Corriere 3.4.18
La resistenza ritardataria
Ben pochi italiani prima dell’8 settembre erano disposti a combattere il fascismo
Dall’indagine
 di Olivier Wieviorka sui movimenti di Liberazione dell’Europa dalla 
dominazione nazista (Einaudi) emerge che gli Alleati per lungo temponon 
riuscirono a trovare nostri connazionali che si schierassero dalla loro 
parte
di Paolo Mieli
Quella di Adolf Hitler — 
che iniziò nell’aprile del 1940 con l’attacco alla Scandinavia — fu 
un’offensiva davvero travolgente a cui arrise un successo che Olivier 
Wieviorka in Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945 
(in uscita oggi da Einaudi), definisce «spudorato». Il risultato fu che 
all’inizio dell’estate i principali Paesi europei — Gran Bretagna a 
parte — avevano deposto le armi e da Bruxelles a Varsavia, da Parigi a 
Oslo, da Praga ad Amsterdam sventolava la bandiera nazista. I capi di 
Stato o di governo di Belgio, Norvegia e Olanda avevano trovato riparo a
 Londra; «nutrite schiere di volontari» risposero agli appelli diffusi 
dal francese Charles de Gaulle, dal belga Hubert Pierlot e dal norvegese
 Johan Nygaardsvold e, con il fondamentale sostegno degli Alleati, 
diedero inizio ad una resistenza contro le truppe che marciavano dietro 
il vessillo con la croce uncinata.
Finita la guerra, però, 
dappertutto nei Paesi che avevano resistito fu promossa una politica 
della memoria che «minimizzava il contributo degli Alleati quando 
addirittura non lo passava sotto un indifferente silenzio». Lo stesso de
 Gaulle nel discorso che tenne a Parigi il 25 agosto del 1944 rese 
omaggio al proprio Paese liberato «con le proprie mani», dal suo popolo 
«con l’aiuto degli eserciti della Francia, con l’appoggio e il concorso 
della Francia tutta, della Francia che lotta, dell’unica Francia, della 
vera Francia, della Francia eterna!». Limitandosi a salutare con «un 
fugace e striminzito omaggio» i «nostri cari e ammirevoli alleati». In 
Danimarca la Resistenza fu considerata come qualcosa a cui i britannici 
si erano limitati a «fornire i mezzi». E fu così dappertutto. Lì per lì 
la cosa parve naturale. Del resto, come ha osservato lo storico Pieter 
Lagrou, «esaltare il contributo dei movimenti di resistenza endogeni era
 l’unico modo che quei Paesi avevano a disposizione per costruire un 
mito nazionale».
Questa «visione idilliaca», tuttavia, corrisponde
 ben poco, scrive Wieviorka, «ai fatti, quantomeno a quelli colti dagli 
storici». Anche per quel che riguarda la coalizione nata all’ombra 
dell’Union Jack e della bandiera a stelle e strisce che «risentì degli 
aspri rancori del periodo tra le due guerre e portò con sé concezioni 
divergenti, quando non opposte, dell’avvenire dell’umanità». È noto che,
 pur cooperando, Londra e Washington vennero più volte ai ferri corti. 
Quanto ai fattori nazionali, ebbero sì «un ruolo eminente nella nascita 
della Resistenza», ma poi, nella crescita della reazione ai nazisti, «la
 parte svolta dagli angloamericani fu di indiscutibile centralità».
Se
 vogliamo ricostruire la storia della Resistenza in Norvegia, Danimarca,
 Paesi Bassi, Belgio, Francia e Italia — la zona di intervento 
angloamericana — è necessario, secondo Wieviorka, sfuggire a «quattro 
forme di semplificazione». La prima è di «credere che gli Alleati 
onnipotenti tirassero le fila delle resistenze locali». La seconda di 
«ritenere che queste ultime potessero svilupparsi adeguatamente senza 
aiuti esterni». La terza di «immaginare che la necessità di abbattere il
 nazismo abbia fatto scomparire d’un sol colpo le logiche di interesse».
 La quarta di «sopravvalutare il ruolo svolto dalla dimensione nazionale
 della lotta comune». Ne viene fuori un quadro assai più sfaccettato di 
come andarono le cose.
Quel che davvero accadde nell’Europa 
continentale travolta dalle armate naziste fu assai poco lineare. 
Spesso, anzi, assai in contrasto con la versione accreditata degli 
eventi. A partire dalla stizzita reazione francese alla subitanea 
capitolazione dell’Olanda e del Belgio. «Ecco che nel vivo della 
battaglia il re del Belgio Leopoldo III, senza degnare neppure di uno 
sguardo e una parola i soldati francesi e inglesi che in risposta al suo
 appello angosciato erano accorsi in aiuto del suo Paese, ha deposto le 
armi», protestava il presidente del Consiglio francese Paul Reynaud, 
stigmatizzando la resa belga come «un fatto storico senza precedenti». 
