martedì 3 aprile 2018

Corriere 3.4.18
L’identità del Pd
Ora Renzi esca dalla tenda
di Ernesto Galli della Loggia


C’è qualcosa nell’attuale condizione del Pd che ricorda quella del Partito socialista all’indomani delle elezioni del 1976. Ridotto al suo minimo storico il Psi usciva allora dalle urne con le ossa rotte; l’intero gruppo dirigente del partito appariva virtualmente fuori gioco; la strepitosa avanzata dei comunisti segnava il fallimento della sua quindicennale collaborazione con la Democrazia cristiana lasciandolo privo di una strategia. Tutto questo mentre il sistema politico sembrava ormai avviato a una qualche forma di stabile bipolarismo Dc-Pci. Una certa somiglianza con l’oggi come si vede c’è. Si sa come invece andarono le cose. Per ragioni che qui è inutile ricordare il connubio tra democristiani e comunisti ebbe solo uno sviluppo embrionale, e da lì a non molto il Partito socialista riacquistò per un decennio abbondante un ruolo assolutamente centrale nella vita politica del Paese come protagonista di un nuova serie di governi di centrosinistra.
A che cosa fu dovuto quel mutamento sul quale all’indomani delle elezioni del ’76 pochi avrebbero scommesso? Sostanzialmente a tre fattori. Innanzitutto al fallimento del disegno politico mirante all’accordo Pci-Dc che avrebbe relegato in un angolo i socialisti. E poi al fatto decisivo che questi seppero trovare una nuova e abile leadership pronta a dare battaglia.
Non solo: trovarono anche una nuova marcata identità politico-ideale (e pure i soldi allora necessarissimi — oggi no? — per fare politica: ma su questo è meglio stendere il velo misericordioso dell’oblio).
L’evocazione dei tre fattori che allora giocarono a favore dei socialisti aiuta a capire le prospettive che si aprono oggi davanti al Pd.
Comincio dalle possibilità di successo dei suoi avversari. Che in verità non sembrano molto alte. Nessuno di loro, infatti, né la coalizione di destra né i Cinque Stelle, ha la possibilità di governare da solo; dunque se il Pd non collabora sono obbligati a formare un governo insieme. Ma perché ciò accada è necessario che venga superato uno scoglio non da poco, Silvio Berlusconi: dal momento che per i grillini accettare la sua partecipazione in qualunque modo alla maggioranza è impossibile, pena la rivolta armata del loro elettorato; e dall’altra parte per la Lega è altrettanto impossibile rinunciare oggi a quella partecipazione, vale a dire prima che Salvini — compiuto il suo riposizionamento in chiave «nazionale» e, aggiungo, liberatosi delle punte di estremismo piazzaiolo che fin qui lo hanno caratterizzato — abbia avuto il tempo di riassorbire l’elettorato di Forza Italia. Anche andare da sola al governo con i Cinque Stelle per la Lega non è per nulla facile. Significherebbe iniziare una difficile coabitazione ministeriale in posizione di grave debolezza: sia perché alle prese con un socio di stazza doppia rispetto alla propria, sia perché ciò implicherebbe tagliarsi i ponti alle spalle con il potenziale bacino elettorale rappresentato da Forza Italia. E dunque rinunciare a qualunque futuro disegno egemonico sulla Destra. Altri governi più o meno pasticciati sono forse possibili, è vero: ma di sicuro debolissimi e di vita brevissima.
Dunque, in particolare il futuro dei Cinque Stelle, che sono stati i veri rivali elettorali del Pd, non appare per nulla facile. Il loro potere di coalizione è assai scarso ed essi rischiano di restare prigionieri della loro stessa vittoria. Di conseguenza non sembra esserci nessuna impellente ragione strategica perché i Democratici pensino di dover diventare i loro junior partner di governo: come se nel 1976 i socialisti sconfitti avessero deciso di allearsi immediatamente con la Dc .
