” del 2014 per l’elevato numero di
vittime civili e per le distruzioni di case ed edifici. Il primo a
cadere sotto il fuoco dei tiratori scelti è stato Ahmad Nizar Muhareb,
29 anni. Poi sono stati uccisi Sidqi Abu Outewi, un 45enne, Mohammed
Saleh, 33 anni, Ibrahim Al-Ourr, 22 anni e altri quattro di cui ieri
sera non era stata ancora accertata l’identità. È stato uno stillicidio
di vite umane, in buona parte giovani. E la striscia di sangue
potrebbe allungarsi perché alcuni dei feriti (oltre mille) sono in
condizioni gravi. Gli spari non hanno risparmiato sei giornalisti,
colpiti secondo i media locali, nonostante fossero chiaramente
identificabili come operatori dell’informazione. A Khuzaa poco dopo è
andato in visita il capo di Hamas a Gaza, Yehiyeh Sinwar, che ha
ricevuto l’accoglienza di un eroe. Circondato da centinaia di
sostenitori che scandivano “Andremo a Gerusalemme”, Sinwar ha
annunciato che il mondo presto si troverà di fronte a «una nostra
grande mossa, con cui violeremo i confini e pregheremo nella moschea di
Al-Aqsa», riferendosi al principale sito religioso islamico a
Gerusalemme. Sinwar ha lanciato una sfida dai rischi incalcolabili, e
non solo per per i palestinesi.
Se questo – oltrepassare le
linee di demarcazione con Israele – sia davvero l’obiettivo di Hamas
non è chiaro. Invece non ci sono dubbi sul fatto che la Marcia del
Ritorno abbia messo nell’angolo il presidente dell’Anp Abu Mazen –
piuttosto tiepido sino ad oggi nei confronti dell’iniziativa in corso a
Gaza – e rafforzato gli islamisti. Abu Mazen ha dovuto frenare i suoi
impulsi e rinunciare ad imporre nuove sanzioni contro Gaza, in risposta
all’attentato al premier dell’Anp Hamdallah e al fallimento, almeno
sino ad oggi, dell’accordo di riconciliazione con Hamas. E le sue mosse
rimarranno congelate ancora a lungo, sino a quando andrà avanti – fino
al 15 maggio dicono gli organizzatori – e con grande partecipazione
popolare l’iniziativa per rompere il blocco israeliano della Striscia
di Gaza.