Corriere 5.4.18
Il surreale dibattito, le baruffe senza fine in casa pd
di Paolo Mieli
Sarà
 un’esperienza singolare stamattina per il capo dello Stato ascoltare i 
due più importanti dirigenti del Pd (il «reggente» Maurizio Martina e il
 capo dei senatori dem Andrea Marcucci) i quali — se saranno fedeli a 
quel che hanno detto nei giorni scorsi — gli ripeteranno, il primo, di 
considerare una iattura un eventuale governo M5S-Lega e, il secondo, di 
«non vedere l’ora» che venga il giorno del giuramento di Luigi Di Maio 
con Matteo Salvini. Manifestate le proprie diversità d’auspicio sul 
governo degli altri, la delegazione del Pd, invece di indicare i propri 
orizzonti, chiederà lumi all’uomo del Quirinale. Dividendosi, nel suo 
piccolo, tra chi spera di essere coinvolto in qualche combinazione 
governativa e chi invece di tale prospettiva non vuole neanche sentir 
parlare. Poi — dopo essere stati, per così dire, consultati — i 
componenti della delegazione, uscendo, daranno ognuno la propria 
versione del colloquio con Sergio Mattarella, inclusi i silenzi, i 
sorrisi, gli sguardi di intesa e le espressioni di disappunto. Sicché il
 loro partito riprenderà ad accapigliarsi proprio sull’interpretazione 
di silenzi, sorrisi, sguardi ed espressioni. Il tutto rimbalzerà quasi 
in tempo reale su Twitter e la sera stessa in qualche dibattito 
televisivo. Forse — se saremo fortunati — già il pomeriggio.
P iù 
resistente e puntuale di qualsiasi altra sitcom, da una trentina d’anni 
va in onda su tutte le reti della nostra tv, a qualsiasi ora del giorno e
 della notte, «Le baruffe piddine». Il serial fece in tempo, sul finire 
degli anni Ottanta, a sintonizzarsi con l’ultima stagione del Pci; poi 
ha mutato parte del nome ogni volta che è cambiata la denominazione del 
principale partito della sinistra italiana. Ma il copione è sempre 
rimasto su per giù lo stesso: discussioni ai confini del surreale tra 
attori (per giunta non pagati) che si accapigliano su cose spesso senza 
senso. In questi giorni vengono trasmesse puntate sempre più frequenti 
che conquistano considerevoli picchi di audience sul litigio tra 
dirigenti del Pd che auspicano un’alleanza di governo con il Movimento 5
 Stelle e altri che la contrastano. Protagonista di questi battibecchi, 
anche quando non è di scena, Matteo Renzi che, dopo aver solennemente 
annunciato il proprio ritiro (provvisorio, per due anni) torna sul 
palcoscenico pressoché quotidianamente per guidare i «suoi» deputati e 
senatori alla resistenza antigrillina. Renzi evidentemente non ha 
fiducia nella lealtà dei propri seguaci, altrimenti se ne starebbe 
davvero per qualche mese in disparte. E non conosce il senso preciso 
della parola «dimissioni» che, una volta pronunciata, richiederebbe una 
congrua assenza dal proscenio (o almeno questo è il significato che le 
dà un comune mortale). Ovvio che da senatore l’ex (?) segretario 
dovrebbe recarsi a Palazzo Madama quando c’è da pronunciarsi con un 
voto. Ma per il resto dovrebbe sparire, quantomeno starsene in silenzio e
 smentire, quasi con maniacalità, ogni frase o intenzione che gli viene 
attribuita. I grandi, ma anche i piccoli, della Prima Repubblica quando 
si dimettevano rimanevano per un lasso di tempo nell’oscurità e 
tornavano alla luce solo dopo qualche mese o anno. Amintore Fanfani 
adottò più volte questa tattica, anzi ne abusò, sicché alla terza o 
quarta riapparizione, si conquistò il soprannome (affibbiatogli da Indro
 Montanelli) di «rieccolo». Ma l’ex segretario del Pd a ogni evidenza ha
 paura del buio, per lui il massimo di allontanamento dalle luci della 
ribalta politica è di qualche ora. Lasciando (ed evidentemente gradendo)
 che su di lui circolino leggende da cui è descritto come un indefesso 
orditore di trame, tuttora regista occulto del partito di cui fu 
segretario. Contento lui…
Sul versante opposto, quello a lui 
ostile di Andrea Orlando, Dario Franceschini, l’auspicio — ammesso che 
così vada inteso — di un’apertura al movimento di Di Maio appare vago, 
sfuggente, allusivo. Tutto è ammantato da criptici riferimenti all’alto 
magistero del presidente della Repubblica. Come se il Pd, il secondo 
partito nel voto degli elettori, avesse come unica prospettiva quella di
 un coinvolgimento d’emergenza nell’area di governo sotto la guida, 
appunto, di Sergio Mattarella. Non c’è neppure — eccezion fatta, 
diamogliene atto, per Michele Emiliano — un pronunciamento chiaro a 
favore del dialogo con i Cinque Stelle. Forse perché la prospettiva di 
un governo nato da tale dialogo farebbe a pugni con l’aritmetica (al 
Senato M5S e Pd — includendo i renziani al gran completo — avrebbero la 
maggioranza per un solo voto) e perché gli stessi grillini — a meno di 
non prendere per buona l’ultima offerta di Di Maio — non hanno dato 
neanche un segnale di apertura in questa direzione. Anzi ne hanno dati 
più d’uno in direzione opposta.