Come fare però senza un leader? Questo è oggi il vero problema del Pd, di un Pd che per ricostituire la propria identità ideale e politica decida di tenersi fuori dai giochi di governo. Senza un leader, tra l’altro, anche ricostituire la suddetta identità diventa un’impresa quasi impossibile.
Diciamo allora le cose come stanno: allo stato attuale in quel partito esiste una sola persona che per temperamento, per grinta, per audacia e per capacità d’iniziativa abbia la stoffa di un capo. E quella persona, piaccia o non piaccia, si chiama Matteo Renzi. Il guaio è che se Renzi ha temperamento gli fa però difetto in grande misura il carattere. Senza contare, ciò che è quasi più grave, che egli non si è mai curato di dare alle proprie ambizioni una base di conoscenze e di riflessioni più ampia di quella che aveva quando è arrivato a Palazzo Chigi. Per chi si dedica alla politica avere carattere vuol dire avere, per esempio, l’umiltà di capire i propri errori e la voglia di correggerli non sentendosi perciò sminuito; non indulgere alle promesse demagogiche («Visiterò ogni settimana una scuola» fu detto all’inizio...); farsi un’idea non sommaria delle questioni e perseguirla senza tentennamenti; ma anche scegliere collaboratori capaci di dire no e sceglierli proprio per questo, o, per dirne un’altra, evitare di andare a tutte le riunioni di tutte le Confqualcosa d’Italia per riceverne gli omaggi (e magari in separata sede qualche donazione per la Leopolda).
Quanto al problema dell’identità del Pd, Renzi ha avuto sì il merito di mandare in soffitta tutto il ciarpame del sinistrismo postcomunista che soffocava il suo partito, ma non ha capito che contemporaneamente egli doveva sostituire il vecchio con qualcosa di nuovo che comunque, però, continuasse a definire il Pd come un partito di sinistra. Ha pensato invece che un partito di sinistra dovesse qualificarsi essenzialmente come il partito alleato della modernità, laddove al contrario esso avrebbe dovuto innanzitutto criticarne i molti aspetti negativi: in modo nuovo — non pregiudiziale, certo, e indicando soluzioni nuove — ma criticandola. Un affare per nulla facile, lo so, ma dai partiti socialdemocratici una grande parte dell’elettorato si aspetta di avere questo: libertà e sviluppo, e insieme protezione ed eguaglianza. Sicché è necessario farle vedere che è precisamente in questa direzione che ci si muove, altrimenti è facile che essa si rivolga alle ricette dei demagoghi. Al leader di un partito di sinistra una base personale adeguata di conoscenze e di riflessioni serve per l’appunto a capire, a cercare di capire, come si fa. E dovrebbe servire anche a parlare facendo discorsi veri piuttosto che infilando una sequela di battute più o meno felici.
Matteo Renzi appare oggi chiuso in un rancoroso silenzio, intento quasi, si direbbe, a pregustare il sapore della sua futura vendetta contro i nemici interni ed esterni. Ma così ancora una volta egli sbaglia i tempi: ritirandosi sotto la tenda fa oggi quello che semmai avrebbe dovuto fare — ma per sua disgrazia non ha fatto — dopo la sconfitta referendaria. Sbaglia, io penso, perché il suo momento di parlare è proprio ora. Ora è il momento di mettersi totalmente in gioco. Ora è il momento di mostrare di aver capito dagli errori commessi, di mostrare di voler cambiar strada, di indicare con l’energia e il temperamento che egli possiede verso quali nuovi modi d’essere e di pensare il Partito democratico deve muoversi. Ora è il momento di dire se esso vuole o no tornare nuovamente a presidiare i territori sociali e geografici del Paese che ha abbandonato a se stessi e ai più screditati notabili. Per Renzi il finale di partita non è per domani, è per oggi: prima che in un modo o nell’altro, sotto l’incalzare degli eventi e per la pochezza dei vertici del Nazareno, avvenga lo scompaginamento definitivo del suo partito, il virtuale rompete le righe della Sinistra italiana.