Per proseguire con lo sconcerto generale allorché, dopo l’invasione 
hitleriana della Norvegia, il partito comunista locale, allineato sulle 
posizioni di Mosca, chiese la collaborazione con Berlino pur reclamando 
«per contrappeso» l’abdicazione del re Haakon (fuggito in Inghilterra) e
 la formazione di un «governo degli operai, dei contadini e dei 
pescatori». Anche la regina Guglielmina d’Olanda riparò in Gran Bretagna
 mentre il «suo» governo (guidato da Dirk Jan de Geer, presto indotto 
alle dimissioni) cercava la via di un compromesso con Hitler. In Belgio,
 il ministro degli Esteri Paul-Henri Spaak confortava il re Leopoldo III
 scrivendogli che, se la Germania non avesse riportato al più presto 
«una vittoria decisiva», il suo destino sarebbe stato di essere 
«sconfitta». Era il 26 maggio 1940. Quarantott’ore dopo, il 28 maggio, 
l’esercito belga si arrese, il re si consegnò prigioniero e l’intero 
Consiglio dei ministri riparò in Francia, ai primi di luglio fu a Vichy 
per cercare una trattiva con il Führer. Tutto ciò mentre il ministro 
della sanità Marcel-Henri Jaspar era scappato in Inghilterra per 
pronunciare dalla Bbc un discorso echeggiante quello del generale de 
Gaulle. Dopodiché i ministri, mai presi in considerazione da Hitler, 
espatriarono in Inghilterra, dove però non furono considerati granché a 
causa della loro performance alla corte di Philippe Pétain.
In 
ogni caso la stessa Londra esitava a rompere con Vichy nella speranza 
che alcuni importanti ufficiali — come il generale Weygand — «passassero
 prima o poi al campo della libertà». Winston Churchill ordinò sì il 
cannoneggiamento della squadra navale francese ancorata nella base 
algerina di Mers el-Kebir, nei pressi di Orano (ciò che provocò la 
rottura tra Londra e Vichy), ma cercò ancora di tenere il piede in due 
staffe evitando di affidarsi in toto a de Gaulle e di infierire sul 
vincitore di Verdun. Una Francia neutrale, dal suo punto di vista, 
«restava preferibile a una Francia legata mani e piedi alle sorti del 
Reich». Un identico calcolo fu alla base della strategia britannica nei 
confronti della Danimarca. Un quadro assai confuso. Così come l’altro 
quadro, quello del contrasto europeo al nazismo, fu assai deludente.
A
 questo punto il ministro dell’Economia di guerra, il laburista Hugh 
Dalton, scrisse a Churchill: «Dobbiamo organizzare nei territori 
occupati dal nemico movimenti paragonabili al Sinn Féin irlandese, alle 
guerriglie cinesi attualmente operative contro il Giappone, agli 
irregolari spagnoli che tanto peso hanno avuto nella campagna di 
Wellington (contro Napoleone, 1808-13) o ancora — si può ben ammetterlo —
 alle organizzazioni che gli stessi nazisti hanno sviluppato in modo 
così degno di nota in quasi tutti i Paesi del mondo». Hugh Dalton 
proponeva di costituire un’«Internazionale democratica» — fu lui stesso a
 definirla così — che avrebbe dovuto produrre «sabotaggio industriale e 
militare, scioperi e agitazioni dei lavoratori, propaganda incessante, 
atti terroristici contro i traditori e i capi tedeschi, boicottaggi e 
sommosse». Il 19 luglio del 1940 nacque il Soe (Special Operations 
Executive) che fu annesso al ministero di Dalton con il compito di 
«incendiare l’Europa».
Non fu affatto semplice dar inizio alle 
operazioni. La disponibilità ad opporsi ai nazisti, gradualmente andò 
aumentando in tutti i Paesi d’Europa, tranne in Italia. «Non abbiamo 
nessun italiano in addestramento», si dispiaceva il capo del Soe 
nell’ottobre 1941, «non abbiamo linee in Italia (a parte due vaghi 
contatti con base in Svizzera); e abbiamo assolutamente fallito nel 
reclutamento di persone che potessero servire al Regno Unito, al Medio 
Oriente o a Malta».
Wieviorka fa osservare che le condizioni 
dell’Italia (fino all’8 settembre del 1943) sono diverse da quelle degli
 altri Paesi occupati dalle armate hitleriane. Nel senso che il nostro 
Paese, fino all’estate del 1943, è ancora sotto il regime mussoliniano e
 alleato con Hitler. Però gli inglesi ugualmente non si capacitano 
dell’apatia politica degli italiani (escludendo i comunisti con i quali 
non entrarono se non marginalmente in contatto). Poi, con l’andare del 
tempo, per quel che riguardava l’Italia, scrive Wieviorka, «la Gran 
Bretagna passò di delusione in delusione».
