Corriere 29.4.18
Prevarrà la forza militare Usa o l’economia della Cina? La vera sfida sul 38° parallelo
di Maurizio Caprara
Una
staticità durata decenni e un paio di luoghi comuni infondati sono
stati scossi dai fatti venerdì scorso, quando il presidente della Corea
del Sud Moon Jae-in si è sentito quasi infantilmente prendere per mano a
Panmunjom dal dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un.
Quella
linea di demarcazione al 38° parallelo che ha permesso a un clima di
guerra fredda di sopravvivere alla fine dell’Unione sovietica, quasi
estraneo allo scorrere del tempo, potrebbe diventare un laboratorio sul
futuro di fondamentali rapporti di forza. È sulla sorte della fascia di
divisione tre le Coree tenuta d’occhio da un’infinità di generali che
sarà sottoposta ad esami una parte delle relazioni tra gli Stati Uniti e
la Cina, ossia fra la principale potenza militare del mondo e la
seconda economia del pianeta. Non sono esami privi di rischi. E altre
due tesi che qualcuno considera dogmi sono state smentite.
La
prima: le sanzioni non servono mai a niente, come spesso si sente dire.
Non è vero. Dipende dai casi. Kim Jong-un, da capo della dittatura
bolscevico-dinastica di Pyongyang, ha messo alla prova il triplo dei
missili balistici lanciati da padre e nonno sommati insieme e ha subito
un embargo d’intensità rara. Il Consiglio europeo, per esempio,
considera le sanzioni contro la Corea del Nord le più dure alle quali un
Paese è stato sottoposto dall’Ue e ha varato le misure più recenti il
20 aprile. La pressione internazionale ha pagato.
La seconda tesi
smentita è un pregiudizio: i profughi sono soltanto un costo per le
società. Non è vero, e la storia lo aveva già dimostrato in abbondanza.
Figlio di rifugiati nordcoreani è Moon Jae-in, il presidente del Sud che
ha dato impulso alla svolta di passare dalla contrapposizione tra le
due Coree al dialogo. È stato innanzitutto lui a sforzarsi affinché si
parlasse con Kim Jong-un tenuto sotto pressione anche da Seul, mentre
Donald Trump rispondeva ai suoi lanci di missili minacciando «fuoco e
furia».
Resta ancora azzardato ritenere scontato un percorso
rettilineo e soddisfacente del processo avviato tra le due Coree. La
Cina va tenuta presente per capire a quali esiti potrà portare perché un
calo di tensione, anche se determinato da sviluppi positivi, potrebbe
generare vuoti, spazi d’azione prima inesistenti che qualcuno
riempirebbe. Attualmente si prevede per fine maggio o inizio giugno il
primo incontro tra il presidente degli Stati Uniti e il dittatore della
Corea del Nord. Oltre a essere la prevalente partner economica di
questa, la Repubblica popolare cinese ha in Pyongyang non solo
un’alleata bizzarra capace di sfuggirle di mano. La Corea del Nord, con
la quale confina per 1.352 kilometri, è per la Cina un cuscinetto utile a
mantenere distanti i 28.500 militari americani dislocati nel Sud della
penisola coreana. Che cosa succederebbe se subisse influenze diverse
dalla cinese?
Benché costituisca un passo in avanti almeno nel
clima, la dichiarazione diffusa venerdì da Moon Jae-in e Kim Jong-un
indica traguardi non semplici da tradurre in realtà. Per «dichiarare una
fine della guerra» combattuta tra 1950 e 1953, mai chiusa da un
trattato di pace, il testo informa che le Coree del Sud e del Nord hanno
«concordato di perseguire» incontri «trilaterali che coinvolgano le due
Coree e gli Usa o incontri che coinvolgano le due Coree, gli Usa e la
Cina». Che a negoziare su trattato di pace e assetti futuri Pechino ci
sia o no non è un dettaglio.
Da definire, poi, è in quali termini
si può realizzare il proposito di arrivare a una «denuclearizzazione
della penisola coreana» con «il sostegno e la cooperazione della
comunità internazionale». In passato, Pyongyang ha impiegato la
richiesta di denuclearizzazione per prendere tempo e procedere verso la
costruzione di bombe atomiche.
Per quanto lontana, l’Italia ha
motivo di occuparsene. Nel 2000 fu il primo tra i principali Paesi
dell’Ue ad accreditare un ambasciatore in Corea del Nord. Nel 2017 ha
presieduto il comitato sanzioni nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Nella nuova legislatura chi se ne occuperà ancora?