Dopodiché, come ha osservato 
Michele Salvati, l’unico effetto di tale invocazione distensiva sarà 
quello di far credere al proprio elettorato che sia davvero esistita 
l’opzione di un governo Pd e M5S; sicché quando di governo ne nascerà — 
se mai nascerà — uno di segno grillin leghista, il popolo della sinistra
 dovrà caricarsi il peso del senso di colpa per gli attuali dirigenti, 
«postrenziani» ma non ancora «derenzizzati», che, con i loro dinieghi, 
ne hanno favorito la nascita.
Ad accrescere il caos, nelle 
retrovie si sta sviluppando, tra gli artisti d’area, un misterioso 
fenomeno di crescente apprezzamento per le virtù politiche di Matteo 
Salvini. Attori molto apprezzati come Antonio Albanese, Claudio 
Amendola, Margherita Buy — pur non rinnegando la propria appartenenza 
alla sinistra — hanno ritenuto di uscire allo scoperto con parole di 
ammirazione nei confronti del leader leghista. A un tempo, però, un loro
 collega, Ivano Marescotti approdato — nel nome, a suo dire, della 
tradizione comunista — ai lidi pentastellati, ha annunciato che, se Di 
Maio si alleerà con Salvini, lui andrà «in piazza con i forconi». Grande
 è il disordine sotto il cielo. Grande e preoccupante dal momento che il
 Pd — così come gli altri partiti — nei prossimi due mesi dovrà 
cimentarsi con prove elettorali in quattro Regioni: Molise (22 aprile), 
Friuli-Venezia Giulia (29 aprile), Valle d’Aosta (20 maggio), 
Trentino-Alto Adige (27 maggio). E, se non bastasse, il 10 giugno 
andranno al voto altri sette milioni di elettori per scegliere ben 767 
sindaci. Di questi 21 in capoluoghi di provincia, 17 dei quali 
attualmente amministrati da giunte di centrosinistra. In più, quello 
stesso 10 giugno, si voterà in alcuni municipi: a Roma, ad esempio, in 
due, Montesacro-Salaria e Garbatella-Ardeatina, dove il confronto tra Pd
 e M5S non dovrebbe essere perso in partenza: nel Lazio — in cui si è 
votato il 4 marzo scorso in contemporanea con le politiche — ha vinto 
Nicola Zingaretti e la lista Pd ha ottenuto diecimila voti in più di 
quella dei Cinque Stelle (260 mila contro 250 mila). Ovvio che 
converrebbe affrontare una prova del genere mostrandosi compatti e 
disposti alla battaglia contro gli avversari. Ma i dirigenti del Pd e 
più in generale dell’intera sinistra ormai sembrano capaci di combattere
 solo tra di loro.
La sitcom di cui si è detto all’inizio si 
conclude a ogni puntata con un attore, ogni volta diverso, che si alza 
all’improvviso ed esorta i dirigenti della sinistra a «tornare tra la 
gente». In quel momento si scatena regolarmente un uragano di applausi. 
Qualche ora dopo, al massimo il giorno successivo, si ricomincia con il 
copione di sempre. C’è solo da augurarsi — per chi ha a cuore i destini 
della sinistra — che quei piccoli e grandi leader, i quali, in omaggio 
al suggerimento di cui si è detto, saranno andati a rigenerarsi «tra la 
gente», quando faranno ritorno, ritrovino quantomeno le mura di casa.
 