Gli inglesi non 
avrebbero voluto far perno sugli esiliati che consideravano «sconosciuti
 o dimenticati dai loro compatrioti» (come il conte Carlo Sforza, don 
Luigi Sturzo o Gaetano Salvemini, che pure aveva creato nel 1939 la 
«Mazzini Society»). Si illusero che potesse accendere una miccia Carlo 
Petrone, rifugiato in Inghilterra dal 1939, al quale nel gennaio del 
1941 fu affidato il compito di dar vita ad un Comitato dell’Italia 
libera. Ma si accorsero ben presto che Petrone era «assolutamente ignoto
 al grande pubblico», le sue capacità di manovra apparivano «sommarie», 
il suo ascendente «limitato». Inoltre in luglio alcuni membri del 
Comitato si rivoltarono, revocarono il mandato a Petrone e lo 
sostituirono con Alessandro Magri, «un annunciatore che lavorava per la 
propaganda britannica», messo su due piedi a capo del Movimento 
dell’Italia libera. Risultato? Petrone sostenne di essere stato 
esautorato per il fatto di esser lui un cattolico e inondò di 
rimostranze le autorità britanniche. «Molti miei amici come io stesso», 
scriveva, «siamo preoccupati della tendenza di estrema sinistra che 
sembra prevalere in seno al Movimento dell’Italia libera... Comincia ad 
apparirmi necessaria la formazione di un nuovo organismo, più 
rappresentativo, in grado di esprimere i sentimenti degli italiani che 
sono leali nei confronti di questo Paese e più aggiornati sulla 
situazione che regna nel nostro». Poi aggiungeva considerazioni che al 
Foreign Office furono lette con un certo stupore: «Su un centinaio di 
membri (del gruppo capeggiato da Magri, ndr ) più della metà sono ebrei.
 Va sottolineato che un tale movimento non è rappresentativo della 
situazione esistente in Italia». Anche se si sentì in dovere di 
precisare: «Non parlo evidentemente “da un punto di vista razziale” ma 
da un punto di vista psicologico, sociale e religioso». I britannici 
stabilirono che Petrone era diventato «un fastidio».
A questo 
punto i britannici andarono a cercare ribelli italiani tra gli internati
 nei campi di prigionia in India e in Africa del nord. A loro fu rivolto
 un appello alla lotta che però non venne raccolto. Purtroppo, si legge 
su un rapporto dei servizi britannici, «i soldati italiani catturati 
sono perlopiù assolutamente felici di restare prigionieri e non mostrano
 alcun desiderio, mosso dal denaro o da altri motivi di rientrare nel 
loro Paese alla ventura». Per attirare i volontari dai campi di 
internamento, ricostruisce Wieviorka, fu addirittura lanciato un 
giornale «La Diana», «dalle colonne piene d’amore e di sesso, due 
argomenti ritenuti attraenti per dei maschi privati dei piaceri della 
carne». Ma senza risultato. A un certo punto gli inglesi imputarono 
questi insuccessi all’assenza di un «capo prestigioso» un «de Gaulle 
italiano» che, dopo molte ricerche, fu individuato nel generale Annibale
 Bergonzoli, soprannominato «barba elettrica». Ma il generale Francis 
Davidson dopo un periodo di collaborazione ne fornì questo ritratto: 
«Ritenuto dai bersaglieri un ciarlatano, compie improvvise visite a 
sorpresa nelle unità e raramente si fa trovare in ufficio... Lo ritengo 
inadatto a diventare il capo di qualsiasi movimento dell’Italia libera 
essendo di temperamento esaltato e vagamente instabile. Ha probabilmente
 raggiunto il rango che ricopre sottomettendosi al Partito fascista. In 
ogni caso quando ha combattuto contro di noi ha mostrato più velocità 
che fegato».
La lotta clandestina in Europa fu poi danneggiata, 
secondo Wieviorka, dai paraocchi ideologici dei grandi leader degli 
Stati Uniti e della Gran Bretagna. Il «gretto antigollismo» di Franklin 
Delano Roosevelt «indebolì l’efficacia della Resistenza francese», così 
come il «conservatorismo» di Winston Churchill «sfavorì la sua omologa 
italiana, a cui fu intimato di sottomettersi a un re senza più credito e
 a un maresciallo in pesante passivo». Beninteso: «Con o senza 
Resistenza, l’Europa occidentale sarebbe stata liberata dalle forze 
angloamericane». Ma, riconosce l’autore, i partigiani favorirono 
l’avanzata delle truppe alleate e permisero di limitare il costo umano 
di un conflitto spaventoso. Evitarono anche pericolosi vuoti di potere, 
«riuscendo a farsi carico del passaggio di testimone fra le autorità 
tedesche, sostenute da minoranze collaborazioniste, e i nuovi governi». E
 questo non fu un dettaglio da poco.
 
